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Alessandro Talotti, dall’Olimpiade al tumore: "Le chemio come l’asticella del salto in alto"

Carlo Filippo Vardelli

Aggiornato 04/11/2020 alle 17:12 GMT+1

Il friulano di Udine, dopo due Olimpiadi, Europei e Mondiali nel salto in alto, ha combattuto la sfida più difficile: un cancro durante il covid mentre la moglie aspettava il loro primo figlio. Le sue parole raccolte dal Corriere della Sera

Alessandro Talotti, Atene 2004

Credit Foto Getty Images

La nostra storia di oggi parte da domanda un po’ strana e anacronistica: quanto può saltare in alto un atleta a fine carriera?
Il salto in alto è una disciplina particolare. Sei da solo, contro te stesso e contro gli altri. Devi saltare, e devi farlo parecchio in alto per battere tutti quanti. Ma non basta andare in alto, bisogna essere scupolosi: al minimo tocco dell’asticella, tutto svanisce. Una virgola fuori posto, e la prestazione è da buttare. Non bisogna sbagliare e bisogna rimanere concentrati. È one shot. Fai giusto e vai avanti. Sbagli e sei fuori. Sport crudele ma bellissimo.
E quindi, data la bellezza della competizione, perché mai dobbiamo concentrarci sugli atleti a fine carriera? Vederli nel loro prime è una goduria. Da a Barshim, passando per Sjoberg ed il campione olimpico Drouin. Perché alla domanda iniziale una risposta c’è, e a darcela è proprio un atleta a fine carriera: Alessandro Talotti, ex olimpionico azzurro.

La crisi

Durante la pandemia, Alessandro viene colpito da un cancro che dall’intestino si diffonde in altre parti del corpo. Le sua parole al Corriere della Sera.
“I medici mi chiedevano se me la sentivo di affrontare un nuovo ciclo, io rispondevo di sì. Se la tua vita è stata superare un’asticella a due metri e venti il tuo corpo diventa così sensibile da percepire e amplificare anche il minimo fastidio. Il lavoro che il saltatore fa su se stesso è annullare quel dolore, risparmiare le forze e trovare segnali positivi in altre parti del corpo sottraendo energia alla negatività. Così passavo le ore, i giorni e le notti in ospedale e a casa. Le prime otto chemio come i primi otto salti sono andate benissimo, dopo l’ottava sono stato da cani per 11 giorni, tirato su a forza di flebo. Come se avessi abbattuto l’asticella. Non ho mollato, sono andato avanti, ho superato anche gli incubi prima di entrare in sala terapie, uguali a quelli irrazionali che ti vengono di fronte a un’asticella troppo alta e ti paralizzano”.
Sei mesi dopo, con un’operazione e undici cicli di chemio la situazione è questa: Talotti convive con una stomia, fatica ad allacciarsi le scarpe e prosegue la sua battaglia. Ha un figlio, perché proprio mentre cercava di superare l’asticella più alta della sua vita, sua moglie Silvia è rimasta incinta. È nato venerdì, si chiama Elio, ed è stato una parte importante del lungo processo: “l’ecografia al terzo mese è stata gioia pura”.
Però, la vera fuoriclasse è stata sua moglie. Silvia ha fatto la differenza. Ha tenuto in piedi Alessandro e ha lavorato da sola con il figlio in arrivo: tutto in mezzo alla pandemia.
“Sono rimasto per due settimane in reparto, solo con una vecchietta appena operata all’anca: il Covid aveva bloccato tutto. Da fuori si sentivano il silenzio di Udine in lockdown e il rumore delle sirene. Con Silvia ufficialmente incinta del nostro primo figlio e con mia madre non aveva voce per parlare. Sento che condividere la mia esperienza in un momento storico come questo è fondamentale, e per questo sto pensando di scrivere un libro: la vera sofferenza non è dover stare chiusi in casa per la pandemia. Ho anche avuto la conferma che tra noi due è mia moglie Silvia (atleta anche lei, sei ori mondiali nel pattinaggio artistico a rotelle) è la fuoriclasse. Io in pedana ero Talotti, uno che saltava 2 metri e 32 ed è arrivato alle finali olimpiche, lei è Sotomayor, il cubano che volava altissimo, ha stabilito il primato mondiale e vinto le Olimpiadi”, sempre dall'intervista al Corriere.

La regola da seguire

La pedana più importante della vita sembra superata, però con queste asticelle mai dire mai. "Non so se ne uscirò e nemmeno come”. Anche se, sotto sotto, Alessandro la tecnica la conosce. È sempre la stessa, dal primo giorno della sua vita fino ad oggi.
“Per un saltatore in alto il momento più difficile è quello tra un tentativo e l’altro: ti siedi in un angolo, vedi l’asticella salire, senti il corpo esaurire le energie mentali ed elastiche, i tendini bruciare e hai paura di volare. In quel tempo sospeso, infinito, devi restare positivo e pensare solo a saltare di nuovo”.
Vai Alessandro, un altro salto ancora.
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