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Fiona May, storia di una bambina ribelle e naif che amava saltare in pista

The Owl Post

Aggiornato 12/12/2020 alle 07:46 GMT+1

Prosegue il viaggio verso le Olimpiadi di Tokyo 2020 e dopo aver conosciuto alcuni atleti che il prossimo anno porteranno alto il tricolore in Giappone, è tempo di raccontare le storie di ha reso grande l’Italia negli anni passati, protagonisti di Giochi Olimpici e di medaglie al collo come Fiona May.

Fiona May, la bimba ribelle che saltava

Credit Foto Eurosport

A me la scuola non piaceva per niente. Preferivo fare sport, che era la scusa perfetta per stare lontana dai libri. Gli anni ’80 in Inghilterra non erano un periodo facile, in tutta la scuola ero la sola ragazza di colore. I miei genitori erano arrivati lì dalla Giamaica ed erano dei grandi lavoratori. Ogni anno, a scuola, organizzavano lo “Sports day” e tutti potevano venire a vedere i propri figli competere in diverse discipline. Io correvo sempre le 50 yard e vincevo tutte le volte, anche contri i ragazzi. Mi era capitato di guardare l’atletica in televisione, qualche volta, ma non pensavo che sarei mai potuta diventare come loro, per me era solo un gioco. Ero molto naïf.

1. L’atletica per divertimento, mica seriamente

Un giorno, un professore, non mi ricordo se fu Mr. Taylor o Mr. Walkins, chiamò i miei genitori e li convinse a portarmi al campo di atletica per una prova. Ci andammo di domenica, e rimasi a bocca aperta nel vedere tutti quei ragazzi che correvano e saltavano. La loro bellezza mi riempì subito gli occhi. Si avvicinò il presidente e mi chiese: “Fiona ti piace correre?” “Si! Ma non come loro!” risposi, indicando gli atleti in campo. A me piaceva correre, ma per divertimento, non seriamente.
“Dai, prova a fare un giro di pista!” Feci un 400. Sciolta. Leggera. Come se non avessi mai fatto altro nella vita. Rimasero tutti stupiti e il presidente mi chiese: “Ma quanti anni hai?” “11” “Ah. Peccato. Il minimo per iscriversi è 12. Torna l’anno prossimo e troveremo un posto per te!”
Ci provai in tutte le maniere a fargli cambiare idea, ma niente. Ho pianto per tre giorni di fila e poi ho fatto promettere a papà che l’anno seguente mi ci avrebbe riportato. Cascasse il Mondo.
Le promesse dei bambini a volte sono passeggere, e così come sono venute possono anche andarsene. Non fu questo il caso. Per un anno feci lezioni di danza e corsi di teatro, oltre a tutte le attività sportive proposte dalla scuola, dall’hockey su prato fino al netball. Ma io mi ero segnata la data sul calendario, non me la sarei lasciata scappare, e papà mantenne la parola data. Non appena siamo tornati al campo di atletica, sono andata dal Presidente e con un tono bello deciso gli ho chiesto:
“Presidente buongiorno, si ricorda di me? Devo fare un altro giro?” Lui si mise a ridere e mi rispose: “No, Fiona.” e poi aggiunse, rivolto al mio papà “questa è una furba!”
Fiona May, i dati

2. Sono stata bocciata

La crescita fu costante, naturale, stare in pista era il mio elemento. Sono arrivata alle Olimpiadi di Seul del 1988 che era ancora una ragazzina, ma ero comunque già la miglior saltatrice britannica. Di quella edizione dei Giochi ricordo soprattutto la grandezza. Sua e dei campioni che ne presero parte. Pochi mesi prima avevo vinto il mondiale Juniores e per questo gli addetti ai lavori conoscevano il mio nome. Quando però al villaggio vidi passare Carl Lewis e lui mi salutò con un sorriso rimasi pietrificata: “ma che cavolo ci faccio qui?”. Passai tutte l’Olimpiade ad ammirare i grandi dell’epoca: il figlio del vento, Jackie Joyner Kersee e Linford Christie. Mi buttai nel Mondo, per la prima volta, e fui felice di ammirarne le stelle.
Da quel giorno in avanti, l’atletica mi ha dato tanto e mi ha permesso di viaggiare molto, anche se per renderlo possibile a tutti gli effetti è stato necessario cambiare completamente vita. Archiviate le Olimpiadi dopo, quelle di Barcellona, con un mezzo disastro, durante il quadriennio successivo mi trasferii in Italia, stravolgendo la mia carriera. Ai Giochi del 1992 ero arrivata scarica, fu l’anno della mia laurea e questo mi aveva tolto tante energie fisiche e mentali. Ottenuto quel traguardo, quel pezzo di carta così importante, avrei potuto dedicarmi interamente all’atletica. Tutto quello che volevo dalle mie giornate era un posto dove potermi allenare al meglio, dormire e mangiare. Nient’altro.

3. Le Olimpiadi di Seoul 1988

La crescita fu costante, naturale, stare in pista era il mio elemento. Sono arrivata alle Olimpiadi di Seul del 1988 che era ancora una ragazzina, ma ero comunque già la miglior saltatrice britannica. Di quella edizione dei Giochi ricordo soprattutto la grandezza. Sua e dei campioni che ne presero parte. Pochi mesi prima avevo vinto il mondiale Juniores e per questo gli addetti ai lavori conoscevano il mio nome. Quando però al villaggio vidi passare Carl Lewis e lui mi salutò con un sorriso rimasi pietrificata: “ma che cavolo ci faccio qui?”. Passai tutte l’Olimpiade ad ammirare i grandi dell’epoca: il figlio del vento, Jackie Joyner Kersee e Linford Christie. Mi buttai nel Mondo, per la prima volta, e fui felice di ammirarne le stelle.
Da quel giorno in avanti, l’atletica mi ha dato tanto e mi ha permesso di viaggiare molto, anche se per renderlo possibile a tutti gli effetti è stato necessario cambiare completamente vita. Archiviate le Olimpiadi dopo, quelle di Barcellona, con un mezzo disastro, durante il quadriennio successivo mi trasferii in Italia, stravolgendo la mia carriera. Ai Giochi del 1992 ero arrivata scarica, fu l’anno della mia laurea e questo mi aveva tolto tante energie fisiche e mentali. Ottenuto quel traguardo, quel pezzo di carta così importante, avrei potuto dedicarmi interamente all’atletica. Tutto quello che volevo dalle mie giornate era un posto dove potermi allenare al meglio, dormire e mangiare. Nient’altro.
Fiona May: "Gli italiani mi hanno dato un amore"

4. Le Olimpiadi di Atlanta 1996

Nonostante i risultati la Federazione inglese non mi offriva nulla del genere e il mio vecchio allenatore mi disse, con onestà: “Se vuoi fare un passo avanti ancora, se vuoi arrivare alle medaglie devi andare altrove”. L’Italia mi offriva tutto questo, ma non fu una decisione facile. far scattare la molla furono le parole dei miei genitori, che mi dissero: “Fallo, e non ti preoccupare, se non dovesse andare bene c’è sempre una casa dove ritornare”
All’inizio non fu facile ambientarmi. Erano gli anni ’90, senza i voli low cost, senza internet e senza whatsapp. Ma l’Italia fu gentile con me ed io fui gentile con lei. Nel ’94 arrivò la prima medaglia con la maglia azzurra, bronzo agli Europei di Helsinki. L’anno seguente un inaspettato oro ai Mondiali di Goteborg, che cementò tantissimo il senso di appartenenza al mio nuovo Paese. Fino all’apoteosi dell’anno seguente, le Olimpiadi di Atlanta 1996 dove vinsi la mia prima medaglia Olimpica.
Io sono stata un’atleta noiosa. Non ero mai contenta delle mie gare. Sempre alla ricerca del pelo nell’uovo. Sempre alla ricerca di qualcosa che avevo sbagliato. Ma di quella edizione dei Giochi ricordo come se fosse ieri quando Alessandro Lambruschi, che correva i 3000 siepi, dopo essere arrivato terzo, travolto dalla gioia, mi prese in braccio gridando: “Fiona, Fiona ho vinto il bronzo!” Ero imbarazzatissima, ma felice di essere parte di un gruppo tanto unito.
Fiona May: "Sono stata bocciata"

5. Italia gentile ma non con tutti…

Gli italiani mi hanno restituito, negli anni, un amore che non avrei mai immaginato. Mi è successo, anni dopo aver smesso con le competizioni, di passeggiare per i quartieri italiani delle grandi città straniere, Brussels, New York, e di essere fermata dai connazionali per una foto o per un saluto. Negli anni ’90 il Mondo era molto più grande, perché ancora non esistevano le tecnologie che oggi lo rendono piccolo. E nonostante io sia arrivata qui che ero già adulta trovai solo affetto e comprensione. Certo, a volte dovevo spiegare che ero di origine inglese e non cubana o brasiliana, come pensavano tutti, ma non ho mai, sentito un minimo di discriminazione sulla mia pelle. Mai.
Pochi giorni dopo aver vinto l’oro ai Mondiali del ‘95, per esempio, mentre camminavo verso casa, incrociai due muratori, che lavoravano in un cantiere. Quando si accorsero di me, uno disse all’altro: “hai visto? È la ragazza del salto in lungo…l’ho vista in televisione…. massì dai…..c’era l’atletica in programma…i mondiali forse…come cavolo..ah sì: Miona Fay!”.
Impreciso, ma dolce: Miona Fay. Non l’inglese naturalizzata. Non quella che ha sposato un italiano. Non la ragazza di colore. Siamo spinti a pensare che la società vada sempre avanti, che il futuro sia comunque una conquista bella. Ma oggi, io mi chiedo, per quante delle nostre straordinarie atlete azzurre di seconda o terza generazione basta un nome ed un cognome, e per quante invece si sente il bisogno di sottolineare che sono anche simbolo di qualcosa?
Proprio, loro nate e cresciute qui, a differenza mia. Lo sport è un linguaggio universale, come la musica, l’arte, il cinema e anche l’amore, è una responsabilità di tutti assicurarci che nessuno lo usi a sproposito.
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La firma di FIona May

Credit Foto Eurosport

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