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La storia di Peter Norman, il velocista dimenticato sul podio di Messico '68

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 11/06/2020 alle 15:29 GMT+2

Ai Giochi di Messico '68, Tommie Smith e John Carlos, arrivati rispettivamente primo e terzo nella finale, alzarono al cielo un pugno inguantato di nero. Assieme a loro, sul secondo gradino del podio, l’australiano Peter Norman. Anche lui, nonostante la sua pelle chiarissima, appoggiò il gesto dei due velocisti americani. E proprio come loro, inghiottito dal silenzio, ne pagò le conseguenze.

Peter Norman, aux côtés de Tommie Smith et John Carlos.

Credit Foto Eurosport

Il 1968: un anno di proteste, spargimenti di sangue, rivoluzioni strozzate. Dagli Stati Uniti all’Europa, una pletora di movimenti emerse per reclamare i propri diritti, per liberarsi di un nemico senza volto, di un sistema corrotto.
La counterculture, le proteste contro la Guerra in Vietnam, il movimento per i diritti civili. Poi il 16 ottobre 1968, e quei due pugni alzati di fronte alla bandiera americana. A Messico ‘68, il podio dei 200 metri si caricò di un’energia folgorante, ferma e autorevole, capace di spaventare i più ingenui. Martin Luther King era stato assassinato solo sei mesi prima. Sul podio dei 200 metri, investito dalle urla allucinate che provenivano dagli spalti, c’era anche Peter Norman. Il velocista australiano aveva appena compiuto un miracolo sportivo, un coronamento di carriera inatteso. E a Peter Norman non sarebbe dispiaciuto sacrificare il rumore di quel suo storico secondo posto in onore di una battaglia più grande di lui. Non gli sarebbe dispiaciuto affatto stemperare l’entusiasmo della sua vittoria in quel silenzio giusto e solenne. Ma il silenzio che incontrò dopo essere sceso da quel podio era diverso, in un certo senso raccapricciante. Un’omertà collettiva, che inghiottì il resto della sua carriera.
Tommie Smith, John Carlos, Peter Norman

Peter Norman, lo sfavorito per eccellenza

Figlio di una famiglia operaia bianca di Melbourne, Norman aveva dedicato i 3 anni prima di Messico ’68 al perfezionamento della sua tecnica sui 200 metri. Il suo lavoro incessante gli aveva permesso di scalare le gerarchie nazionali e staccare il biglietto per le Olimpiadi. Era consapevole delle proteste mondiali che stavano montando in quegli anni, ma il suo sguardo si concentrava interamente sulla finale dei 200. Né troppo alto (178 cm) né troppo muscoloso (73 kg), privo di qualsiasi dono o predisposizione naturale allo sprint. Il suo stesso allenatore, Neville Sillitoe, era celere a smorzare le aspettative: “Devo essere onesto, avevo sempre creduto che potesse accedere alla finale, ma mai avrei pensato che potesse vincere una medaglia”.
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#BlackLivesMatter: quando il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos segnò le Olimpiadi del 1968

Ma Norman, denudato di ogni vantaggio genetico, era uno specialista nello sfruttare un preciso tratto di pista, che per qualche strano motivo lo faceva accelerare molto di più dei suoi avversari. Norman soffriva le partenze, non era mai stato un prodigio di esplosività e reattività. Ma una volta stabilizzata la sua falcata, riusciva a raggiungere un’altissima velocità lungo la curva della pista, dove solitamente recuperava il terreno perso in avvio. Tuttavia, in vista di Messico ’68, i suoi risultati non sembravano poter impensierire il dominio targato Smith-Carlos, che alle selezioni avevano tagliato il traguardo in 19’’ 6 e 19’’ 7. Il record personale di Norman era un pallido 20’’ 50. Ma oltre alle due stelle americane, la speranza di una medaglia si sbiadiva sempre di più considerando la concorrenza presente ai blocchi di partenza: Larry Questad, il connazionale Greg Lewis, il giovane campione d’Europa Roger Bambuck ed Edwin Roberts, bronzo a Tokyo sulla distanza.

Messico '68 e l'ipotesi di boicottaggio

A rimescolare le carte in gioco fu la nuova pista in tartan, presentata per la prima volta ai Giochi. Norman non aveva mai corso su un materiale sintetico simile, ma gli effetti sulle sue prestazioni furono miracolosi. Il sintetico riusciva a sostenere le sue partenze appesantite, e Norman usciva dai blocchi come se fosse un elastico scagliato alla massima velocità dopo essere stato teso al suo limite. Durante le eliminatorie dei Giochi, registrò il nuovo record olimpico di 20’’17. Un indispettito John Carlos rispedì al mittente le domande su Norman: “Lo distruggerò ai quarti di finale”.
Due settimane prima delle Olimpiadi, Carlos aveva incrociato Norman per la prima volta in una seduta d’allenamento: “Chi è quel piccoletto bianco?”, chiese a Tommie Smith. Smith scelse di giocare il ruolo del rappacificatore, avendo conosciuto Norman molto prima rispetto a Carlos, durante delle gare internazionali. “John mi ha assicurato che mi lascerà col culo per terra ai Giochi”, commentò Norman quel giorno. “Tommie è stato molto educato e calmo, mentre Carlos pareva un cane arrabbiato.”
Al presentarsi dei quarti di finale, Carlos riuscì a battere Norman, ma con un margine risicatissimo. Lo strano trio avanzò alla finale, che si prospettava bollente dal punto di vista agonistico, ma anche politico. All’avvicinarsi dei Giochi infatti, molte stelle nere meditavano l’ipotesi di un boicottaggio. Guidati dall’aura di Muhammad Ali e ispirati dal suo attivismo politico-sportivo, la partecipazione ai Giochi era vissuta da molti afroamericani come un’umiliazione, una manifestazione di ipocrisia. Prima dell'evento, Tommie Smith dichiarò:
Il boicottaggio è possibile, per una ragione semplice: perché dovremmo dare il 100% per un paese che nega i nostri sacrosanti diritti? Da qui a Messico ’68 potrebbe succedere di tutto.
Ma col procedere dei giorni, gli atleti afroamericani si convinsero a partecipare: troppo alta la posta in palio, troppo inebriante il profumo della competizione. Tuttavia, Smith e Carlos, i favoriti al podio e alla vittoria, si presentarono alle porte di Città del Messico con le idee ben chiare: volevano mandare un messaggio incisivo al mondo intero.
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Finale 200 metri, Messico '68.

Credit Foto Getty Images

La curva perfetta

La sera del 16 ottobre, tutti gli atleti si erano posizionati ai blocchi di partenza. Lo sparo del via era stato rinviato di qualche minuto. Smith e Carlos fremevano, avevano il sangue bollente, sentivano il peso personale e collettivo di quello che sarebbe stato un trionfo storico. Norman, dal canto suo, aveva potuto annusare per qualche minuto in più l’odore rilasciato da quel manto sintetico, suo unico alleato. Lo stadio era colmo di gente, pronta ad assistere a una delle corse più attese del decennio. John Carlos scambiò un paio di sguardi con gli avversari, prima di aguzzarli verso la pista. Ma tra lui e Norman, il vuoto.
Partiti. Tommie Smith dalla corsia numero 3, Carlos dalla numero 4 e Norman dalla 6. Le gambe dell’australiano si levarono intorpidite ed agonizzanti, divorate dalla progressione bruciante dei due americani. Ma Smith mantenne la sua solita linea perfetta, in attesa dell’ultima virata di pista, la sua salvezza. All’ingresso dell’ultima curva, Carlos si trovava in testa, davanti a Smith. Norman era parecchio distaccato, e stava lottando per la quinta posizione. Poi una parabola perfetta, un’accelerazione capace di disarmare tutti i suoi avversari; tutti tranne Tommie Smith, che si involò verso quello che allora valeva come il record di sempre sui 200 metri. A una manciata di metri dalla linea d’arrivo, la falcata di Carlos si era sfilacciata. Esausto, l’americano cedette l’argento a Norman.
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Tommie Smith coupe la ligne en 19"83 : Record du monde et médaille d'or. A gauche, Peter Norman décroche l'argent devant John Carlos, masqué ici par Smith.

Credit Foto Getty Images

Smith e Norman esultarono, mentre Carlos cercava di trattenere la sua frustrazione con le poche energie mentali rimaste. Stan Wirght, uno degli allenatori americani a Messico ’68, dirà: “John possedeva un lato molto arrogante. Non aver vinto l’oro l’ha ferito, ma a ferirlo di più è stata la sconfitta contro Norman.” Molti anni dopo, lo stesso Carlos ripercorse quegli attimi folli:
Sono successe un sacco di cose incredibili quella sera, durante e dopo la corsa. Ma ciò che mi tormenta ancora oggi è che non avevo idea di quanto veloce potesse correre quel piccoletto bianco.

"Sto dalla vostra parte"

L’euforia per l’epilogo della gara cedette presto il passo a una rabbia annunciata da tempo. Smith e Carlos sapevano il motivo per cui erano lì. I nervi, allentati dalla prestazione, diedero loro modo di pianificare tutto con lucidità. E nel tunnel che li separava dal luogo della premiazione, ritrovarono Norman al loro fianco. L’australiano si avvicinò a Carlos per stringergli la mano. Smaltita la tensione, ognuno riconobbe il valore dell’altro. Si riconobbero come atleti, si riconobbero come uomini, prima di cambiare per sempre, agli occhi di un mondo che non aveva ancora fatto altrettanto.
Norman disse: “Sto dalla vostra parte”; John Carlos allora gli mise al petto il simbolo dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), un movimento sportivo nato con l’obiettivo di protestare la segregazione e la discriminazione razziale.
Quelques minutes après la finale du 200m, Peter Norman a le sourire. Smith et Carlos, visages fermés, pensent déjà à la suite.
I tre varcarono la soglia del tunnel, furono decorati con le loro medaglie. Poi l’inno americano cominciò a fluire dagli altoparlanti dello stadio olimpico, e le luci si abbassarono. Le teste di Smith e Carlos pure. Il loro pugno proteso verso l’alto entrò nella storia.
I due erano saliti sul podio scalzi, sfoggiando delle calze nere e dei guanti neri. Avevano scelto i guanti neri per un motivo preciso: non volevano che la loro pelle toccasse quella di Avery Brundage al momento della stretta di mano. Brundage era l’allora presidente del CIO, famoso per le sue inclinazioni filonaziste. Brundage, tuttavia, non presenziò all’evento di quella sera.
Uno strano particolare, denotabile dalle numerose foto, riguarda proprio i guanti dei due velocisti: Smith e Carlos ne avevano indossati uno a testa. Questo perché, in preda alla confusione pre-gara, Carlos aveva dimenticato il suo paio al villaggio olimpico. Fu Norman a suggerire loro di condividere il paio che Smith aveva portato con sé.
Sciolto l’abbraccio mortale di una folla che inveiva nei loro confronti, i due americani si presentarono alla conferenza stampa. Smith spiegò quel gesto:
Oggi abbiamo vinto delle medaglie e ricevuto applausi. Ma i bianchi credono che noi siamo delle bestie. Quando abbiamo manifestato sul podio, abbiamo visto dei bianchi girare il pollice verso il basso. Ci considerano come degli animali da circo, a cui spettano solo noccioline o colpi di fucile.
Carlos riprese il discorso:
Voi tutti, giornalisti, siete molto coinvolti mentre sono in pista, ma una volta uscito ritorno a essere un negro, e non mi rivolgereste nemmeno la parola.
La mattina seguente, Tommie Smith e John Carlos furono esclusi dai Giochi. “Avevo detto che delle manifestazioni durante i Giochi, provenienti da qualsiasi atleta, avrebbero comportato la squalifica.”, rispose il presidente del CIO. Il destino di Smith e Carlos era ormai segnato: le loro carriere spezzate per un pugno chiuso, un simbolo di resistenza che sarebbe stato ereditato dagli atleti dei giorni nostri. Allora Tommie Smith aveva solo 24 anni, avrebbe potuto dominare il mondo dell’atletica per molto tempo. Lui e Carlos diventarono il capro espiatorio, gli unici a pagare per quel gesto. Nei giorni seguenti, gli atleti USA iridati della staffetta 4x100 si presenteranno alla premiazione con dei baschi neri, salvo poi toglierseli al momento dell’inno.

Delle carriere spezzate

Per molti anni a venire, Smith e Carlos si ritrovarono nell’occhio del ciclone: lettere minatorie, minacce di morte, falsi biglietti d’aereo che vedevano impressi i loro nomi e la solita destinazione: Africa. Il loro posto nelle corse era perso da tempo, Tommie Smith provò ad addolcire l’esilio approdando in NFL, dove realizzò una sola ricezione per 40 yard.
Il giorno dopo il loro pugno, la stampa americana li aveva ostracizzati. Il Los Angeles Times gridava al “saluto nazista”, il Chicago American parlava di “un atteggiamento puerile e ignobile” e di simboli “poco fantasiosi, che evocano un accostamento alle SA”.
Per Norman invece, l’impatto con l’opinione pubblica fu inizialmente morbido. La stampa australiana lodò il gesto. Ma le conseguenze peggiori si rivelarono agli occhi di Norman negli anni successivi. In vista dei Giochi di Monaco 1972, nonostante dei tempi idonei, il velocista australiano non venne selezionato. Il comitato di selezione decise, paradossalmente, di non selezionare alcun velocista per le Olimpiadi. Sillitoe dichiara: “ Se avessero preferito qualcun altro a Peter, ciò sarebbe stato percepito da tutti come ridicolo”.
Tutt’oggi Greg Lewis, vittima indiretta di questa decisione, non sa che cosa pensare: “Potrebbe essere stato Peter il catalizzatore di tutto ciò. Tutto sarebbe dipeso da quel gesto concordato con Smith e Carlos. Potrebbe essere, ma non ne so nulla”. Il mondo dell’atletica australiana non ha mai rivestito un ruolo centrale nell’universo sportivo nazionale, dunque il veto nei confronti di Norman cadde nel silenzio. Dopo molti anni, a carriera ormai conclusa, la stampa australiana sollevò il dubbio: “Il nome di Norman potrebbe essere stato iscritto nella lista nera?” Il danno, ormai, era irreparabile. Nel 1999, in un libro dedicato ai 100 più grandi sportivi australiani del XX secolo, il suo nome non comparve. Fu escluso dalla cerimonia d’apertura dei Giochi di Sydney. La sua medaglia, a differenza delle altre, era sporca, aveva un peso insopportabile per molti. Una decina d’anni dopo quel podio, Peter Norman si riscoprì naufrago di un ideale, di una tempesta in cui capitò per sbaglio, ma che non per sbaglio accettò di attraversare. Divorziato, lontano dai suoi due figli, alcolista, ma soprattutto prigioniero di una fotografia fissa, indelebile, che lo condannava ogni giorno della sua vita. Un processo mediatico silenzioso, che come pena gli impose una lenta e sterile obsolescenza.
Negli Stati Uniti invece, la figura di Norman ritornò popolare grazie a un documentario realizzato dalla NBC nel 1991, che ripercorreva le gesta di Smith e Carlos. Un frangente del film mostra l’incontro dei tre atleti anni dopo Messico ’68. Nel documentario, Norman ricorda quei momenti:
Ci siamo guardati e ci siamo messi a piangere. Non mi ricordo più che cosa ho detto esattamente, ma mi pare fosse una cosa del genere ‘non vi ho più visti da 20 anni, ma ho l’impressione di aver vissuto con voi tutti i giorni'.
Poco a poco, gli estimatori di Norman si fecero avanti. A Sydney, l’anziana leggenda dei 400 metri Edwin Moses, gli si avvicinò con le lacrime agli occhi: “Per me è un onore incontrarla. È uno dei più grandi onori della mia vita. Peter Norman è un eroe per me”.

Smith, Norman e Carlos, insieme fino alla fine

Questa discrepanza tra opinione pubblica australiana e i colleghi di Norman, ha qualcosa di sconcertante. Perché Peter Norman resta ancora oggi il più grande sprinter della storia australiana, col suo record sui 200 metri ancora imbattuto. Le sue impronte su quel podio non hanno solamente compromesso la sua carriera, ma anche la sua memoria. Raelene Boyle lo ricorda così: “Aveva uno stile magnifico. I movimenti delle sue braccia e delle sue ginocchia gli permettevano di mantenere sempre la linea perfetta. Non sprecava mai una goccia d’energia, ottimizzava ogni suo movimento. Era un immenso corridore dei 200 metri”.
Matt Norman, nipote di Peter, ha cercato di riscattarne la reputazione in quanto persona: il lato più umano del velocista australiano emerge nel documentario diretto da Matt, intitolato “Salute”. Al fine di realizzare il film, Matt Norman faticò non poco per trovare dei testimoni: alla fine solo 3 accettarono di parlare alla cinepresa. Tra loro Paul Jenes, membro dello staff australiano a Messico ’68:
L’Australia ha voluto dimenticare questa storia, forse perché ci riconduceva al senso di colpa che proviamo nei confronti degli aborigeni. La faccenda di Messico ’68 ci ha rinviato ai nostri mali.
Il documentario di Matt, uscito nel 2008, non fu mai visto da Peter. Lasciò questo mondo due anni prima, il 3 ottobre 2006, a causa di un infarto. Aveva 64 anni. La federazione americana d’atletica si è affrettata a dichiarare il 3 ottobre come “Peter Norman Day”. Tommie Smith e John Carlos decisero di attraversare il pianeta per assistere ai funerali e sorreggere la sua bara.
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Tommie Smith e John Carlos trasportano la bara di Peter Norman al suo funerale nel 2006

Credit Foto Eurosport

Entrambi, quel giorno, trovarono la forza per poche, fortissime parole:
“Peter Norman, l’uomo che pensava fosse impossibile avere torto facendo ciò che gli sembrava giusto. La sua eredità è una montagna. Inchinatevi a questa montagna”, disse Tommie Smith. Ma le parole più importanti furono quelle di Carlos:
Quella sera, in Messico, mi aspettavo di vedere della paura nei suoi occhi, ma non ho visto altro che amore. Non ha mai abbassato la testa né voltato le spalle. Raccontate ai vostri bambini la storia di Peter Norman.
Le parole dei due americani, legati da un sigillo indissolubile al “piccoletto bianco”, unite al successo del film “Salute”, contribuirono a modificare la percezione pubblica su Peter Norman. Nel 2012 finalmente, il governo australiano si scusò pubblicamente con Peter Norman per l’aspro trattamento che aveva ricevuto. Una decisione che fece andare su tutte le furie il Comitato Olimpico australiano, che impiegò sei anni in più per riconoscere il proprio torto. Queste le parole del presidente del COA, John Coates: “Non credo che il COA abbia agito in malafede nei confronti di Peter Norman, ma credo che siamo stati negligenti, il nostro torto sta nel fatto di non aver riconosciuto il valore delle prestazioni sportive di Norman e la portata del suo gesto.” Coates ci ha proprio visto giusto: più che condannato, denigrato, sanzionato… Peter Norman è stato ignorato. Nell’aprile 2018, Peter Norman è stato onorato con l’iscrizione all’Ordine Nazionale al Merito. Pochi giorni più tardi, è stata eretta una sua statua alle porte dello stadio Lakeside di Melbourne.
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Avril 2018 : Janita Norman, la fille ainée de Norman, et John Coates, président du comité olympique australien, lors de la remise de l'Ordre du mérite australien à Norman à titre posthume.

Credit Foto Getty Images

“Non siamo noi a creare la storia, ma è la storia a creare noi.”, disse Martin Luther King. Mai parole furono più azzeccate per riassumere le vite di Peter Norman, Tommie Smith e John Carlos. Il trio dovette attendere 50 anni per abbandonare le spoglie di esodati e indossare quelle di martiri. Norman raccontava la sua vita così:
Non sono mai stato perfetto, non ero particolarmente buono o particolarmente cattivo, ma quel giorno credo di aver fatto la cosa giusta.
E nonostante non abbia mai voluto comparare il suo destino a quelli di Smith e Carlos – “Per loro il danno è stato maggiore” –, i tre erano legati dalla stessa sentenza di condanna. La sua morte non ha scisso questo legame. Come disse Carlos: “Peter non ha alzato il pugno, ma ci ha teso la mano.” Un gesto altrettanto potente.
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