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Yeman Crippa, il bambino dell'orfanotrofio è l’uomo che sogna la Luna

The Owl Post

Pubblicato 15/06/2020 alle 15:14 GMT+2

Prosegue il viaggio verso le Olimpiadi di Tokyo 2020 e anche se i Giochi saranno posticipati, continuano i racconti in prima persona dei campioni azzurri. Oggi è la volta di Yeman Crippa, arrivato in Italia dopo 6 anni di orfanotrofio, diviso tra calcio e atletica, tra Mondiali, Europei, Olimpiadi e… suono lunare.

Yeman Crippa, un bambino che inseguiva le caprette, è l’uomo che sogna la Luna

Credit Foto Eurosport

La prima volta che ho visto una macchina ero appena arrivato in Italia. Avevo sei anni e mi sembrava di essere atterrato sulla Luna. In Etiopia non c’era nulla del genere. Eravamo in 8: io, Mekdes, Mulu, Gadissa, Asna, Neka, Elisabet e Kelemu. Tutti fratelli o cugini. Vivevamo in un altopiano a 300 chilometri da Addis Abeba, e quando siamo rimasti orfani ci hanno mandato in un orfanotrofio.

1. L’orfanotrofio prima dell’Italia

Ricordo poco della mia vita prima del trasferimento in Italia. Poche immagini, ma molto, molto chiare. Andavamo a pascolare le mucche e le caprette, passando le ore sotto il sole del deserto, che sembra non spostarsi mai dal centro esatto del cielo. A volte giocavamo anche a nascondino, ma scoprire il mio nascondiglio non era sufficiente per battermi, perché ero sempre il più veloce a correre fino alla tana. Tana per me e tana per tutti.
L’orfanotrofio non era un bel posto dove vivere. Tutti i bambini non vedevano l’ora che degli uomini bianchi venissero a prenderli e portarli via. In un luogo più bello, con delle prospettive. Nessuno, tra noi 8 cugini, parlava della possibilità che ci dividessero.
Entrambe le cose non ci piacevano: né restare lì, né l’idea di finire in famiglie diverse. Quando sei costretto a scegliere tra due veleni è meglio non scegliere per niente, tanto saranno gli altri a farlo per te. Sai per certo che qualcosa ti farà stare male, ma almeno ti risparmi il senso di colpa.
Yeman Crippa: "Ho iniziato con il calcio"

2. Papà Roberto, mamma Luisa

La prima volta che ho visto entrare Roberto e Luisa dalla porta dell’orfanotrofio sapevo che erano venuti per me, ma ero lo stesso pieno di paure. Sono rimasto immobile per un po’. Poi la bambinaia mi ha dato una piccola spinta sulla schiena e detto: "vai ad abbracciarli”
E così ho fatto. Nessuno ti insegna come essere un buon genitore, è vero. Però nessuno aveva spiegato a me come si fa ad essere un buon figlio. Desideravo tantissimo stare con loro. Volevo con tutte le mie forze che diventassero la mia mamma e il mio papà, eppure continuai per molto tempo a chiamarli Signore e Signora. Anche per amare bisogna avere un’autorizzazione. Tra le tante cose che mi hanno insegnato, la prima è stata proprio questa: come essere un figlio.
Comunque, la notizia più bella di tutte fu che non solo mi portarono in Italia, ma che vennero anche altri due miei fratelli. Non solo. Negli anni a seguire Roberto e Luisa sono tornati in Etiopia, ancora e ancora, fino a che non siamo stati riuniti tutti e 8, sotto il tetto della loro casa. Un cuore così grande è difficile da trovare altrove. Roberto e Luisa avrebbero potuto darci tutto ed invece hanno preferito insegnarci tutto. C’è una bella differenza!
Dai un pesce ad un uomo e lo sfamerai per un giorno, insegnagli a pescare e lo sfamerai per tutta la vita.
La nuova casa era un paradiso per noi. E lo erano anche la vita in Italia, la scuola, gli amici, lo sport.
Yeman Crippa, i numeri

3. Prima il calcio, perché correre è un lavoro?

Ho iniziato con il calcio, ovviamente, fin dalla prima elementare. Ero più abituato degli altri a correre, e quando sei piccolo andare veloci è già metà del successo. Qualche anno più tardi ho provato anche l’atletica, senza troppa convinzione. Le classiche discipline che ti fanno provare a scuola, come gli 80 metri e la corsa campestre. La mia testa però era innamorata del pallone, pensavo solo al calcio e sognavo di diventare un campione. Non sapevo che correre potesse diventare un lavoro. Non sapevo che l’atletica potesse essere qualcosa che val la pena sognare.
Quando sono andato a fare la mia prima garetta seria, fuori dal paese, mio padre mi disse di non farmi troppe aspettative, perché io correvo per gioco, quasi per noia, mentre gli altri bambini invece si erano allenati apposta per quello. Vinsi. Stra-vinsi. E papà allora, per tenermi con i piedi per terra, chiese: “Sì, ma contro chi hai gareggiato?”
Yeman Crippa: "Eravamo in 8, tutti fratelli o cugini"
Il mio talento sembrava fatto proprio per la corsa e così, piano piano, ho iniziato ad alternare i due sport. Il calcio e l’atletica. A correre intorno alla pista sentivo la mancanza del pallone. In più non ero un amante della fatica pura. Alcuni nella sofferenza si esaltano, io invece no. A me serve la gradualità.
Fare ogni giorno un passettino in più, per arrivare poi alla gara con il serbatoio pieno della quantità perfetta di benzina. Mi serve sapere di aver fatto tutto in maniera perfetta, devo sentirlo. Nella testa e nelle gambe. Giocare a calcio era molto più divertente ma se c’era una cosa che mi teneva incollato alla pista era la sensazione della vittoria. Vincere una gara individuale dà una botta di adrenalina incredibile. Niente ha lo stesso sapore.
Quindi sono rimasto agganciato ad entrambe le cose il più a lungo possibile, fino a che non sono stato messo di nuovo davanti ad una scelta. Alternavo le domeniche, una la dedicavo al calcio e una all’atletica. Poi l’allenatore della mia nuova squadretta mi disse che se avessi saltato una partita lui mi avrebbe escluso anche da quella dopo, perché significava abbandonare i propri compagni. Nella corsa miglioravo di più rispetto a quanto facessi con il pallone tra i piedi e così ho deciso di dedicarmi solo a quello. È stata una svolta.

4. Quanta strada, fino alla Luna

Il gioco mi mancava e ancora mi manca, ma riesco a togliermi lo sfizio grazie alle partitelle che organizzo con gli amici.
Però in pista è stata una crescita continua. Non mi sono più fermato. Dalle nazionali giovanili, all’ingresso nel gruppo sportivo, che ha reso la mia passione anche un lavoro. E poi giù, a cascata, tutto il resto: la medaglia agli Europei di Berlino, i Mondiali di Doha, i record nazionali. Adesso abbiamo tutti nel mirino un’Olimpiade gigantesca, arrivata ad un passo da noi e poi rimandata lontano con un calcio. A volte ci penso a quanta strada ci sia tra un bambino che inseguiva le caprette, spesso a stomaco vuoto, e un atleta che corre verso i 5 cerchi. È tantissimo. È tanta roba.
Ma se ripenso a ciò che c’è nel mezzo di una cosa sono certo: non è merito mio. Tutto è venuto grazie a Dio e all’amore delle persone più speciali della Terra, sono state loro a portarmi sulla Luna.
Yeman Crippa, la firma
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