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Bob McAdoo, "Doo-doo-doo", la lunga strada verso Milano e la vera gloria

Zoran Filicic

Aggiornato 15/05/2020 alle 16:20 GMT+2

Zoran Filicic, telecronista di Eurosport, ogni settimana ci racconta una storia legata agli sport che più ama dal suo punto di vista: fra flashback, esperienze sul campo e un excursus tra i grandi delle discipline più amate, un punto di vista nuovo da leggere ogni settimana. Settimo appuntamento con un fenomeno del basket, sottovalutato in NBA e consacrato come campione vero a Milano, a 35 anni.

Focus McAdoo

Credit Foto Eurosport

Livorno, gara 5 della serie finale scudetto 1989 tra Philips Milano ed Enichem Livorno. Alberto Tonut vola in contropiede su palla persa da D’Antoni (si, ogni tanto capitava), Livorno è a meno 3 e il triestino si preoccupa di proteggere la palla da Albert King, alla sua sinistra, ma la palla di colpo non c’è più, al suo posto solo Bob McAdoo che, dopo essersi tuffato, plana scivolando sul parquet fino ai fotografi.
Bob McAdoo arriva a Milano nell’autunno del 1986, primo e unico MVP della NBA a giocare nel campionato italiano. Ala alta atipica, 2 metri e 6 di tecnica e tiro da fuori, le braccia lunghissime, quando sbarca nella lega pro statunitense non lo fa proprio in punta di piedi: Rookie of the Year nel 1973, miglior marcatore della lega nei tre anni seguenti e MVP nel 1975, anno nel quale domina la NBA con una media di 34,5 punti a partita ed un totale di 1155 rimbalzi.
Indicato più volte come uno dei migliori tiratori di sempre, McAdoo rivoluziona il concetto di ala, efficace dal perimetro e devastante a rimbalzo.
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Basketball Heroes: Bob McAdoo, un alieno sbarcato dalla NBA in Italia per dominare

McAdoo primeggia nelle classifiche personali, ma non viene reputato un giocatore vincente; Buffalo (ora Los Angeles Clippers) lo prende al draft, migliora la propria classifica, ma arriva solo fino alla semifinale di Conference, perdendo in due occasioni con Boston e in una con Washington.
Alto, preciso, instoppabile ma apparentemente non determinante, McAdoo inizia nel 1976 il suo peregrinare per la NBA, giocando in 13 anni per 7 franchigie, in una sequenza di strani incroci con giocatori in un modo o nell’altro legati a Milano.
Nel 1976 viene ceduto insieme a Tom McMillen a New York in cambio di John Giannelli (poi campione d’Italia col Billy della Banda Bassotti). In 171 partite con i Knicks (alla media di 26,7 punti e 12,0 rimbalzi) gioca anche con Bill Bradley, che portò la Coppa Campioni 1965/66 al Simmenthal, durante il suo master ad Oxford. Un caso? Due? Forse.
Nel 1979 McAdoo passa per Boston, ma gioca solo 20 partite e, con l’arrivo di Larry Bird da Indiana, McAdoo viene dirottato verso Detroit in cambio di un giro interessantissimo: i Celtics ricevono la prima scelta al draft del 1980, scelta che viene passata a Golden State in cambio di Robert Parish e della terza scelta overall, usata poi per prendere Kevin McHale (gettando le basi insieme dei Celtics anni ’80). McHale però fa fatica ad accordarsi coi Celtics: arriva a Milano, convinto da D’antoni a firmare per l’Olimpia, ma all’ultimo momento (si parla di firma prevista per orario di pranzo, vanificata dalla chiamata da Boston nel corso della mattina) viene richiamato dai Celtics che hanno accettato tutte le sue condizioni. Milano ripiega proprio su John Giannelli, mentre quella prima scelta andata da Boston a Golden State viene utilizzata per scegliere Joe Barry Carrol, proprio quello che con la maglia della Simac Milano delizia per una stagione i palati fini del parterre meneghino.
Incroci su incroci, Milano forse era già scritta nel destino di McAdoo che intanto passa due anni ai Pistons per volare in New Jersey e finalmente approdare a Los Angeles.
L.A. è nel pieno dell’epopea Showtime: coach Pat Riley in panchina, in campo Magic, Kareem, Worthy. Bob deve passare da star di prima grandezza a riserva (e nemmeno sesto uomo, ma specialista). McAdoo si accontenta, gioca finalmente in una squadra vincente e si rende utile, entra quando deve e viaggia tra i 10 e i 15 punti di media partita vincendo con i Lakers due titoli NBA ed iniziando un rapporto infinito con coach Riley, che a carriera conclusa lo vorrà come assistant coach a Miami, dove conquisterà altri 3 anelli.
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Bob McAdoo con i Los Angeles Lakers

Credit Foto Getty Images

E’ proprio negli anni dei Lakers che McAdoo diventa conosciuto in Italia, le notti delle Finals sono trasmesse con la telecronaca di Dan Peterson che è il primo a raccontare il magico mondo NBA con l’enfasi e i particolari che merita. Los Angeles-Boston tiene svegli gli appassionati di tutta Italia che imparano che al coro “Chief, Chief, Chief” che si leva per Parish sopra il parquet incrociato di Boston risponde il cupo “Doo, Doo, Doo” per Bob McAdoo al Forum, casa dei Lakers, ma quel magico mondo rimane lontano.
Finita l’esperienza californiana, McAdoo viaggia verso la costa est e si ferma a Phila per 29 partite, ma è solo una fermata intermedia prima di continuare il viaggio verso est ed atterrare a Milano, primo MVP ad essere messo sotto contratto in Italia.
La società di via Caltanissetta si assicura il tre volte top scorer (18787 punti in NBA) nel 1986, ma McAdoo solleva qualche perplessità tra la dirigenza milanese, quando chiede se “vicino a Milano c’è una clinica ostetrica” vista la dolce attesa della moglie Charlina. Una domanda che oggi fa sorridere, ma questa era l’immagine dell’Italia nella testa dei giocatori NBA: un campionato in un posto lontano, forse con qualche ospedale, dove con tutta probabilità la gente palleggiava solo di destro, a meno che non fosse mancina.
Il gigante arriva, insieme al suo palmares pesantissimo, in una Milano già nebbiosa e, dopo gli allenamenti alla palestrina del Palalido e il sopracciglio alzato, arriva il suo debutto davanti al pubblico biancorosso.
In NBA aveva tenuto una media di 22,1 punti, 9,4 rimbalzi, 2,3 assist e 1,1 stoppate e dopo aver giocato al Forum, al Garden, al Madison, McAdoo entra al Palazzetto di Lampugnano, la struttura messa in piedi al volo dopo il crollo del Palasport durante la Grande Nevicata del 1985. E’ un tendone.
I Panthers (il gruppo di tifo organizzato di Milano) hanno preparato il coro per accoglierlo, un non troppo originale “Du-Du-McAdoo”, ma quando Bob viene chiamato e presentato col numero 15, di quel coro non si sente nemmeno una voce: un Palatenda stipato rimbomba del “DOO-DOO-DOO-DOO-DOO” che si sentiva nelle notti di telecronaca, da Los Angeles, via tubo catodico, scandito anche ora con l’accento di Coach Peterson. E’ questo il coro che lo accoglie nella squadra più titolata d’Italia. McAdoo inizia a capire che forse questa è casa sua.
Successivamente McAdoo ritornerà sull’argomento raccontando il proprio stupore al sentire quel pubblico lontano omaggiarlo del “suo” richiamo e da lì è amore a prima vista, o meglio a prima voce (la vista del Palazzetto di Lampugnano era orrida) ed è proprio sulle voci che si intesse la storia d’amore del tifo milanese col suo campione.
L’accoglienza calorosa, poi il 6 novembre 1986 la rimonta clamorosa sull’Aris Salonicco di Nikos Galis, 31 punti da recuperare nella gara di ritorno con un McAdoo che non ingrana, Premier che contesta, il pubblico arrabbiato che per una volta (forse l’unica, a mia memoria) tifa ed urla per tutta la partita e al 15° minuto e 34 secondi, quando Meneghin segna il canestro del +31, Milano esplode.
È una stagione magica: arriva lo scudetto, bissato due anni dopo in quella Livorno dove McAdoo regalerà la pelle delle sue ginocchia al parquet, lui Miglior Marcatore, lui MVP, lui con due anelli alle dita a tuffarsi come un ragazzino in quella gara 5 che finirà sul canestro facile facile di Forti in contropiede, a tempo scaduto, dando il titolo a Milano.
Sono tante le immagini di quel McAdoo. Dal roboante Doo Doo Doo della prima partita alla vittoria contro Salonicco, allo scudetto alzato in finale contro Caserta. L’immagine più forte arriva però da un palazzetto lontano e freddo, a Losanna, dove un ragazzino liceale con il viso dipinto a scacchi bianchi e rossi, lo guarda alzarsi verso il cielo a prendere una palla scaturita dalle mani di Doron Jamchy e diretta verso il canestro, accompagnata dal silenzio del pubblico della finale di Coppa dei Campioni, un pallone che finisce la sua parabola tra le manone di Bob McAdoo, insieme alla coppa, insieme alla vittoria.
Urlare, ridere e piangere a sedici anni, di gioia, tornare a scuola il giorno dopo, reduce dalle ore di pullmann e dai chilometri tra Losanna e Milano, entrare in classe senza voce, con al collo una sciarpa gialla, scambiata coi tifosi del Maccabi Tel Aviv.
Ho ancora quella sciarpa, ancora adesso quando la guardo sento nella mia testa un cupo, potente “Doo-Doo-Doo”.
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