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Brian Sacchetti: "Le squadre vincenti non sono sempre grandi gruppi di amici"

Marco Barzizza

Pubblicato 17/05/2020 alle 18:27 GMT+2

L'ala della Germani Brescia è stato protagonista in diretta a Basket dalla Media, facendo un parallelismo tra la Sassari del Triplete e i Bulls di Jordan in "The Last Dance", raccontando di come spesso servano le teste calde in uno spogliatoio per poter vincere.

Brian Sacchetti, Germani Leonessa Brescia

Credit Foto Eurosport

“The Last Dance”, il documentario sui Chicago Bulls di Michael Jordan e Phil Jackson, è l’argomento principe delle conversazioni sul basket nel recente periodo. A Basket dalla Media, interpellato dalle domande di Marco Barzizza, Brian Sacchetti ha parlato di come ci possa essere un parallelismo tra squadre vincenti, come fu la sua Sassari, che nel 2015 vinse il Triplete (Scudetto, Coppa Italia e Supercoppa Italiana).
Fuori sembrava fossimo pronti a spaccare il mondo ma dentro lo spogliatoio, ogni allenamento ne succedeva una. C’era un livello di competitività enorme. Non è stato il gruppo migliore dal punto di vista extra basket, c’erano dei giocatori con un grande carisma come Dyson, Lawal, che avevano caratteri così forti che a volte finivano con scontrarsi, ma non perché non si piacessero, piuttosto perché quando c’è una squadra forte le personalità più ambiziose vengono fuori. In spogliatoio abbiamo avuto litigate, abbiamo finito male la stagione regolare finendo quinti. Sicuramente è una similitudine con la storia dei Bulls, quella competitività ci ha portato a vincere tutto. La situazione da dentro a volte era pesante, ma ha ripagato ampiamente. Se non c’è questa voglia di lottare anche scontrandosi forse è meglio lasciar stare. A volte effettivamente è più vincente una squadra con qualche testa calda, piuttosto che un gruppo di grandi amici. Anche se non è in assoluto vero, perché altrimenti le società vorrebbero sempre prendere le teste calde e non è così.
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2012-13 Serie A, Sassari, Brian Sacchetti (AP/LaPresse)

Credit Foto LaPresse

Più in generale, l’opinione sul documentario di Netflix è entusiasta.
Pelle d’oca in ogni puntata. C’era grande aspettativa per questo documentario e non pensavo che fosse così bello. Mi ha riportato a momenti vissuti da ragazzino. Ti fa capire cosa ci sia dietro una squadra vincente, la migliore della storia, però si vede come nello spogliatoio le cose non fossero tutte rose e fiori. Il cambiamento di Jordan da ragazzo a leader, personaggi pazzeschi come Rodman e Pippen, storie che io non conoscevo così con quelle sfaccettature.
Dalla sua esperienza, Sacchetti si immedesima in ciò che il documentario sui Bulls narra, provando a immaginare come sarebbe stato vivere in quel periodo all’interno di quello spogliatoio.
Da quello che ho sentito e visto doveva essere bello tosto. Hanno fatto vedere anche quando Pippen si rifiuta di entrare nell’anno in cui lui era il nuovo Jordan per la squadra. Come dicono i suoi compagni, si porta dentro quella situazione da anni e probabilmente così sarà sempre, tanta era la pressione che questi ragazzi dovevano sopportare. Mi sono immedesimato e credo fossero stati momenti molto difficili e se non ci fosse stato un pungo di ferro e un maestro Zen come Phil Jackson non sarebbe forse andata così.
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Scottie Pippen et Michael Jordan en 1992. Les deux piliers des Bulls sur le parquet.

Credit Foto Getty Images

Spontanea sorge la domanda: cosa conta in un giocatore?
La fame. Avere voglia di arrivare, di provare delle emozioni che magari senti quando guardi la tv e vedi i palazzetti pieni. Dev’essere quello che spinge un ragazzo a non uscire la sera quando la mattina dopo c’è allenamento oppure studiare presto la mattina perché dopo la scuola non c’è tempo perché c’è allenamento. Quello fa si che un giocatore possa andare oltre i limiti che madre natura gli ha dato o anche tecnicamente in termini di talento. La storia ci insegna che giocatori con un talento non così spiccato avessero carriere molto più soddisfacenti di giocatori che invece avevano un talento smisurato. Ovvio che il talento abbinato all’allenamento non si batte, però sicuramente uno che si allena tanto e fa della fame la sua arma può battere un talentuoso che non si è fatto il culo.
Lo diceva anche Kobe Bryant…
Eh si, lui è il mio Michael Jordan. Quando a 10 anni cominciavo a pensare al basket NBA pensavo a lui: il draft, la schiacciata sotto le gambe, le scarpe… e quella voglia di vincere, la mentalità di non guardare in faccia alle persone pur di arrivare al suo obiettivo. Stava antipatico alla gente all’inizio perché non ne capivano la mentalità, ma alla fine si è dimostrato uno dei migliori del gioco ed è una tragedia che sia finita così.
Oltre al basket immaginato, c’è anche quello che prima o poi dovrà riprendere, in Italia così come nel resto del pianeta. E Sacchetti, sul tema, si dice ottimista.
Sono convinto che quando torneremo in campo, anche ad allenarci, andrà bene. La soluzione arriverà presto e ci sarà talmente tanto entusiasmo che tutto il resto passerà in secondo piano. Tutti però dovremo collaborare. Ci saranno decisioni che non potranno ovviamente accontentare tutti, ma cerchiamo di non litigare l’un l’altro come società, lega e parti in causa; dovremo stare uniti. Noi italiani siamo abituati a non farci andare bene le cose quindi dopo un problema come questo, bisogna ricominciare coesi per ricordarci di questo periodo come un brutto incubo. Sarà un’estate di re-building e spero che quando si ripartirà tutte le società riusciranno ad esserci, perché molte di queste non ce la faranno, a tutte i livelli. Era la situazione che tutti volevano da tempo, l’occasione di ricominciare… certo, magari senza la pandemia. Adesso sta a noi come movimento cercare di farla andare bene.
Rimasto a Brescia per la quarantena, Brian insieme alla moglie Manuela aspettano il “via libera” per tornare in Sardegna e passare sull’isola i mesi estivi.
Aspettiamo ci dicano quando possiamo tornare, ma finora, per stare in casa, non cambiava nulla essere da una parte o dall’altra. Il giocatore di basket comunque deve tenere sempre la valigia pronta. Noi siamo stati fortunatissimi dopo l’esperienza a Sassari di arrivare in un posto, Brescia, dove si respira basket ma più in generale dove c’è un ambiente e una città bellissimi. E’ molto comodo e ci siamo trovati bene. E’ il terzo anno qui, speriamo ne verranno tanti altri e speriamo di ricambiare l’accoglienza che abbiamo avuto. L’anno prossimo torniamo (contratto ancora di un anno con la Leonessa), poi vediamo cosa accadrà.
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Brian è figlio d’arte e suo padre, Meo, è attualmente il coach della nazionale italiana. L’anno scorso Sacchetti junior fu uno dei protagonisti nella corsa dell’Italbasket alla qualificazione ai Mondiali in Cina, ma nonostante le dimostrazioni sul campo, Brian è spesso stato tacciato di essere raccomandato.
Io sono chiaramente raccomandato e infatti hai visto che mio papà mi ha convocato in Nazionale… ma poi (ride, ndr). Ormai ci rido su. Fuori dal campo da basket assolutamente raccomandato, ma da mia mamma, dentro invece è una cosa che non mi sono mai sentito. L’ho sentito dire spesso ma ormai a 34 anni mi scivola addosso. Mio padre dice di essere stato troppo cattivo con me? Sono convinto che lo dica perché fin da quando ero ragazzino ci sono sempre state tante voci e lui non voleva mai far sembrare ai compagni di squadra che io fossi raccomandato e non mi ha mai regalato niente. Che mi abbia tolto qualcosa non credo neanche, ma sono contento che dica così e penso che senza di lui la mia carriera da cestista non avrebbe avuto questa evoluzione.
Un’estate, quella scorsa passata in azzurro, rimasta nella mente e nel cuore del “piccolo” Sacchetti.
E’ stato incredibile. Tutto l’avvicinamento al Mondiale è stato un sogno cui tutti devono aspirare. Gli allenamenti, le interviste, il gruppo. Eravamo molto affiatati ed è stato bellissimo far parte di quell’esperienza. Ovvio poi non è andata come speravo, ma me l’aspettavo. E’ stato molto emozionante e la porterà nel cuore.
Cosa ha lasciato?
Una consapevolezza di aver partecipato a tutto quello, la conferma di tutto ciò che ho fatto sin da bambino. Ha ripagato gli sforzi e i sacrifici, per me come per tutti. Mi sono sentito un privilegiato ad accompagnare la squadra fino a li.
Da veterano, pur con poche presenze in azzurro ma con tanta esperienza sui campi della nostra Serie A, Sacchetti ha un’idea sul nuovo corso azzurro, che dovrà essere una fusione di presente e futuro.
E’ giusto dare la possibilità a ragazzi nuovi, che arrivano ora a vestire la maglia azzurra. Con le prime finestre per le qualificazioni europee ne abbiamo visti alcuni come Spissu, Bortolani, Spagnolo. Sono il nostro futuro, nemmeno troppo lontano, è giusto far fare esperienza a chi se lo merita. Come in tutte le cose ci sono dei cicli che finiscono, l’importante è che questi due cicli ora si fondano in un obiettivo comune: le Olimpiadi. Possiamo programmare e questa coesione di veterani e giovani è doverosa per poter creare l’alchimia giusta verso il grande obiettivo dell’anno prossimo. Io non mi ci vedo, ma mio padre ha dimostrato che gioca chi se lo merita, quindi se farò 20 punti e 10 rimbalzi di media nella prossima stagione allora un posto me lo posso ritagliare (dice ridendo, ndr).
Avendo parlato di mentalità, collegandosi nuovamente a “The Last Dance”, che tipo di metodologia c’è dietro all’atleta Brian Sacchetti?
Non pensavo di essere metodico, invece mi sono reso conto negli ultimi anni che in campo faccio sempre le stesse cose prima di cominciare la partita. E quando ti abitui è difficile tornare indietro e mi viene in mente un passo del libro di Gigi Datome, in cui parla di ciò che gli diceva Chauncey Billups, ossia ‘Stick with the routine’ ossia rimani con la tua routine, perché ti aiuta a restare concentrato e ti fa sentire mentalmente pronto. Quando l’ho letto ho pensato che anch’io lo faccio: il primo terzo tempo in un modo, il secondo in un altro, il terzo in un altro ancora ma sempre in questo ordine. Quando c’è il fischio dei 3’ mi devo mettere io primo a prendere rimbalzo, prima di entrare negli spogliatoi in riunione pre-partita faccio sempre un movimento da 3 punti quando tutti gli altri sono già usciti dal campo. Prima cercavo di negare questa situazione, poi ho capito quanto mi aiutasse a iniziare in maniera concentrata. Una fissazione? Si, dirlo fa paura, però è così perché ci sono movimenti che ti sono venuti bene e quando l’hai fatto poi la partita l’hai giocata bene e allora lo rifai. E’ come vedere Kevin Durant che scrolla le spalle quando tira i liberi. L’abbiamo visto in tv ed è diventato un esempio. Ognuno ha la sua routine, anche solo perché ha portato bene, è tutta questione di testa.
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