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Gianmarco Pozzecco, il genio ribelle del basket italiano compie 47 anni

Daniele Fantini

Aggiornato 15/09/2019 alle 11:24 GMT+2

Capelli rossi e sparati, cerottino al naso, aria tra il simpatico e lo strafottente, talento e amore per il basket sconfinato: Gianmarco Pozzecco è stato uno dei personaggi più amati e controversi della pallacanestro italiana degli anni d'oro. Ripercorriamo la sua grande carriera, dallo scudetto della Stella con Varese, all'argento olimpico di Atene, alla trasformazione in allenatore.

Gianmarco Pozzecco, protagonista dello scudetto della Stella di Varese. Illustrazione di Francesco Massetti

Credit Foto Eurosport

Ogni tanto, mi sveglio la mattina, mi guardo allo specchio e mi dico: ‘Cioè, ma io sono un medagliato olimpico’...
Già, è quantomeno divertente immaginarci Gianmarco Pozzecco così, appoggiato al lavandino di casa sua, guardare con gli occhi ancora impastati quell’immagine riflessa di un uomo ormai maturo di 47 anni, ma ancora così singolarmente somigliante a quella di 15 anni fa, quando scriveva forse la pagina più bella della storia della pallacanestro italiana. Perché è sorprendente che un ragazzo che arriva a stento al metro e ottanta, con i capelli rossi, il cerottino al naso e la gestualità di un consumato attore teatrale, sia probabilmente l’immagine rimasta maggiormente impressa nelle menti degli italiani per descrivere il periodo coinciso con l’apice del nostro movimento cestistico, con la conquista dell’argento olimpico ai Giochi di Atene del 2004.
In realtà sono soltanto uno che ha giocato a pallacanestro bene, e che, soprattutto, ha avuto la fortuna di essere parte di una squadra clamorosa.
Già, perché una squadra così, con quei giocatori, e con quel carattere, non c’era mai stata prima e non è più tornata dopo. Ma andiamo con ordine, avvicinandoci a quello che, con tutte le contraddizioni del genere, ha forse maggiormente incarnato l’anima di quel gruppo, per voglia di vincere, passione e amore sconfinato per il gioco della pallacanestro: Gianmarco Pozzecco.

1. Il primo (e unico) playmaker italiano moderno

Nella mia vita non mi sono mai permesso di schiacciare, perché non riuscivo a farlo, ma secondo me, la cosa più bella che potessi fare, era fare tutto il campo in palleggio, fermarmi sulla riga da tre punti e segnare.
Chi non abbia mai visto Gianmarco Pozzecco giocare, e vada ora in cerca di vecchi highlights, probabilmente non rimarrebbe particolarmente impressionato. Già, cosa c’è di così particolare in un giocatore che sguscia in penetrazione tra i difensori, segna triple in coast-to-coast, palleggia in mezzo alle gambe, serve assist con passaggi no-look e dietro-schiena? Al giorno d’oggi, abituati alla spettacolarizzazione del gioco di derivazione NBA, nulla, ma vent’anni fa Pozzecco è stato semplicemente rivoluzionario nel suo genere: il primo (e probabilmente unico) playmaker italiano moderno, con caratteristiche da giocatore americano. Per intenderci, dimenticate il regista classico, dai ritmi compassati, ragionatore, che gioca per passare la palla al compagno. Pozzecco è tutto il contrario. Istinto puro, sconfinante spesso nella follia, un fiume in piena pronto a riversarsi contro il canestro, senza alcun limite. Che sia un sottomano in allungamento sbisciolando in mezzo a tre difensori o un assist con un passaggio fulmineo senza guardare.
Sono contento di aver giocato tanti anni a pallacanestro senza difendere. Perché ero così forte in attacco che mi concedevano questa libertà.
Gianmarco Pozzecco: la carriera e le statistiche da giocatore
Per semplificarvi le cose, potremmo anche raccontarvi Gianmarco Pozzecco attraverso le cifre: 14 stagioni in Serie A, tra il 1991 e il 2008 (sì, non vi tornano i conti perché nel mezzo ci sono stati diversi sconfinamenti all’estero), chiusi a 13.8 punti e 4.2 assist di media in 26.1 minuti di gioco. Nelle sue due migliori stagioni, tra il 1999 e il 2001, immediatamente successive allo scudetto della stella vinto a Varese, Pozzecco viaggia rispettivamente a 18.7 e 27.0 (!!!) punti di media, conditi da 4.5 e 5.2 assist. E siamo ancora nell’epoca in cui gli assist sono veri assist, quelli che smarcano il compagno di squadra da solo sotto il canestro. Nel suo ultimo anno da professionista, a Capo d’Orlando, è ancora in grado di trascinare una “piccola” del nostro campionato a un pazzesco sesto posto in classifica, guidando baracca e burattini con 17.3 punti e 7.8 assist di media. Commovente è dir poco. E per quelle licenze difensive, con annesse etichette di cui lui non si è mai preoccupato, chiudiamo pure un occhio. Anzi, due.
Difesa? Sì, il Poz il suo avversario lo guardava. Gli diceva tipo: ‘Che belle scarpe che hai’. Magari era bravo a rubare la palla, ma a stare basso sulle gambe davanti all’uomo, proprio no. Un giorno, durante un clinic, stava spiegando la tecnica difensiva a un gruppo di ragazzi. Io ero lì a vederlo. A un certo punto si gira, e mi fa il gesto dell’ombrello dicendomi: ‘Io avevo il culo di non difendere perché avevo dietro compagni come il Menego... e la difesa dovete farvela voi! (Andrea Meneghin)
Ah, e vi svelo anche un segreto: non ho mai fatto un tagliafuori in vita mia...

2. Sempre unico e originale, anche nel look

E quel caschetto lì? Ma che capelli avevo? Sembrava un parrucchino. E il cerottino sul naso? Tutto a posto...
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"L'urlo" di Gianmarco Pozzecco. Illustrazione di Francesco Massetti

Credit Foto Eurosport

Capelli sparati, biondi, rossi, meshati. E, sul naso, il cerotto per allargare le narici, vero precursore di una moda diffusasi all’inizio degli anni 2000. Gianmarco Pozzecco rompe i canoni con la tradizione dell’immagine del cestista dall’aspetto serioso e tutto d’un pezzo con un look prettamente unico e singolare. Anche in campo, Pozzecco non si limita mai nell’esprimere al 100% la propria personalità, esuberante quanto volete, ma mai becera, irriverente o volgare. Pozzecco sa prendere il basket per quello che è nella sua essenza, un gioco. E, in un contesto del genere, il ruolo del “giocatore” è quello di emozionare, divertire, coinvolgere il pubblico e i tifosi, trascinarli e lasciarsi trascinare nella passione più sconfinata e nell’amore per il gioco stesso. Lui ha sempre amato definirsi “pagliaccio”, una figura, però, che nell’accezione moderna si è un po’ troppo caricata di risvolti negativi. Noi preferiremmo ribattezzarlo “artista del parquet”.
I capelli colorati del Poz: tutto iniziò così
È il 1997, coach Dodo Rusconi lascia la panchina di Varese e si trasferisce a Pistoia. Con Pozzecco, Rusconi ha sempre avuto uno strano rapporto di odio-amore, e la partita tra Varese e Pistoia è molto sentita. Vince Varese, e quello che succede il giorno dopo ce lo racconta Andrea Meneghin: "Battiamo Pistoia e il giorno dopo vediamo il Poz che si presenta all’allenamento con i capelli bianchi color ghiaccio. Gli diciamo: ‘Ma che cosa fai?’. E lui: ‘Avevo detto che, se avessi battuto Dodo, mi sarei fatto i capelli bianchi...’. E, da lì, ha cominciato a sperimentare con diversi colori. Andava da un parrucchiere calabrese, che di varesino non aveva proprio niente, ma che provava a parlare in dialetto senza riuscirci".

3. Prima dell'argento: la Stella e la NBA

Finale-scudetto, gara-2 a Treviso. Mancano 50 secondi, abbiamo appena subito una tripla da Henry Williams e il punteggio è in equilibrio. Porto su il pallone, gioco un pick’n’pop con Jack (Galanda). Gliela passo e lui tira. Segna la tripla decisiva che ci fa vincere la partita. Jack era uno con le palle.
Di quella Varese della stella si è scritto di tutto e più: è stata la prima squadra a vincere con un gioco che potremmo definire moderno, con ritmi alti e campo allargato dai primi veri lunghi atipici capaci di segnare anche da tre punti (come lo stesso Jack Galanda), il tutto orchestrato dal miglior interprete di questa filosofia al momento sulla piazza, Gianmarco Pozzecco. Ma, forse, non ci si è mai soffermati abbastanza sul concetto di gruppo. Quella squadra, ancora oggi ricordata come una delle più belle e divertenti della storia del basket italiano, ha saputo vincere ma soprattutto emozionare perché era un gruppo vero, unito, di amici prima che di semplici compagni o colleghi.
Sì, eravamo alquanto buffi...
Con Gianmarco Pozzecco, Francesco Vescovi, Andrea Meneghin, Giacomo Galanda, Alessandro De Pol e Cristiano Zanus Fortes, quella Varese che nel 1999 festeggia il decimo scudetto della storia ha un fortissimo nucleo italiano, composto da giocatori in grado di andare ben oltre i propri limiti tecnici, perché, come ben espresso dallo stesso Poz, “con le palle”. Già, le stesse palle che ha la nazionale azzurra per conquistare l’argento olimpico nel 2004 e che hanno i suoi maggiori interpreti per mettersi alla prova di fronte al gotha della pallacanestro dell’epoca.
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Gianmarco Pozzecco in azione contro Tim Duncan nella partita del McDonald's Open tra Roosters Varese e San Antonio Spurs

Credit Foto Imago

Mi ha impressionato quel piccolo giocatore con i capelli rossi... (Tim Duncan)
Se anche lo ieratico e monosillabico Tim Duncan si è lasciato andare a un apprezzamento del genere, significa che Gianmarco Pozzecco è stato davvero qualcosa di unico nel suo genere. Il contesto è quello del McDonald’s Open del 1999, il torneo internazionale in cui Varese affronta i San Antonio Spurs, campioni NBA. Da una parte ci sono le Twin Towers, Tim Duncan e David Robinson, affiancate da Avery Johnson, Mario Elie, Terry Porter, Jaren Jackson e Malik Rose; dall’altra, Gianmarco Pozzecco guida la banda varesina con i capelli tinti di rosso fuoco in ricordo dello scudetto vinto tre mesi prima: i mostri sacri di un pianeta che sembra ancora così distante dal nostro che sfidano una squadra di italiani con il disegno di un galletto stilizzato che sorride sul petto. Sembra quasi l’intro di un film comico, e invece Varese guida fino all’inizio del quarto periodo, toccando anche il +14, prima di cedere con un eroico 96-86.
La “benedizione” di Duncan sembra spianare la strada al volo oltreoceanico di Pozzecco: d’altronde, possiede un bagaglio tecnico-tattico e uno stile di gioco che non ha nulla da invidiare a tanti playmaker della NBA. Nell’estate del 2001 gioca la Summer League con i Toronto Raptors, sparando 21 punti in 20 minuti proprio contro gli Spurs, ma l’età già avanzata (29 anni) non gli permette di trovare lo spiraglio desiderato.
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Face-off: Gianmarco Pozzecco e Allen Iverson. Illustrazione di Francesco Massetti

Credit Foto Eurosport

Pozzecco... Who? (Allen Iverson)
La rivincita arriva nel 2004, con antipasto servito nel torneo di preparazione per le Olimpiadi di Atene. L’Italia affronta gli Stati Uniti a Colonia, scendendo in campo per la prima volta con i 12 giocatori convocati da Charlie Recalcati per i Giochi. Nella conferenza stampa pre-partita parla Allen Iverson, probabilmente il giocatore americano dell’epoca su cui è maggior sovrapponibile la figura di Gianmarco Pozzecco: interpellato sugli italiani, la stella dei Philadelphia 76ers risponde con un misto di supponenza e disinteresse che il campo non accetterà. L’Italia domina una partita epica, vinta 95-78: l’immagine più bella è quella di Pozzecco che sfugge in palleggio alla marcatura dello stesso Iverson, manda al bar l’aiuto di Emeka Okafor con una finta, e segna con il fallo. Mentre i giocatori degli States si lanciano sguardi sempre più increduli per una sconfitta che sta impronosticabilmente maturando, Pozzecco si concede ai tifosi di Colonia. Inchino, saluto e sorriso. Pozzecco who? Eccolo qui chi è.

4. Atene 2004: la semifinale con la Lituania

Quando sono entrato, Recalcati ha avuto la brillante idea di mettermi su Macijauskas, che stava facendo sfracelli. Ma è anche vero che se non avessi marcato lui sarei finito su Jasikevicius. Alla fine sono finito a marcare Stombergas, che è poi uscito per cinque falli, due in attacco contro di me.
Questa è la Lituania, lo è sempre stata: un Paese baltico di poco più di 3 milioni di abitanti in cui la pallacanestro non è uno sport, ma una religione. Nel panorama europeo non esiste Paese che meglio rappresenta l’essenza della cultura cestistica, e noi ce la ritroviamo contro, in semifinale, con l’Argentina che dall’altra parte del tabellone ha appena gettato gli Stati Uniti nella disperazione più totale, guadagnandosi l’accesso alla finalissima. Sono una squadra esperta, scafata, collaudata, fatta di giocatori fisici e con tecnica sopraffina. Non c’è bookmaker che tenga: il pronostico pende nettamente dalla loro parte. A fine primo quarto siamo sotto 20-26. Sembra tutto già scritto. Eppure...
È stata una partita quasi cinematografica, con un copione stilato per emozionare. Noi, gli underdogs, gli sfavoriti, che siamo andati subito in svantaggio nel primo quarto: sembrava già finita, con la Lituania che si era dimostrata troppo più forte di noi. Ma è stata un’escalation di emozioni proprio per questo. C’è sempre stata quella sensazione di noi che continuiamo a giocare, che non ci facciamo schiacciare psicologicamente nonostante lo svantaggio e il pronostico contrario, e che alla fine ribaltiamo tutto vincendo.
Non ci può essere descrizione migliore per ricordare quei 40 lunghissimi minuti in cui l’Italia fa la storia segnando 18 triple (su 28 tentate), trascinata dai tiri ignoranti di Gianluca Basile (31 punti e 7/11 dall’arco) e dal killer-instinct di Jack Galanda (16): è un attacco che sforna 100 punti contro una delle squadre più forti del pianeta, orchestrato in maniera superba da Gianmarco Pozzecco, uscito dalla panchina per girarne l’inerzia nel secondo quarto e non lasciarsela più scivolare via dalle mani.
Noi difendevamo veramente tanto. Eravamo, come si dice, ‘tignosi’. Non eravamo una squadra di fenomeni, ma eravamo tosti, con pochi grilli per la testa. Tutta gente connessa con quello che faceva, insomma, professionisti. E alla fine i risultati li abbiamo ottenuti, sempre. Sono orgoglioso e grato di aver giocato con questi ragazzi.
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La Nazionale italiana di basket sul podio delle Olimpiadi di Atene 2004, medaglia d'argento

Credit Foto Getty Images

Già, gente con le palle. L’abbiamo detto e ripetuto più volte, quegli attributi che fanno la differenza dove la tecnica non può sempre arrivare. Nel gioco del basket, “avere le palle” significa segnare i canestri importanti, anche quando sembrano impossibili, come Gianluca Basile, ma anche spremersi e spendersi in marcatura sugli avversari più forti in attacco. Ma non dovete stupirvi più di tanto nel vedere Gianmarco Pozzecco basso sulle gambe, in perfetta posizione difensiva, subire due falli in attacco da Saulius Stombergas, un signor giocatore più imponente di almeno venti centimetri per altrettanti kg.
In questa partita ho sporcato un po’ la mia immagine, perché ho difeso. Nelle partite importanti, quando c’era da difendere, difendevo (almeno credo). Non perché mi piacesse farlo, ma perché mi piaceva vincere. Non l’ho mai detto, ma ora, dopo 10 anni, posso farlo.

5. Da allenato ad allenatore

Allenare Travis Diener è difficile, perché ha una personalità enorme. Ma mai quanto Pozzecco (Meo Sacchetti, ct della Nazionale).
Gianmarco Pozzecco non ha mai avuto un rapporto facile con gli allenatori. Come ha sempre espresso la sua vera essenza in campo, senza veli né maschere, lo ha fatto anche in spogliatoio, vivendo alti paradisiaci e bassi infernali. Chi ha saputo capirlo, lo ha anche amato ed è stato ricambiato: Charlie Recalcati su tutti, sia a Varese che in Nazionale, ma anche Meo Sacchetti nella sua ultima esperienza a Capo d’Orlando, con Pozzecco a incarnare il vero spirito libero del suo gioco. Chi, invece, non ha saputo capirlo restando più ancorato alla tradizione, ha visto il rapporto deteriorarsi presto e chiudersi in maniera burrascosa: da Jasmin Repesa ai tempi della Fortitudo Bologna, a Boscia Tanjevic in Nazionale. A fine carriera, vederlo sfilarsi la canotta per indossare giacca e cravatta seduto sulla panchina, è stata una sorpresa per tutti, compreso lui stesso, che si è ritrovato, da un giorno all’altro, ad allenare giocatori con cui aveva condiviso una carriera in campo.
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Pozzecco in versione "Incredibile Hulk" nel famoso "spogliarello" che gli costò l'espulsione nella partita tra Varese e Milano. Illustrazione di Francesco Massetti

Credit Foto Eurosport

Ho allenato sia Matteo Soragna che Gianluca Basile, e devo ammettere che all’inizio ero un po’ preoccupato. Ho un’adorazione pazzesca per Basile, per i suoi tiri ignoranti. Anche lui era uno che aveva le palle. Quando abbiamo battuto la Lituania, mi è saltato addosso e mi ha buttato a terra per festeggiare. Per fortuna che avevo il preservativo, altrimenti mi avrebbe messo incinta, e Nunzia, sua moglie, avrebbe chiesto il divorzio...
Non meravigliatevi nel leggere queste righe, perché, anche da allenatore, Pozzecco è sempre stato così, tale e quale era in campo: un giocatore con i gradi di coach, la sua grande dote quando le cose sono andate bene (vedi Capo d’Orlando in LegaDue), ma il suo più grande difetto quando i risultati hanno faticato ad arrivare, suo malgrado proprio quando era riuscito a riportare il suo cuore a Varese. Eppure, questo non gli ha impedito di vincere il campionato e la coppa in Croazia con il Cedevita Zagabria, al fianco di un vecchio grande amico prima che ex-compagno di squadra a Varese, Veljko Mrsic. Prima dell'ultima, enorme, scelta di cuore (e di follia): tornare alla Fortitudo Bologna nonostante quel divorzio burrascoso da giocatore per riportarla in Serie A da allenatore.
Gianmarco Pozzecco: la carriera e i successi da allenatore

6. Pozzecco e la vita: l'estero e le donne

Come facevo a non farmi distrarre dalle ragazze lituane durante la semifinale olimpica? Beh, mi facevo distrarre, semplicemente.
Da Maurizia Cacciatori a Samantha De Grenet e Eleonora Pedron, dallo “scapolo d’oro” al matrimonio con Tania, una ragazza valenciana distante dalla luce dei riflettori: Gianmarco Pozzecco ha avuto una vita sentimentale e relazionale complessa e sensazionale, come le sue stesse giocate sul parquet. Già, l’occhio per le belle donne, che fosse in Italia, in Spagna (dove ha chiuso la stagione nel 2005 e dove ha vissuto negli ultimi mesi prima di rientrare a Bologna) o in Russia (dove ha trascorso due anni con la maglia del Khimki Mosca in quello che da molti è stato definito come “esilio dorato” prima del ritorno a Capo d’Orlando), Pozzecco l’ha sempre avuto. E, quando diciamo sempre, intendiamo davvero “sempre”, anche nei momenti più impensabili. Come i time-out.
Ricordo un time-out. Allenava Valerio Bianchini. Mi siedo in panchina e una ragazza, dietro di me, mi chiama. Mi giro, le faccio l’autografo e le lascio il mio numero. Solo che c’era Bianchini che stava parlando con tutti, e a un certo punto mi fa: ‘Poz, e tu che ne dici?’. Ovviamente non avevo ascoltato una parola. La sera, a cena, mi sono avvicinato per scusarmi, e gli ho detto: ‘Valerio, va bene che c’era il time-out, che stavi parlando... ma hai visto che figa che era? In quel momento, nella mia testa, io mi sentivo giustificato dalla qualità’.
Prima di tornare in Italia per sedersi sulla panchina della Fortitudo Bologna, Pozzecco vive per parecchi mesi con la sua compagna a Formentera. D’inverno. Nella tranquillità più totale. L’amore per la pallacanestro non lo abbandona mai, e lo porta ancora a scendere in campo a livello amatoriale con la squadra locale dell’isola, come intermezzo tra una lettura e l'altra. Sì, avete capito bene: lettura.
Anche se sembra strano, Pozzecco non è mai stato un giocatore che usciva la sera per fare casino, soprattutto durante i momenti più importanti della stagione. Specialmente la sera prima della partita non usciva mai, ma proprio mai, e lo ha sempre preteso anche dai suoi giocatori quando allenava. Diceva sempre: ‘Ragazzi, dopo la partita, festeggiamo quanto vogliamo, ma la sera prima si mangia bene e si va a letto presto. Gli piaceva stare a casa, leggeva, si metteva gli occhiali spessi, e se ti capitava di passare a salutarlo ti veniva da pensare: ‘Ma chi è questo nerd? Non può essere Gianmarco!. Gli piace stare al caldo, perché è molto freddoloso. Quando conviveva, una volta Maurizia Cacciatori gli ha dato una sberla perché teneva il riscaldamento altissimo e voleva sempre stare sotto la coperta... (Andrea Meneghin).
Strano vero? Eppure il caminetto e la coperta sono rimasti quasi un must anche oggi...
Vi racconto questa. Da Formentera compro on-line un libro, solo che, essendo un’isola, le poste non funzionano esattamente come sulla terraferma. Dopo aver aspettato per due settimane la nave perché c’è il mare grosso, finalmente il libro mi arriva. Mi preparo. Accendo il caminetto, mi siedo sulla poltrona, prendo la coperta, un bicchiere d’acqua. In quel momento passa la mia ragazza, vede il libro e mi fa: ‘Ma perché hai comprato un libro scritto in francese?’. Lo apro e cavolo! Aveva ragione. Per fortuna ho un vicino di casa francese, e sono riuscito a darlo a lui...
Genio e sregolatezza anche negli acquisti on-line. Ma a Bologna, per sua fortuna, le spedizioni di Amazon dovrebbero funzionare meglio...
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