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I 7 motivi per cui gli americani vanno pazzi per la March Madness

Paolo Pegoraro

Aggiornato 06/04/2019 alle 12:09 GMT+2

La March Madness vive i suoi ultimi effervescenti capitoli con le Final Four di Minneapolis (6-8 aprile) e noi proveremo a spiegare in 7 punti i motivi dell’immensa popolarità di cui gode in patria - ma non solo - la fase culminante del campionato universitario statunitense di basket. Una sana follia collettiva e contagiosa, tutta americana.

Michigan State, March Madness 2019

Credit Foto Getty Images

Marzo è il mese pazzerello per eccellenza e, come tale, periodo dell'anno ideale per ospitare la competizione più folle dell’intero panorama sportivo. La March Madness - espressione che ormai identifica per antonomasia le concitate fasi finali del campionato NCAA di basket - sta per vivere i suoi ultimi effervescenti capitoli con le Final Four: Michigan State, Texas Tech, Virginia e Auburn tra la notte di domenica e quella di martedì si contenderanno il trofeo universitario più ambito al mondo nella cattedrale dello U.S. Bank Stadium di Minneapolis. Come spiegare lo sconfinato successo di cui gode questa tradizione ormai radicata negli States? Inizieremo col dare qualche numero, tanto per rimanere in tema di follia...

Arma di "distrazione" di massa

La March Madness è un pantagruelico carrozzone in grado di spostare una fiumana di persone e generare una miriade di quattrini. Tanto per cominciare, per assistere alla finale del 2018 tra Michigan e Villanova accorsero 67.831 spettatori all’Alamodome di San Antonio. Allargando lo spettro alle Final Four, i report NCAA rendono conto di 180 Paesi collegati e oltre 97 milioni di telespettatori nei soli Stati Uniti. La March Madness è un evento virale oltreché planetario: i social dei principali broadcaster arrivano a registrare anche 70 milioni di interazioni e nel 2018 le perdite per le aziende causate dalla distrazione dei lavoratori (!) furono stimate nell’ordine dei 6,3 miliardi di dollari. Il terreno è particolarmente fertile per le scommesse: il giro di quelle legali può toccare quota 10 milioni, quello clandestino pare sia addirittura superiore. Huge, direbbero da quelle parti.

Tutti contro tutti

La semplicità della formula è una delle ragioni del suo successo. Dimenticate le interminabili serie playoff NBA al meglio dei sette: la march madness prevede gare secche senza un domani in campo neutro. A suon di scremature le 64 squadre partecipanti vengono ghigliottinate in 32, poi 16, 8, 4, 2 e 1 seguendo le schema di primo turno, secondo, Sweet 16, Elite 8, Final Four e National Championship. Chi perde va a casa, chi vince avanza fino a determinare la squadra campione NCAA, unica sopravvissuta del lotto iniziale. Brutale, ma semplice!
Cartellone con il Bracket 2011; Tampa Bay, Florida

Senso di appartenenza

Secondo un detto molto popolare oltreoceano, a livello universitario conta più quello che c’è scritto davanti alla maglietta rispetto a quanto campeggia dietro. L’ateneo conta enormemente più del nome dei singoli giocatori. È il concetto di Alma Mater: per la propria università si è disposti a versare sino all'ultima goccia di sudore sul parquet oppure a seguirla in ogni anfratto d'America in qualità di studenti, semplici tifosi o ex alunni. A proposito di ex alunni, esistono vere e proprie associazioni tese a foraggiare a suon di quattrini le squadre universitarie contribuendo ai loro successi. Una volta che si è frequentato un college, insomma, si entra a pieno diritto in una sorta di famiglia allargata. La partecipazione con cui il leggendario Magic Johnson ha seguito dagli spalti della Capital One Arena di Washington la sfida tra la sua Michigan State e la temibile Duke di coach Krzyzewski e della stella Zion Williamson vale più di mille discorsi. Once a Spartan, always a Spartan!
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Magic Johnson assiste alla sfida tra Duke e Michigan State

Credit Foto Getty Images

Il mito degli Upset

16 marzo 2018, nella sezione "South Regional” del tabellone, UMBC (University of Maryland, Baltimore County) batte i quotatissimi Virginia Cavaliers con roboante 74-54 davanti ai 18 mila spettatori dello Spectrum Center di Charlotte. Per la prima volta nella storia del torneo una testa di serie numero 16 sconfigge la testa di serie numero uno: ecco servito l'upset per eccellenza. Il tabellone tennistico, del resto, è l'humus ideale per il proliferare di colpi di scena; la squadra più forte non vince per emanazione divina bensì dando fonde a tutte le sue energie anche perché, contro le corazzate, le avversarie meno quotate tendono a mettere in scena la partita della vita. Il campionato universitario è molto democratico in questo senso: studenti che in certi casi pagano di tasca propria per giocare possono competere con i migliori talenti in circolazione, destinatari di fior di borse di studio dagli Atenei più prestigiosi.

Cenerentola al Gran Ballo

L'americano medio non vede l'ora che sopraggiunga la follia marzolina per sospingere la Cinderella di turno, ossia la squadra rivelazione, al Big Dance, ovvero al gran ballo delle Final Four. In caso non l'aveste ancora afferrato, Davide contro Golia è il racconto biblico preferito dagli statunitensi. Lo scorso anno furono i Ramblers, squadra dell'Università privata gesuita di Loyola, Chicago, ad accattivarsi le simpatie globali. Dopo 33 anni di assenza dal torneo, partendo dalla testa di serie numero 11 della South Regional riuscirono ad arrampicarsi fino alle Final Four a suon di vittorie al cardiopalma. Ad accompagnare le loro imprese, da una sedia a rotelle sistemata a bordocampo, l'immancabile cappellana dell'Università, la 98enne Sister Jean, che insieme alla benedizione era solita impartire alla squadra preziose dritte sull'avversaria di turno. Storie da March Madness.

La liturgia dei Bracket

Per ogni americano che si rispetti la compilazione del tabellone del torneo assume i contorni della liturgia. Persino l'ex Presidente Barack Obama a suo tempo si spremette le meningi per completare il bracket. Istruzioni per l'uso: scaricare il PDF intonso e mettere nero su bianco ogni singolo pronostico sino a isolare la squadra vincente: facile, no? Non esattamente, le probabilità di azzeccare tutti gli incroci - per una persona che di mestiere non faccia l’analyst di college basketball - si attestano attorno all’una su 9.2 quintilioni. Quest’anno il sogno di tale Gregg Nigl, neuropsicologo dell’Ohio, si è fermato dopo 49 pronostici consecutivi azzeccati. Per gli indovini più abili sono previsti premi in denaro ed è sempre valida l’offerta del facoltoso investitore Warren Buffett: vitalizio da un milione di dollari l’anno per l'autore del perfect bracket. Questa prassi americana a diciotto carati è divampata negli anni 80, quando campagne pubblicitarie come quella della Nike – il cui spot Welcome to Bracketville: Stay as long as you can! fece scuola – indussero per la prima volta milioni di americani a estrarre dal cassetto carta e penna.

Calendario chirurgico

A quelle latitudini nulla è lasciato a caso: analisi incrociate sui calendari delle principali leghe professionistiche consentono di evitare sovrapposizioni, per la gioia dei network televisivi. Il torneo NCAA di basket si colloca non a caso in un periodo dell’anno in cui il menù di NBA, MLB o NFL non offre pietanze particolarmente gustose cosicché tutti, ma proprio tutti, possano essere liberi di francobollarsi al caro vecchio televisore o al device prediletto arrivando a sorbirsi anche 48 partite nello spazio di quattro giorni (succede al primo turno). Il 31 marzo del 2012 i Lakers di Kobe Bryant, Pau Gasol e Metta World Peace chiesero e ottennero di poter disputare il matinée game di mezzogiorno per non essere concomitanti con le Final Four (toccò ai poveri Clippers giocare in prima serata allo Staples Center).
La formula del torneo NCAA può essere interpretata come il riflesso di una cultura americana che spinge a competere a ogni livello e sin dalla tenera età, cultura votata per predisposizione naturale all'eccesso in ogni campo (vedi l'ingorgo sovrumano di partite). In un contesto del genere chiunque può avvalersi della fantomatica "possibilità": i vincenti saranno ammantati di gloria, i perdenti cadranno nel dimenticatoio... Fino a che una seconda chance non si palesi nel momento più inaspettato. In fondo la March Madness è un'ulteriore prova di quanto il sogno americano sappia essere così meravigliosamente contraddittorio.
Un ringraziamento ad Andrea Campagna e Davide Fumagalli per la preziosa collaborazione
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