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Antonio Genovese, il mister in carrozzina che fa il pendolare per allenare in Serie B femminile

Stefano Dolci

Aggiornato 18/01/2017 alle 17:07 GMT+1

Paralizzato agli arti inferiori dall'età di 14 anni, Antonio Genovese non si è arreso all'idea di trovare un ruolo nel calcio e dopo aver fatto per 10 anni l'osservatore per le giovanili dell'Inter e aver ottenuto il patentino di allenatore Uefa B da quest'anno allena la Domina Neapolis: "Ogni weekend mi faccio 1600 km da Milano a Napoli per allenare ma non mi lamento perché inseguo il mio sogno".

Antonio Genovese, Foto Facebook

Credit Foto facebook

Sono uno che ha deciso di vivere da attore protagonista la propria vita rifiutando il ruolo di spettatore passivo perché costretto in carrozzina
Antonio Genovese sceglie questa frase per definirsi e raccontare il percorso che lo ha portato con tenacia, passione e caparbietà a 39 anni ad assumere l’incarico di allenatore della Domina Neapolis, club campano che milita nel campionato di Serie B femminile. Costretto su una sedia a rotelle dall’età di 14 anni, Genovese non ha mai smesso di sognare e in oltre 20 anni di esperienza nel calcio è riuscito a rivestire incarichi di prestigio, tagliare traguardi, togliersi soddisfazioni e soprattutto infrangere le barriere mentali che, per un disabile, sono spesso più problematiche di quelle architettoniche.
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Antonio Genovese insieme alle ragazze della Domina Neapolis

Credit Foto Eurosport

L’incontro con Moratti e quel colloquio con Sandro Mazzola

Nato e cresciuto a Milano, tifoso del Milan come tanti ragazzini stregati dal pallone anche Antonio fino a 13 anni ha trascorso la stragrande maggioranza dei pomeriggi a giocare a calcio sui campetti della periferia milanese: “Iniziai come terzino ma poi mi spostarono in attacco perché anche se un po’ robusto avevo un bello scatto e in area di rigore non mollavo mai. Avevo fatto anche qualche provino ma poi avevo deciso di continuare a giocare nella scuola calcio dove avevo iniziato…”. Nel 1991 sul finire del mese d’agosto, al ritorno dalle vacanze estive, l’incidente stradale che gli cambia la vita e gli paralizza gli arti inferiori. Un incubo che si materializza ma che non spedisce al tappeto Genovese che, durante la lunga riabilitazione in ospedale, trova dentro di sé la forza di coltivare un nuovo sogno: diventare un allenatore di calcio. Antonio, che alla mattina frequenta la scuola di ragioneria, nel pomeriggio inizia a fare le prime esperienze a livello amatoriale ma è nella primavera del 1996 che incontra, quasi per caso, la persona che gli cambia la vita e gli offre il primo incarico vero in una squadra di calcio: “All’Ospedale Niguarda quel giorno incontrai Massimo Moratti. Era insieme al figlio ed erano venuti a fare visita ad un paziente ricoverato. Quando mi vide, si avvicinò, volle conoscere la mia storia e prima di congedarsi mi disse: ‘quando esci dall’ospedale telefonami che te lo trovo io un posto’. Lì per lì presi quella promessa con le pinze, però una volta uscito quella chiamata la feci e Moratti si dimostrò davvero un gran signore. In pochi giorni mi fissò un colloquio con Sandro Mazzola, allora direttore sportivo e responsabile dell’area sportiva, che mi affidò un incarico di osservatore per il settore giovanile”.
Dal 1996 al 2006 per 10 anni Genovese visiona partite di calcio giovanile e segnala campioncini in erba all’Inter. Il legame però si interrompe bruscamente nell’estate del 2006 quando, con il cambio ai vertici del settore giovanile dell’Inter, a Genovese non viene rinnovata la fiducia e l’incarico. Senza una squadra dall’oggi al domani, Antonio non si perde d’animo ed inizia ad inviare curriculum in tutta la Lombardia. E’ qui però che capisce veramente che troppa gente non è pronta o sufficientemente aperta a tollerare la sua disabilità: “Pensavo che con l’esperienza accumulata in tanti anni all’Inter avrei potuto essere d’aiuto a tante società minori: invece puntualmente, quando si fissava un colloquio e mi vedevano arrivare con la sedia a rotelle i dirigenti diventavano reticenti. ‘Che ce ne dovremmo fare di questo qui?’ o altre frasi di quel tipo ne ho sentite e non posso negare mi abbiano ferito… Ciò che mi dava più fastidio però era che quando chiedevo a dirigenti, allenatori o gente che gravitava nel calcio se un disabile poteva frequentare il corso di allenatore, la risposta che ottenevo era sempre un no secco, quasi mai motivato”.

Il corso da allenatore e la scelta di passare al femminile

Genovese non si arrende e nell’estate del 2010, scartabellando fra i vari commi del regolamento del settore tecnico della Figc, scopre che nel bando per Allenatore di Base –Uefa B un articolo garantisce a due soggetti di disabili di potersi iscrivere al corso e frequentarlo. Ovviamente Antonio si iscrisse e nello stesso anno lo passò brillantemente diventando il primo allenatore italiano disabile con patentino Uefa-B: “Frequentare il corso ed ottenere l’abilitazione per me è stato il coronamento di un sogno. Molti pensano sia una passeggiata o un pro forma ma non è affatto così. Le lezioni durano anche cinque ore e si svolgono dal lunedì al venerdì dalle 17.30 fino a tarda sera: il sabato mattina poi si va in campo dove ci si concentra sugli esercizi e si visionano i metodi d’allenamento di tutte le categorie del settore giovanile. Dalla tecnica, all’allenamento dei portieri, dal primo soccorso alla metodologia d’allenamento fino alla psicologia applicata al calcio: le nozioni che apprendi sono veramente tante e molto utili e mi hanno aiutato a capire che quella era veramente la strada che volevo intraprendere”.
Dopo aver iniziato a maturare qualche esperienza da allenatore con compagini juniores e di Terza Categoria lombarda ed aver fatto l’osservatore per il Monza nella stagione 2011-2012, cinque anni fa Genovese decide di abbandonare il maschile per allenare nel calcio femminile, una scelta che non ha mai rimpianto. “Ciò che mi ha colpito delle ragazze sin dai primi allenamenti ai quali ho partecipato come stagista esterno della Femminile Inter (categoria Giovanissime) è la loro curiosità e la voglia d’imparare. Nel maschile se svolgi un esercizio, tante volte succede che i giocatori lo svolgono in maniera ‘robotica’, nel femminile invece ciò non accade quasi mai: le ragazze ti bloccano, vogliono capire come lo devono fare e quali benefici può garantire loro. Hanno voglia di crescere, rispettano i consigli di chi è lì per aiutarle e questo atteggiamento rende molto stimolante allenarle. Anche e soprattutto per questo motivo non sento la nostalgia del maschile e vedo il mio futuro nel calcio femminile”. Dopo aver guidato il Settore Giovanile della Bocconi nel 2013, dal 2014 al 2016 Genovese ha svolto il ruolo di collaboratore tecnico della Res Roma in Serie A nello staff di Fabio Melillo, curando relazioni sugli avversari e accomodandosi anche in panchina nelle trasferte giocate in Lombardia. Proprio questo apprezzato lavoro quest’estate ha convinto la Domina Neapolis a contattarlo e ad offrirgli l’incarico di allenatore in Serie B.
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Le ragazze della Res Roma insieme a mister Genovese, Foto Facebook Antonio Genovese

Credit Foto facebook

1600 km ogni settimana per inseguire una passione

Vivendo e lavorando come ragioniere a Milano, Genovese non è certo agevolato nel suo compito di allenatore ma con passione e programmazione riesce comunque a cavarsela e a fare in modo che le ragazze in partita sappiano cosa fare e come comportarsi.
"Dal lunedì al venerdì le ragazze si allenano con mister Armando Troisi, col quale mi relaziono costantemente, fisso ogni settimana la tabella di allenamenti e studio le esercitazioni da svolgere che sono calibrate in base all’avversario di turno. Io in settimana studio la squadra che affronteremo, individuo punti deboli e punti di forza, studio il modulo di gioco e preparo il piano partita da illustrare alle ragazze il giorno del match. Sabato pomeriggio o domenica mattina parto in treno alla volta di Napoli dove ad attendermi trovo il presidente che mi porta allo stadio: quella è la parte più bella, finalmente respiro il clima dello spogliatoio, parlo con le ragazze, le motivo e mi accomodo in panchina per assistere alla partita. Finito il match, torno nello spogliatoio, sbrigo gli obblighi con la stampa e mi intrattengo col mio staff o il mio presidente per analizzare sommariamente il match poi mi faccio riaccompagnare in stazione dove riprendo il treno che mi riporta a Milano, in tempo per essere al lavoro lunedì”.
Nonostante i viaggi e gli spostamenti non proprio agevoli (nell’ultima trasferta di campionato in provincia di Messina, Antonio ha dovuto rinunciare ad essere in panchina per questioni logistiche), mister Genovese è soddisfatto di questi primi cinque mesi alla Domina Neapolis: la squadra alla fine del girone d’andata ha raccolto 18 punti (6 vittorie, 0 pareggi e 5 sconfitte) ed occupa un più che onorevole quarto posto che andrà confermato alla ripresa del campionato prevista fra 10 giorni. Per ora va più che bene così però per il futuro Antonio spera di trovare un incarico all’estero.
"Purtroppo in Italia, anche se qualcosa sta cambiando con il coinvolgimento di alcuni club di Serie A che stanno investendo nel femminile, non sembra esserci la reale volontà di far uscire il movimento dal dilettantismo. Le ragazze fanno grandi sacrifici, quasi tutte sono costrette ad allenarsi alla sera perché durante il giorno devono lavorare per mantenersi. Anche chi decide di allenare, come me, non lo fa certo per guadagnare chissà quali somme ma solo per passione. Questo è profondamente ingiusto ma è un dato di fatto… Per questo io fra qualche anno vorrei allenare all’estero: in Francia o negli Stati Uniti. Fuori dai nostri confini: le opportunità sono maggiori. Qualche mese fa sono stato in lizza per diventare ct della Nazionale Under 15 femminile inglese, mentre dall’inizio del 2017 ho intrapreso una collaborazione con la OSA FC, club di Seattle che milita nella WPSL: faccio l’osservatore e il mio compito è quello di scovare talenti italiani che possano arricchire la loro Academy. Spero di fare bene e di riuscire a guadagnarmi una chance per trasformare la mia passione più grande in un occupazione a tempo pieno”.
Perché una paralisi non può e non deve far esaurire la voglia di sognare e dimostrare che niente è impossibile se lo si vuole davvero.
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