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Arrigo Sacchi: "Il mio calcio, dove vincere non è l'unica cosa che conta"

Eurosport
DaEurosport

Aggiornato 10/11/2020 alle 14:06 GMT+1

Una figura storica del calcio mondiale come Arrigo Sacchi si è confidato in esclusiva con i colleghi di Eurosport Francia. Il leggendario allenatore del Milan, vincitore di due Coppe dei Campioni consecutive (1989-1990), ha dato il suo sguardo sul calcio attuale. Vero precursore nella materia, Sacchi crede fortemente che il gioco rimanga fondamentale se si vuole marcare lo spirito delle persone.

Arrigo Sacchi festeggia con i colori del Milan

Credit Foto Getty Images

La serie A possiede attualmente la miglior media gol per partita in Europa (3,7). Come spiega questa evoluzione?

"Prima di tutto, vorrei dire che ne sono molto felice. Il nostro modo di vedere il calcio è il riflesso della storia e della società di un Paese. In Italia, purtroppo, è dai tempi dei romani che non attacchiamo. Ogni tanto ci abbiamo anche provato, ma invano. Abbiamo praticato un calcio prudente, difensivo e tattico. La nostra forza è stata la tattica, più che la strategia: ci hanno detto che era sufficiente per vincere. Ad esempio, un club come la Juventus ripete sempre che vincere è l'unica cosa che conta. Volendo vincere a tutti i costi, rinnega tutti i valori della vita. Questo non ha permesso, in parte, al nostro calcio di evolversi. Io parlo di merito, di bellezza, di emozione, spettacolo e armonia. L’ottimismo non è vivere nel passato, ma nel futuro".

Che momento sta vivendo il calcio italiano?

"Io penso che nel tempo abbiamo imparato ad acquisire più cultura. Più in generale, attualmente viviamo in un mondo che non sarà mai più lo stesso. È una rivoluzione, non un'evoluzione. Rimango convinto del legame forte che esiste tra calcio, cultura e vita. I padri fondatori del gioco hanno pensato a uno sport di squadra e offensivo. In Italia il calcio aveva perso questa immagine. Si era trasformato in uno sport difensivo e individuale. La stessa didattica era diventata individuale: un errore gravissimo".
L'Italia ha sempre avuto uno stile nella moda, mentre nel calcio no. Il catenaccio non poteva essere uno stile. Spero che il calcio italiano possa finalmente definire cos’è per noi questo sport. Per le squadre sudamericane e spagnole il calcio è uno spettacolo sportivo. Per altri è uno sport con regole precise. Per noi è stato guadagnare la vittoria.

Pensa che le porte chiuse abbiano un'influenza diretta sull'aumento del numero dei gol?

"Può essere che anche l'opinione pubblica italiana abbia progredito nel suo pensiero. Prima si viveva ancora in epoca preistorica. Allo stadio, spesso e volentieri, ti cantavano: 'Devi morire'. Era la ripetizione di una cosa che potevi sentire 2000 anni fa dentro le arene. Simboleggiava un’evoluzione ancora da fare.
Vi racconto un aneddoto: due anni fa il sindaco di una città italiana, colpita da un terremoto, mi ha invitato a parlare di calcio: 'Ci insegnerai a fare squadra', mi ha detto. L'intera città era fatta di container. Non ero troppo nello stato d'animo, ma ci sono andato. Al termine di questo convegno, un tifoso del Milan si è avvicinato. Era a Barcellona per la finale contro la Steaua Bucarest, nel 1989 (4-0 per il Milan, ndr), e mi ha mostrato la prima pagina di L'Equipe. C'era scritto 'Usciti da un altro mondo'. Nell'articolo il giornalista diceva che lui e i suoi colleghi pensavano che avremmo smesso di attaccare sull'1-0. Che avremmo usato il catenaccio. Ma abbiamo continuato. Per me, i valori hanno sempre la precedenza".

La mentalità è più importante della tecnica?

"Io non ho mai guardato i piedi dei miei giocatori. Ho guardato il loro spirito, la loro disponibilità, la loro modestia, la loro intelligenza e il loro entusiasmo. Non volevo giocatori con valori contrari a uno sport di squadra, come l'eccesso di individualismo, la gelosia o anche l'avidità. Penso che anche il mondo si stia muovendo in quella direzione. Oggi, il pubblico va allo stadio e può giudicare una vittoria. Se è inutile, rimarrà nei libri ma mai nei cuori e nelle menti delle persone".

L'Atalanta pratica un calcio tra i più belli d'Europa...

"La partita contro l'Ajax è stata fantastica. Dovrebbe essere mostrata a tutti i bambini nelle scuole di calcio. Lo spettacolo è dove c'è intrattenimento, e poi puoi anche perdere se l'altra squadra è migliore della tua. Vedo altre squadre, anche piccole, che cercano di giocare a palla. Penso in particolare al Crotone, all'Hellas Verona o allo Spezia. È la rivoluzione delle piccole squadre. Sai perché sono arrivato al Milan in quel momento?".
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Uno dei momenti di Atalanta-Ajax, tra le più spettacolari partite di questa Champions League

Credit Foto Getty Images

Ci racconti...

"Avevo un presidente (Silvio Berlusconi, ndr) che si allontanava dalla classica identità di voler vincere a tutti i costi. Berlusconi aveva grandezza. Mi ha detto: 'Dobbiamo diventare la squadra più grande del mondo'. Ho risposto: 'Questo traguardo può essere limitante e restrittivo'. Lui non capiva. Avevamo una sola possibilità: diventare la più grande squadra di tutti i tempi. Quando UEFA, World Soccer, France Football e SoFoot hanno eletto il Milan come la più grande squadra di tutti i tempi, ho preso il telefono e ho chiamato Berlusconi. Gli ho detto: 'Hai capito perché ti ho detto limitante?".

L'estetica è più importante della vittoria?

"Prendiamo il Napoli di Sarri. Non ha vinto, eppure la Curva gli aveva scritto: 'Grazie per le emozioni'. Che bellezza. Non avevano vinto, ma avevano capito. Dobbiamo aumentare il livello di cultura".

Che ne pensa del passaggio di Marcelo Bielsa al Marsiglia?

"Secondo me, la gente aveva capito cosa avrebbe portato a Marsiglia. Purtroppo, molti giornalisti sono opportunisti pur di vendere qualche copia in più. Se un allenatore vince, deve essere bravo. Non sono d'accordo. Non è così che funziona. Se la pensi così, non affini la tua cultura e la tua capacità di sapere se hai vinto con merito oppure no. Un giorno, uno dei miei giocatori mi ha detto che stavamo lavorando troppo e che non si stava divertendo. Gli ho detto che facendo poco non si raccoglie molto, e che se avesse dato tutto le persone lo avrebbero ricordato per tutta la vita. Non alleno da 25 anni, ma non appena vado da qualche parte mi viene chiesta una foto o un autografo. Questo perché sono riuscito a dare qualcosa. Il calcio è la cosa più importante tra le cose meno importanti".
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Il manifesto di Marcelo Bielsa: l’allenatore per cui l’etica conta più di una vittoria

Il PSG è spesso criticato per il suo modo di giocare. È d'accordo?

"Non guardo molto il PSG perché non mi piace. Ho visto 30 minuti di partita contro l’Istanbul Basaksehir, e ho cambiato. È una squadra che non si basa su armonia e bellezza. È una squadra che fa affidamento su individualità e forza economica. È un gruppo, non una squadra. Una squadra è quando 11 giocatori riescono a interiorizzare le cose. Va oltre la tattica e la tecnica. Questo è quando le risposte diventano automatiche, dall'allenamento fino all'incontro. Non vedo molti automatismi al PSG. L'Atalanta ha fatto un vero capolavoro la scorsa stagione nei quarti di finale di Champions League contro il PSG. Un giocatore dei francesi costa più di tutta l'Atalanta".

Qual è la sua opinione su Didier Deschamps?

"È un bravo allenatore, questo è indiscutibile. Però, come nella vita, ci sono tattici e strateghi. Deschamps appartiene ai tattici e in questo è molto bravo. Ma cosa manca ai tattici? Bellezza, armonia, amalgama ed emozioni".

Teme un passo indietro nel gioco quando gli stadi saranno di nuovo pieni?

"Un allenatore convinto continuerà per la sua strada. L'Atalanta giocava già così, così come il Napoli di Sarri. A volte vedo i difensori criticati per una mancanza di attenzione. Ma attacchiamo e difendiamo in undici. Il grande Milan, l'Ajax e il Barcellona di Guardiola sono state l'esaltazione del collettivo. Tutti i giocatori sono stati versatili e hanno svolto entrambe le fasi, tutti legati da un filo conduttore comune e invisibile che è il gioco, che fa la differenza".

Come vede la sua carriera oggi?

"Ho allenato per 27 anni partendo dalla penultima categoria esistente in Italia. Ho fatto tutte le categorie prima di arrivare in Serie B. Ricordo ancora quando il Milan ha deciso di scommettere su di me. Con il Parma avevamo giocato un'amichevole contro di loro. Berlusconi aveva appena comprato cinque giocatori della Nazionale italiana. Io, invece, avevo una squadra di ragazzini. Giocavamo bene e un mese dopo, in Coppa Italia, siamo riusciti a battere il Milan per 1-0 con pieno merito. Al termine della partita, Berlusconi è venuto verso di me e mi ha detto che mi avrebbe seguito. Tempo dopo, in un altro turno di Coppa Italia, ritroviamo il Milan: vinciamo ancora 1-0 e Berlusconi mi chiama. Ho accettato, ma tutto questo perché avevamo vinto con merito. Berlusconi è un grande leader per questi dettagli.
Il nostro dogma era: vincere, divertire e convincere. Giulio Cesare riuscì a conquistare la Gallia con 50mila uomini contro 300mila, e tutto grazie a una strategia perfetta. Era una vera squadra. Il calcio per me è sempre stata intelligenza collettiva.
Ho un debito con la Francia. France Football mi aveva eletto terzo miglior allenatore di tutti i tempi dietro Rinus Michels e Alex Ferguson. E pensare che ho allenato in Serie A solo per cinque anni: lo stress mi stava uccidendo. Poi ho guidato la Nazionale e ho deciso di smettere dopo 27 anni. Ho dato la mia vita al calcio, e il calcio me l'ha restituita con emozioni indescrivibili. Sono una persona felice e non ho rimpianti. Il secondo posto ai Mondiali del 1994? Il Brasile stava giocando meglio e meritava di vincere. Io ho sempre voluto vincere in base al merito: per me è sempre stato un valore".
intervista di Guillaume Maillard-Pacini (traduzione di Carlo Filippo Vardelli)
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Il gol di Van Basten che cambiò la storia del Milan

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