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Di Stefano spiegato ai giovani: se Pelé e Maradona sono stati il massimo, don Alfredo è stato tutto

Roberto Beccantini

Aggiornato 05/06/2020 alle 22:10 GMT+2

Pelé e Diego Maradona sono stati il massimo. Alfredo Di Stefano è stato tutto. Direttore d’orchestra e orchestra. Il cuore, invidioso, se lo portò via a 88 anni, nel 2014, presidente onorario di quel Real Madrid che aveva trasformato in leggenda.

Di Stefano Focus

Credit Foto Eurosport

Pelé e Diego Maradona sono stati il massimo. Alfredo Di Stefano è stato tutto. Direttore d’orchestra e orchestra. Il cuore, invidioso, se lo portò via a 88 anni, nel 2014, presidente onorario di quel Real Madrid che aveva trasformato in leggenda. La sua carriera non ha scortato il calcio: l’ha anticipato. Ancora oggi si dice e si scrive: «giocare alla Di Stefano». E cioè: sequestrare il campo e occuparlo per quanto è largo e lungo; essere difensori che attaccano e attaccanti che difendono; segnare, far segnare e non far segnare. Ai suoi tempi, spopolavano gli specialisti. Di Stefano diede una pedata ai luoghi comuni.
C’era, in Italia, uno che giocava così: si chiamava Valentino Mazzola. Il destino scelse Superga per impedire che i due diventassero compagni nel Grande Torino. Fu proprio il River Plate di Di Stefano a onorarne la memoria. Era il 26 maggio 1949, ventidue giorni dopo la tragedia. Quando il River sbucò dagli spogliatoi del Comunale per misurarsi con una selezione di Serie A, si levò al cielo una toccante ovazione. L’incasso venne devoluto alle famiglie delle vittime. E la partita, per la cronaca, finì 2-2, con un gol di quel tizio lì, un po’ stempiato e un po’ svitato, nato il 4 luglio del 1926 a Buenos Aires, nel quartiere di Barracas, uno dei più popolari e laboriosi della periferia portena. La mamma era di sangue franco-irlandese. Il padre, di origini italiane, lo sognava ingegnere agronomo. Della sua infanzia, Alfredo ricordava la fame. Una fame atavica e feroce che, non a caso, contribuirà a farne un mangiatore di schemi, un cannibale di avversari. Non sapere cosa avrebbe trovato per cena lo spingeva ad azzannare tutto quello che c’era nel piatto o si agitava sull’erba.
Primi calci in squadrette dalle sigle guerriere, «Once y Venceremos», «Imàan». Già a 15 anni, eccelle nelle giovanili del River, la società della ricca borghesia. Il ruolo è subito indefinito e indefinibile: centravanti, sì, ma di movimento. E poi i soprannomi: «el aleman», il tedesco, la «saeta rubia», la freccia bionda. Sono i giornalisti a coniarli. Ogni tanto ci prendono. Di Stefano comincia a guardarsi attorno. Batte cassa. Nulla lo sazia. Del Torino ho scritto. In Colombia hanno creato una Lega clandestina che offre fior di quattrini. Espulsa dalla Fifa, chiunque vi partecipi viene considerato fuori legge. Di Stefano se ne frega: pecunia non olet. Firma per i Millonarios di Bogotà, saranno tre stagioni di gloria e baldoria. Approfitta dei buchi del calendario per sposare Sara, una ragazza di Baires. Gli darà sei figli.
Il rischio di severe sanzioni lo convince a tornare sui suoi passi. Il River lo accoglierebbe a braccia aperte, ma c’è un problema: paga poco. Gli dei non aspettavano che un pretesto. Eccolo. Improvvisa, scocca l’ora del Real. I Millonarios sfilano in passerella proprio a Madrid e Di Stefano, quel pomeriggio, lascia tracce indelebili. Santiago Bernabeu, il presidentissimo, ne rimane folgorato e sguinzaglia il suo braccio destro, Raimundo Saporta («papà» di Italo Allodi), che si accorda con i dirigenti colombiani. Si muovono anche dalle Ramblas: l’inviato del Barcellona, Pepe Samitier, ha la parola del River, legittimo proprietario del cartellino. Scoppia il finimondo. La Federazione, terrorizzata dal lignaggio dei duellanti, si rifugia nel più vigliacco dei compromessi: una stagione al Real, un’altra nel Barcellona. La Catalogna insorge: sente puzza di Francisco Franco. L’orgoglio ferito suggerisce al Barça il più madornale degli errori: noi, uno che indossa la «camiseta blanca», non lo vogliamo; tenetevelo pure.E così il 22 settembre del 1953 Di Stefano cambia, in un colpo, non meno di quattro vite: la sua, quella dei due club e del calcio. Cosa sarebbe stato il Real senza Di Stefano, e Di Stefano senza il Real? La storia non si fa con i «se» e con i «ma». Si fa, e basta. Di Stefano l’ha rifatta, addirittura.
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Alfredo di Stefano, Gento e Ferenc Puskas del Real Madrid.

Credit Foto Eurosport

Insieme, vincono e rivincono tutto: in Spagna (otto campionati, 216 reti in 282 gare) e all’estero. Soprattutto all’estero. Nel 1955, battezzano la Coppa dei Campioni e ne divorano le prime cinque edizioni. Può contare su spalle come Raymond Kopa, Ferenc Puskas, Luis Del Sol, Didì, Francisco Gento. Ognuno ha un compito: Di Stefano li somma. Uomo-squadra nell’accezione letterale del termine. Uomo ovunque. Se lo marchi con uno stopper, arretra a centrocampo. Se gli dedichi un mediano, fa la punta. Per inquadrare la palla, all’albeggiante televisione dell’epoca è sufficiente zoomare sui suoi piedi: è sempre lì, docile e riconoscente. Edmondo Berselli, ne «Il più mancino dei tiri», cita una frase di Adolfo Pedernera, che gli fu maestro al River: «Ragazzo, di questo gioco campiamo tutti: vedi di darti una regolata». Serve altro? Di Stefano non può che arrendersi alla vecchiaia: ha 38 anni quando,al Prater di Vienna, disputa l’ultima finale di Coppa dei Campion inchinandosi all’Inter di Sandro Mazzola, figlio di Valentino, e Helenio Herrera, il nemico giurato che, di nascosto, lo venera. La sorte lo porta a raccogliere gli ultimi spiccioli in quella Barcellona che lo aveva rifiutato all’inizio della saga.
Alfredo chiude nell’Espanyol, a 40 anni. Riprenderà a vincere da allenatore al Boca, al River, al Valencia (una Liga e una Coppa delle Coppe). Sarà anche, prima di diventare icona narrante del Real, il tecnico che fa debuttare Emilio Butragueno. Quando ancora giocava, durante una tournée in Venezuela, fu rapito e tenuto prigioniero per due giorni da un gruppo rivoluzionario anti-franchista. Motivo: farsi pubblicità attraverso il sequestro di un simbolo.
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Zinédine Zidane e Alfredo Di Stefano

Credit Foto Getty Images

Due Palloni d’oro (pochi) e l’unico Superpallone assegnato da «France Football». Alfredo Di Stefano vanta un record singolare. Si è arrampicato in cima all’immortalità dopo aver servito tre Nazionali e senza aver masticato nemmeno una briciola «mondiale» (vedi alla voce George Best): nel 1950 era in Colombia, «wanted» dalla Fifa; nel 1954 non c’era l’Argentina, eliminata nelle qualificazioni; nel 1958, dopo l’ennesimo «salto», mancava la Spagna; e nel 1962, in Cile, c’era la Spagna - con Helenio ct - ma non lui, infortunato. Nel giardino di casa, a Madrid, spicca un monumento bronzeo che riproduce un pallone di cuoio. Alla base, due parole: «Gracias vieja». Grazie vecchia. Alfredo Di Stefano, il campione che tutti avrebbero voluto essere e che solo lui è stato. Il più completo. O, per dirla con Johan Cruijff, l’olandese smilzo che ne raccolse il testimone, il più totale.

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