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Facciamo i conti: Superlega? Economicamente aveva un senso

Enrico Turcato

Pubblicato 22/04/2021 alle 20:11 GMT+2

L’idea dei club resta intatta: aumentare i ricavi dalle coppe europee e portarli a livello almeno delle migliori leghe americane. Il modello è sicuramente rivedibile, modificabile e si può rendere più virtuoso, ma l’idea economica che lo alimentava era necessaria per salvare un sistema al collasso. Potrebbe essere la prima mossa di una lunga partita.

Superlega? Economicamente aveva un senso

Credit Foto Eurosport

Per alcuni è durata meno di 48 ore. E cioè dall’annuncio notturno simultaneo domenica sera di 12 top club europei alla ritirata in massa delle inglesi martedì. Per Florentino Perez, Andrea Agnelli e Joan Laporta non è affatto decaduta, ma è solo rimandata. A prescindere dalla strabordante retorica di questi giorni e dai giudizi (più o meno legittimi) sul senso di una competizione semi-chiusa, elitaria e poco incline a rispettare il reale senso dello sport, la domanda più scontata dovrebbe riguardare la motivazione che ha portato 12 società di quel calibro a cercare una via di fuga così rumorosa come la Superlega. In realtà è facile intuire che a smuovere una tal idea siano dettami quasi esclusivamente economici. Lo ha ribadito più volte lo stesso presidente Perez, ha tentato di chiarirlo il numero uno del Barcellona, lo ha spiegato in maniera lucida l’ad dell’Inter Beppe Marotta dopo il pareggio con lo Spezia: “L'iniziativa è stata portata avanti dai 12 proprietari dei club coinvolti alla luce dell'attuale situazione, particolarmente difficoltosa, dal punto di vista economico e finanziario. Questo modello di calcio europeo, a loro dire, era superato: così hanno tentato di trovare una soluzione. Il calcio rischia il default. E parlo dell’intero sistema. Nessuna azienda potrebbe continuare a vivere con un monte-ingaggi pari a al 60-70% del fatturato. Non si garantisce il futuro, è stato anche doveroso cercare un qualcosa di diverso”.

Gi sport americani come modello di business

Il perimetro sul quale cercare similitudini di business è abbastanza chiaro, i modelli altrettanto. Dobbiamo volare negli Stati Uniti d’America: la National Football League (NFL) negli Usa incassa ogni anno 7 miliardi dai diritti tv, l’NBA 2,5, il baseball 1,8 (MLB). La UEFA dalle licenze delle Coppe europee prende circa 3,3 miliardi e deve dividerli con le squadre partecipanti a Champions ed Europa League, che al momento sono davvero tante. Troppe fette di una torta non certo esageratamente grande. È una cifra, infatti, che i dodici “ribelli” considerano al di sotto del vero potenziale del calcio europeo, che come ascolti, popolarità, sponsorizzazioni, spettacolo, riscontro di pubblico non ha nulla da invidiare leghe a stelle e strisce sopra citate. L’audience della finale di Champions League è di 180 milioni di spettatori contro i 140 milioni di audience del Superbowl. Qui sta il punto focale della vicenda: l’UEFA viene “accusata” di non valorizzare abbastanza un prodotto di livello e interesse mondiale.

Debiti, gestioni da rivedere, JP Morgan

Ed è altrettanto palese il senso di questo progetto oligarchico. Le società più importanti d’Europa sono altamente indebitate e faticano a reggere in un sistema imprigionato dagli stipendi dei calciatori e degli allenatori, dalle commissioni agli agenti, da una gestione governata dal “pagheremo poi” che pare non avere più futuro. La pandemia non ha fatto altro che accelerare questo processo, mettendo allo scoperto situazioni già drammaticamente compromesse. Mantenere la competitvità nel lungo periodo è diventato complicato e per non far crollare tutta la baracca urge un intervento immediato. “Colpa vostra se strapagate i giocatori, se fate contratti faraonici anche a chi non se lo merita, se vi affidate ad agenti aguzzini”, la critica principale letta in queste ore. Ineccepibile, se non fosse tutto il sistema a reggersi su un precario equilibrio, in pieno stile domino, dove se le grandi franano rischiano di compromettere la situazione anche delle minori, che spesso sistemano i bilanci vendendo a caro prezzo le loro giovani promesse proprio alle big. Ecco perché a far gola ai 12 “innovatori” era soprattutto la fiche d’entrata della Superlega: 3,5 miliardi, poco meno di 300 milioni a testa finanziati dal colosso Jp Morgan. Soldi non spendibili per ingaggi e calciomercato, ma utili per le infrastrutture, per sistemare i bilanci e per coprire i danni del Covid. Gli organizzatori della nuova competizione avrebbero poi pensato a un sistema di controllo dei costi, con un tetto ai cartellini dei giocatori per evitare spese folli e per riportare a un livello accettabile tutto il sistema.

Modello Bayern non replicabile altrove

In tanti in questi giorni hanno mosso un’osservazione sensata. Ma perché il Bayern Monaco riesce a reggere a quei livelli senza indebitarsi e senza rischiare di non essere competitivo? La società bavarese, miglior esempio di gestione sportiva nel mondo del calcio nel mix tra successi sul campo e situazione finanziaria, gode anche di una posizione di rendita in Germania a cui nessun altro club europeo puó ambire. E cioé non avere praticamente rivali interni ed essendo al tempo stesso sostenuto da tutti i principali colossi teutonici come Bmw o Volkswagen (tramite Audi), che fanno a gare per entrare nell’azionariato della società bavarese dove già sono presenti Allianz e Adidas. Insomma il Bayern funziona a meraviglia, ma é un modello a sé stante e legato al suo territorio. E tra l’altro infatti ha vinto gli ultimi otto campionati e va a caccia del nono (a proposito di competitività).

Urge dare spazio al merito: lì va cercata la soluzione

E quindi? Quindi non stiamo giustificando il senso di una Superlega per pochi, visto che calpesta moralmente il principale valore dello sport legato alla competitività, ma stiamo spiegando la impellente e non rinviabile necessità di modificare un sistema economico, quello del calcio attuale, che ha gli anni, se non i mesi, contati. Che le partite europee tra grandi squadre suscitino interesse è palese, come è altrettanto certo che i campionati siano troppo lunghi e meno spettacolari. I giocatori sono sottoposti a calendari asfissianti, con troppe gare da disputare nel breve periodo. L’idea di aumentare le partite in Europa pur riducendo le squadre (la Champions attuale ne conta giá troppe e la riforma del 2024 imposta dall’UEFA le aumenta addirittura) e di ridurre la durata dei campionati, magari usandoli come strumento di qualificazione alle competizioni d’elite potrebbe avere un senso. L’importante, viste anche le reazioni di politica, tifosi, stampa e di tutto il mondo, è tentare di trovare una soluzione che oltre a tutelare i top club, aiuti anche le società più piccole. Per adesso la Superlega è sembrata ai più un maldestro tentativo sfumato nel nulla, ma non è difficile immaginare che abbia smosso le acque per qualcosa di più grande. Il calcio è destinato a mutare a breve e lo sanno in primis gli stessi diretti interessati.
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Superlega: cronistoria di un progetto naufragato in 48 ore

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