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La storia della tattica: da Sacchi a Guardiola

Mattia Fontana

Pubblicato 18/05/2015 alle 15:46 GMT+2

L’Olanda del 1974 testimonia come la materia tattica si stia evolvendo in qualcosa di sempre più duttile. Il know-how si espande e trovano spazio sperimentazioni tanto estreme, quanto parallele e contemporanee.

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Credit Foto Eurosport

Pensate a Viktor Maslov, allenatore russo che esercita dal 1942 al 1975 ed è destinato a raccogliere i frutti del proprio lavoro grazie all’erede Valeri Lobanovsky. Maslov è il primo a curare la preparazione atletica influenzando persino la nutrizione dei giocatori, ad applicare il 4-4-2 (secondo molti ne sarebbe l’inventore) e a proporre il pressing. Quel rivoluzionario concetto per cui non sei tu a dover aspettare la palla nella zona di marcatura che ti compete, ma devi andare ad aggredire l’avversario per poterla recuperare. In un calcio che rispecchia la filosofia di un’epoca e, per certi versi, dello stesso blocco comunista, il giocatore viene ripensato dalla testa ai piedi. Atleticamente, per via di una preparazione scientifica che esalta corsa e dinamismo. E filosoficamente, perché viene interpretato come un esecutore di schemi prefissati. Si scende in campo per applicare un gioco prestabilito, per governare il caso.
Viktor Maslov (foto Imago)
L’operazione riesce alla grande alle inglesi, che tornano alla carica prepotentemente, dominando in sostanza il decennio iniziato nel 1976 e concluso dalla notte dell’Heysel. Sono gli anni in cui si affinano i fondamentali del football britannico, quelli che resteranno intonsi sino all’avvento di José Mourinho. Le inglesi riassorbono i principi più sperimentali a loro modo, spingendo al massimo l’acceleratore sulla concretezza e sulla ricerca della disposizione più razionale. Il risultato è il 4-4-2 classico. Quattro difensori in linea, spinta sugli esterni grazie al gioco di coppia tra terzini e ali, ma soprattutto un centravanti cui delegare i compiti di finalizzazione. Le declinazioni possono essere varie, chi insiste maggiormente sul gioco “pane e burro” fatto di cross e lanci come Don Revie, chi riesce a evolvere lo stile come l’erede di Bill Shankly a Liverpool, il leggendario Bob Paisley. L’uomo che chiede per la prima volta anche ai difensori di dare il loro contributo alla fase offensiva arrivando al “pass and move” come forma di gioco che porta i Reds in cima all’Europa. Paisley da una parte, Brian Clough dall’altra, entrambi innovatori, come testimonia la celebre frase attribuita all’artefice dei miracoli Derby County e Nottingham Forest: “Se Dio avesse voluto che giocassimo a calcio tra le nuvole, avrebbe messo l’erba anche lassù”. Quando i colossi britannici mettono nel motore anche un pizzico di tecnica, iniziano a dominare con i loro club.
Lo sperimentalismo italiano, invece, rimane confinato alla zona mista. Forse uno dei motivi per cui – il fattore principale è la chiusura delle frontiere agli stranieri – le nostre squadre faticano tremendamente a mantenersi competitive ad alto livello in Europa durante tutto l’arco degli anni 70. In Coppa dei Campioni, si registrano tre vittorie dell’Ajax, tre del Bayern Monaco e addirittura quattro di fila delle inglesi. Per le italiane è silenzio dall’acuto nel 1969 del Milan (l’ideale passaggio di consegne tra il Catenaccio e l’embrione di calcio totale proposto dal giovane Ajax) al successo della Juventus nel 1985. Tra chi prova a svecchiare più di tutti c’è Nils Liedholm, vincitore dello scudetto della stella rossonera nel 1979 senza giocare con una prima punta di ruolo (Chiodi non è all’altezza, quindi compensa infoltendo la trequarti) e, poi, il primo a portare a casa il tricolore con la difesa a zona, nel 1983, con la Roma. Personaggio geniale dal punto di vista mediatico, lo svedese è altrettanto scafato a livello tattico. Il suo stratagemma consiste nella fusione di zona e calcio italianista, aggiungendo il possesso palla al contropiede. L’emblema non può che essere Agostino Di Bartolomei, trequartista dai piedi fini che viene arretrato nel ruolo di libero. La sua qualità compensa la sua lentezza almeno quanto la scelta di Pietro Vierchowod come stopper e di Sebino Nela come terzino destro. Due difensori con scatti da centometristi che si associano ad Aldo Maldera, già devastante ai tempi del Milan come terzino fluidificante. A organizzare il gioco a centrocampo è il “metodista” Falcao, coadiuvato dalla coppia Ancelotti-Prohaska. La classe di Conti a giostrare tra le linee e la finalizzazione di Pruzzo fanno il resto. Un calcio che prende il meglio dal passato e dal presente, mescolandoli con il buonsenso di uno degli ultimi saggi del nostro mondo pallonaro.
Un’operazione molto simile a quella che avviene sul finire degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 in Belgio, tradizionalmente luogo di varianti tattiche più coperte rispetto alle soluzioni dei “cugini” olandesi. Qui opera un personaggio spesso trascurato dalla grande storia nonostante sia stato all’origine di molti sviluppi attuali del nostro calcio. Si tratta di Guy Thys, ct del Belgio dal 1976 al 1991 (con eccezione del 1989). Il tecnico in questione riadatta in chiave difensiva i principi del calcio totale più estremo, che erano giunti a coincidere con un 3-4-3 di totale spinta offensiva. Mantiene il pacchetto a tre arretrato, aggiungendo due terzini fluidificanti (nel Catenaccio, così come nella zona mista, erano sempre e soltanto uno e la spinta sull’altra fascia veniva limitata all’ala destra). Nasce il 5-3-2, un modulo nel quale si gioca a zona con il libero (come con Liedholm), uno schieramento che aggiunge un difensore ma non perde qualità in fase di possesso palla e produzione offensiva. Il Belgio, con lui, vive gli anni d’oro coincisi con il secondo posto a Euro 1980, il quarto posto ai Mondiali del 1986 (battuti soltanto dall’Argentina di Maradona) e gli ottavi di Italia ’90 (ko con l’Inghilterra). Le tracce del suo insegnamento sono più che vivide nei tanti 3-5-2 che pullulano la nostra Serie A, ma furono soprattutto il modello su cui Nevio Scala plasmò il Parma di inizio anni 90 (che non a caso ereditò dal Belgio il colosso difensivo Grun). Tutti attaccano e tutti difendono come nel calcio totale, però il gioco si sviluppa con maggiore attenzione alla fase di non possesso.
Il calcio dal 1974 a metà degli anni 80 è dunque la storia di una serie di progressivi assorbimenti e aggiustamenti. Sino al due agosto 1987, il giorno in cui Arrigo Sacchi debutta sulla panchina del Milan, rimettendo il movimento italiano in testa all’evoluzione tattica. Come già accaduto con Rimini e un Parma di ragazzini portato alle soglie della massima divisione, il tecnico di Fusignano impronta il proprio calcio su una fusione (per niente a freddo) dei principi olandesi e di quelli russi derivati da Maslov. Tradotto in termini pratici, il suo calcio si sviluppa attraverso la forma che permette la più razionale occupazione degli spazi (il 4-4-2) e viene applicato da giocatori sopra la media per capacità atletiche mediante l’ossessiva ripetizione di schemi mandati a memoria in sedute d’allenamento mai viste dalle nostre parti. Il tutto viene impiantato in una società che programma apertamente la dominazione totale del mondo calcistico affidandosi ad acquisti miliardari (i primi: Gullit e van Basten, poi sarà Rijkaard: guarda caso, si pesca in Olanda) costituendo una rosa che avrebbe probabilmente vinto altrettanto proponendo anche un tipo di calcio tradizionale. Sacchi, però, vuole di più. Vuole innovare o, ancor più, rivoluzionare. E, sapendo di avere tra le mani una squadra semplicemente mostruosa, ci riesce.
A livello tattico, il cambiamento radicale è racchiuso dalla definizione che diede Jorge Valdano: “Con Sacchi, le squadre acquisirono per la prima volta una bellezza estetica anche nella fase di non possesso”. Perché sì, in questa rivoluzione anche del gergo calcistico in cui l’italico contropiede viene sostituito dalla ripartenza sacchiana, il tecnico rossonero riesce a cambiare i canoni storici del nostro movimento. Il Milan di Sacchi (diverso sarà il discorso della sua Italia) non aspetta l’avversario, lo aggredisce. Si inizia – anche dalle nostre parti - a parlare di pressing, quella spinta a ondate che porta i rossoneri a intimorire fisicamente il portatore di palla altrui. La soluzione, già applicata dalle squadre di Maslov e dalle olandesi, viene portata agli estremi anche grazie all’esecuzione integralista della tattica del fuorigioco. Sacchi convince l’ultimo vero libero del nostro calcio, Franco Baresi, a prendere in mano il libro degli schemi che fu di Signorini. E lo rende il primo centrale moderno, capace di guidare una retroguardia di semidei (da Tassotti a Maldini, passando per Costacurta o Galli) oltre ogni limite conosciuto. Il Milan difende sulla linea di centrocampo, ottiene un recupero della palla altissimo e domina. Spazzando via il mondo per due anni, ridefinendo i canoni calcistici che erano già stati messi in crisi dalle nostre parti da Giovanni Galeone e Zdenek Zeman, come Sacchi tra i primi a portare la difesa a zona in Italia ma con soluzioni più legate al 4-3-3 standard.
Arrigo Sacchi (foto Imago)
La polemica infiamma. Brera prende di mira gli stilemi del calcio sacchiano, ma i tempi sono cambiati. Sono tornati gli stranieri in Serie A e gli stessi italiani non hanno più il fisico minuto e mingherlino dei primi anni del dopoguerra. Un altro tipo di calcio, offensivo e aggressivo, è possibile. Le discussioni non mancano, ma a metà degli anni 90 il messaggio è passato eccome. Le squadre italiane, uscite vincitrici da questa fusione perfetta tra cura della difesa tradizionale e nuova visione offensiva, vivono il periodo più florido di sempre. Sino a quando tutto il sacchismo entra in crisi. Perché sì, a un certo punto il 4-4-2 munito di pressing e tattica del fuorigioco sfonda, fino all’autolesionismo. L’abiura dei trequartisti (in alcuni casi confinati alla fascia), la riduzione del numero delle ali classiche e l’evoluzione difensivista che irrobustisce parecchie mediane con giocatori più fisici che tecnici, collima in un periodo di stagnazione spettacolare del nostro calcio. Molte partite, con squadre che difendono così alte, si giocano in una ventina di metri a ridosso del centrocampo. Prevale il fallo tattico sulla tecnica. Un vicolo cieco che dà vita a un nuovo aggiustamento tipicamente italiano.
Se ne fa promotore un altro romagnolo, Alberto Zaccheroni, l’uomo che studia da vicino il 3-4-3 a rombo proposto dal “dream team” di Cruijff al Barcellona. E lo rielabora con la sua Udinese. In quella squadra giocano tre punte vere (il centravanti vecchio stile, Bierhoff, l’attaccante di movimento, Poggi, e la seconda punta di qualità, Amoroso), due terzini di spinta che scaricano al centro dell’area valanghe di cross (Helveg il principale) e due mediani di rottura. Un atteggiamento simile a quello proposto da Alberto Malesani tra Chievo, Fiorentina e Parma. Una soluzione assorbita poi anche dall’ultima Juventus della prima era di Lippi (un autentico maestro nel concretizzare le velleità altrui prima con il 4-3-3 e poi con il 3-4-1-2), una via di sbocco nello stallo che emerge nella Serie A di fine anni 90.
All’estero, ancora una volta, si procede su altri binari. Quelli che vengono tracciati dalla Francia campione di tutto tra 1998 e 2000. La proposta dei transalpini, sin da Aimé Jacquet, è una riedizione aggiornata del “quadrato magico” degli anni 80. Nasce un 4-2-3-1 nel quale i trequartisti trovano nuova dignità, merito anche del talento (per certi versi eversivo, in quell’epoca) di Zidane. L’ultimo dei numeri dieci di una volta, il primo della nuova fase. Il giocatore attorno cui ruota tutto, Juventus, Francia e, ovviamente, il Real Madrid dei Galacticos. La squadra che porta all’esasperazione il calcio del ritorno ai trequartisti e alle ali. A prendere l’esempio, generando un’ulteriore contaminazione impensabile soltanto un quinquennio prima, è Ancelotti. L’erede sacchiano che scardina il 4-4-2 con il suo “albero di Natale” che prevede Pirlo in regia (ma l’intuizione, qui, è di Carlo Mazzone), Seedorf interno e Kakà-Rui Costa sulla trequarti a servizio di Shevchenko o Inzaghi. Uno schieramento molto più duttile di quello madridista, che consente anche un ritorno al 4-4-2 in fase di non possesso. La strada che porta al calcio dei nostri giorni è tracciata.
E l’ultimo scossone sulla linea evolutiva iniziata dalla Piramide di Cambridge arriva da Pep Guardiola. Il regista del Barcellona di Cruijff, ma anche del Brescia di Mazzone. L’allenatore che nell’estate del 2008 rileva i blaugrana dopo un biennio di crisi, nonostante la precedente rinascita affidata a Rijkaard. Il motto è quello del “tiki-taka”, la definizione onomatopeica di un possesso palla incessante visto come arma principale attraverso cui attaccare (e sfinire) l’avversario, ma anche difendersi. Oltre a questo – alla presa di coscienza che il controllo del gioco porta più facilmente al successo – c’è però molto di più. In quel 4-3-3 su cui impernia il primo Barcellona, Guardiola innesta le nozioni sacchiane di pressing e fuorigioco alto (anche se meno estremo, vista la modifica al concetto di fuorigioco passivo approvata nel 2005). È un calcio totale, in cui tutti partecipano si alla fase di non possesso che a quella di costruzione, applicata con una fitta rete di passaggi sin dalla difesa e con l'obiettivo finale di trovare spazio e sbocchi offensivi (la conquista territoriale sacchiana spesso aveva portato a negarseli essa stessa, qui il discorso cambia e da qui nasce il concetto di "falso nueve"). Ma è una proposta estremamente più fluida rispetto al passato, al calcio di Sacchi e anche rispetto ai precedenti di 4-3-3 imposti dai maestri dell’Est (come Zeman). È il calcio “neuronale”, che attraverso le sicurezze di squadra libera l’individuo dagli schemi e gli permette di esprimersi a livello intuitivo durante una gara. Un concetto che, seppure declinato in chiave estremamente più difensiva, ha mosso anche gli studi e il lavoro sul gruppo di José Mourinho. Il futuro del calcio, almeno sino al prossimo balzo.
Di Mattia FONTANA (Twitter: @mattiafontana83)
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