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George Best raccontato ai giovani: giocava al ritmo dei Beatles. E, idolo gracile, si perse

Roberto Beccantini

Pubblicato 22/05/2020 alle 18:18 GMT+2

Il 22 maggio 1946 nasceva George Best, uno dei talenti più scintillanti e controversi della storia del calcio. Best è stato la prima pop-star del pallone, felice di unire l’utile al dilettevole fino a fare del dilettevole l’unico utile della carriera prima e della vita dopo. Ha sradicato gli argini, ha invaso gli anni Sessanta al galoppo, fregandosene di cosa avremmo scritto di lui.

George Best, Imago

Credit Foto Eurosport

Prendete un tizio, uno qualunque, e fatelo nascere a Belfast, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e prima, molto prima, che gli dedichino l’aeroporto. Nel 1946, ecco. E a questo tipo, ancora bambino, comunicate la ferale notizia: giocherai a pallone, ma scordati i Mondiali, nemmeno un minuto di una fase finale, nemmeno un secondo. Lo zero assoluto.
Una condanna, prima che un verdetto. A meno che non ti chiami George Best. Perché sì, se ti chiami George Best, o lo diventi, be’, la storia non ti licenzia, ti pedina e, alla fine, ti travolge e si lascia travolgere. Pelé e Ferenc Puskas sono stati, nel loro genere e nel loro genio, campioni ortodossi. Best ha sradicato gli argini, ha invaso gli anni Sessanta al galoppo, fregandosene di cosa avremmo scritto di lui, dal momento che solo un Don Chisciotte riveduto e scorretto avrebbe saputo raccontarlo.
Figlio di protestanti e ribelle per natura, George seguiva con il nonno le partite del Glentoran. Bocciato (“troppo gracile”, scrisse la talpa), trovò nel Manchester United di Matt Busby la sua Itaca. Vi sbarcò nel 1961 e, dribbling dopo dribbling, impose il suo stile. Era lo United martoriato dalla tragedia aerea di Monaco, una squadra spezzata e un allenatore - Busby, appunto - vivo per miracolo. Come Bobby Charlton.
George Best
Giocava all’ala, George. Numero sette. La linea di gesso che delimitava il campo e lo incalzava come un’ombra, non gli imprigionò l’istinto. Mai. Al contrario, rappresentò il “lenzuolo” con il quale evadere dalle sbarre della normalità. Chiedete ai portoghesi di quella notte a Lisbona. George si scolò da solo tutto il Benfica e il quotidiano «A Bola», estasiato, lo proclamò il “quinto Beatles”. Faccia tosta, polvere da sparo, ricerca del numero.
Il mondo stava cambiando, Best contribuì a sabotare la liturgia del calcio. Con i cosiddetti “Busby Babes” vinse due campionati, una Coppa d’Inghilterra e, nel 1968, la Coppa dei Campioni e il Pallone d’oro. Millenovecentosessantotto: si cercava di scalzare il potere con la fantasia, si brigava per demolire la noia del successo con il successo del diverso, dell’eccesso.
Best è stato la prima pop-star del pallone, felice di unire l’utile al dilettevole fino a fare del dilettevole l’unico utile della carriera prima e della vita dopo. Successe quando Busby mollò l’incarico e Best cominciò a torturare il fisico fino a scoppiarne, in bilico costante fra donne che lo aspettavano a letto e terzinacci che lo aspettavano al varco.
In fretta, il futuro diventò passato; e il passato, cartoline sbiadite. Stockport County, Cork Celtic, Los Angeles Aztecs, Fulham, Fort Lauderdale Strikers, Hibernian, San José Earthquakes, Bournemouh, Brisbane Lions, Tobermore United: un po’ di qua e un po’ di là dagli oceani, ostaggio dei demoni che gli avevano dato tutto e tutto, gelosi, stavano per togliergli. Con la Nazionale nord-irlandese è arrivato a 37 presenze e 9 gol. Il suo idolo era Johan Cruijff. E così, proprio alla vigilia di una sfida con l’Olanda, l’Olanda di Cruijff, promise a un giornalista che gli avrebbe fatto un tunnel. E glielo fece.
Segnava (un gol pure nella “bella” di Wembley, con il Benfica di Eusebio), faceva segnare. Se Bobby (Charlton) era il saggio della compagnia, Denis Law, scozzese con parentesi al Toro, non era folle come George ma sulla buona strada. A Best sono stati avvicinati Gigi Meroni ed Ezio Vendrame: Gigi, morto giovane; Ezio, poeta che per non sfuggire a sé stesso scappò da tutti. Li univa il dribbling, l’impulso ribaldo di uscire dal gregge, Meroni con il pennello, Vendrame con i versi, Best con le sbornie.
Una frase celebre di George Best, Eurosport
Era bello e sapeva di esserlo, disegnava calcio e subito dopo, in preda al cupio dissolvi che cattura gli artisti maledetti, buttava via gli applausi. Passò da una villa all’altra, da Miss Universo a Miss vattelapesca, finì in carcere, morì il 25 novembre 2005, il fegato spappolato, i trofei venduti per pagare le cure, la bottiglia come tragico simbolo di una parabola che lo consegnò all’immortalità e all’immoralità. Riposa nel cimitero di Roselawn, sulle colline di Belfast, accanto alla madre Anne. “Non fate come me”, lasciò scritto pensando ai ragazzi e anche, forse, al ragazzo che fu e si perse.
Le ali hanno cambiato nome. Si chiamano esterni. George calciava di destro e di sinistro, fintava, sterzava, guardava negli occhi l’avversario e lo irrideva. Secondo le statistiche, ha collezionato 745 presenze e realizzato 263 gol. Per Diego Maradona, “era un gran giocatore, più "loco" di me”. Alex Ferguson, ogni volta che lo cita, ne parla come “del più grande talento che il nostro calcio abbia prodotto”. Best si sarebbe trovato bene con Paul Gascoigne, un altro che andava a tutta birra nel senso letterale della metafora.
Oggi avrebbe compiuto 74 anni. “Se fossi stato brutto, non avreste sentito parlare di Pelé”. “Ho speso un fracco di soldi per alcol, donne e auto veloci. Il resto l’ho sprecato”. Era fatto così, George Best. Contro-corrente sempre, fino a quando le onde non l’hanno rovesciato. I filmati d’epoca ci aiutano a non dimenticarne il repertorio, i sapori, le ubriacature che inflisse e si inflisse. Quel colletto da scolaro, la maglia rossa lunga, abbandonata, da diavolo tentatore.
E attenzione: Maradona good, Pelé better, George... Best. Non è la sua lapide: è sua e basta.
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