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Italia giovane, rapida e tecnica: ecco il fattore M(ancini), in attesa delle grandi

Roberto Beccantini

Aggiornato 22/11/2019 alle 07:50 GMT+1

Nel giorno di Italia-Armenia, partita che chiude il discorso qualificazioni a Euro 2020, analizziamo il lavoro di Roberto Mancini alla guida degli azzurri.

Focus Roberto Mancini

Credit Foto Eurosport

Roberto Mancini rappresenta un raro caso di tecnico più a suo agio nel ruolo di selezionatore che di allenatore. L’Europeo conquistato in largo anticipo, il rango di testa di serie, le dieci vittorie consecutive, record da palleggiare con estrema prudenza: tutto fa brodo, a due anni dal disastro mondiale di Gian Piero Ventura - 13 novembre 2017, Italia-Svezia 0-0, bye bye Russia - per gonfiare il petto e non sentirci più abusivi.
Ero sicuro della qualificazione, mi hanno sorpreso i tempi e il livello estetico. Mancini è stato un fuoriclasse sottovalutato e un mister sopravvalutato: anche quando vinceva, le sue squadre non mi trasmettevano emozioni speciali. La sua Italia invece sì. Se Roberto Baggio era un grande inviato che si rifiutava di fare il direttore, il Mancio è sempre stato un direttore che faceva anche l’inviato. E ha scelto, per coltivare e imporre le sue idee, una rosa molto tecnica, soprattutto a centrocampo (Jorginho, Nicolò Barella, Marco Verratti, Stefano Sensi, Lorenzo Pellegrini o, come venerdì a Zenica, Sandro Tonali, classe 2000), e capace, attraverso la scintilla del gioco, di recuperare persino i precari del campionato, da Federico Bernardeschi a Lorenzo Insigne. Beato lui. Beati loro.
Certo, Vittorio Pozzo poteva permettersi di escludere Fulvio Bernardini, "perché troppo bravo", e affidare le mansioni di centromediano metodista a Luis Monti. Mancini no. Non si sbadiglia più, in compenso, a vedere gli azzurri: e questo è un segnale che va al di là del 3-0 alla Bosnia di Edin Dzeko e Miralem Pjanic. Privi di fuoriclasse e di leader vecchia maniera, avevamo il problema del gol, ricorderete. Senza un Gigi Riva che potesse risolverlo, ci stanno pensando Andrea Belotti, più "internazionale" di Ciro Immobile, e la velocità della manovra.
Dai cimenti domestici non mi aspetto novità clamorose. Mario Balotelli non è più un’urgenza. Se mai, tifo perché Nicolò Zaniolo esploda e non imploda. Non sempre le fasi finali le vincono i più forti. Può capitare, come a noi nel 1982 e 2006, che le vincano i più forti per un mese, «quel» mese. Pure l’Italia di Ferruccio Valcareggi viaggiò verso il Mondiale ‘74 a iperboli sguainate, con Dino Zoff volteggiante sulla copertina di "Newsweek", salvo uscire al primo turno. Era l’Italia arpiniana di "Azzzurro tenebra", a fine ciclo; e non all’inizio, se mai ciclo sarà, come l’attuale.
Né vanno trascurati gli avversari. Su 18 partite, non appena l’asticella si è alzata sono stati triboli: sconfitte esterne con Francia e Portogallo, pareggi interni con Olanda e Portogallo. Un passo alla volta, dunque. Per nostra fortuna, l’Europa non galoppa: trotta. Non c’è più la Spagna del triplete Europeo-Mondiale-Europeo 2008-2012 a frustare il gruppo. E nemmeno i re di Francia sembrano irresistibili. Come lo stesso Belgio, che pure le ha vinte tutte. Inglesi, tedeschi e portoghesi (con Cristiano che ne avrà 35) stanno ricostruendo e vanno a sprazzi. Ci sono ancora davanti, sì, ma non di chilometri. Una mina vagante? Oggi, l’Ucraina di Andrij Shevchenko.
Italia-Armenia di questa sera a Palermo chiude il periodo di ricostruzione e apre la fase, non meno delicata, di rifinitura. La cosa buffa è che Mancini sta seducendo, da ct, quella Nazionale che, da giocatore, lo prese a ceffoni.
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