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Tavecchio, Ventura e l’arroganza di un’Italia di fenomeni dipinti sul nulla

Luca Stacul

Aggiornato 14/11/2017 alle 10:17 GMT+1

L'Italia non sarà ai Mondiali 2018. E' una grande sconfitta. Ma non ha perso la Nazionale, ha perso il sistema calcio italiano. Ha perso il sistema secondo cui vendersi sia meglio che investire, perché è questo che l’Italia pallonara esprime con la sua dipendenza dai diritti televisivi piuttosto che dalle presenze allo stadio.

Giampiero Ventura Carlo Tavecchio Italia 2016

Credit Foto LaPresse

Non è una questione di 60 anni. È oggi. Adesso. Sono le troppe parole e la poca sostanza. Il lamentarsi, il gridare, il far polemica, l’infinita ricerca della confusione per confondere le acque, per nascondere con l’arroganza una pochezza di contenuti che ci spaventa.
Non ha perso la Nazionale, ha perso il sistema calcio italiano. Ha perso il sistema secondo cui vendersi sia meglio che investire, perché è questo che l’Italia pallonara esprime con la sua dipendenza dai diritti televisivi piuttosto che dalle presenze allo stadio. Perché se lo schermo vale più del campo e i tatuaggi più del sudore c’è qualcosa che non va, qualcosa di più ampio di un risultato, qualcosa di più ampio di un Mondiale.
È l’arroganza dei fenomeni dipinti sul nulla. Centravanti con zero presenze in Champions; allenatori scelti perché assecondino, ma non decidano; giornalisti che commentino senza fare domande; tifosi che passino dai fischi ai selfie a seconda della posizione della telecamera. Tutta finzione.
Immagini forti, emblematiche…
La prima: i fischi sull’inno svedese. Inutili, maleducati. Forse persino controproducenti, perché caricano una squadra modesta ma umile e orgogliosa come questa Svezia, che va al Mondiale senza Ibra. Ma anche senza Ljungberg o senza Brolin, a dimostrazione del fatto che il calcio nonostante i social resta un gioco di squadra. E fischiare in branco quest’umiltà, quest’orgoglio, è più squallido della sconfitta in sé.
La seconda: il battibecco di De Rossi. Un gladiatore che non capisce, simbolo di una totale mancanza di fiducia in chi dovrebbe guidare ma non ha né qualità né carisma per farlo, ormai vittima degli eventi. Ventura poteva essere più fortunato nei sorteggi e nei rimpalli, ma rimane un tecnico che in carriera ha vinto un campionato di C1 nel ’96, quando lanciarono il Nintendo 64.
La terza: l’incredulità di Lorenzo Insigne. Il talento dimenticato lì, snobbato. Simbolo di quanto un approccio ottuso sappia diventare addirittura cieco di fronte alle difficoltà. Ci diranno che non stava bene, ma lo zombie di Belotti all’andata era perfetto: ancora fumo negli occhi. E poi non è oggi né ieri, è da troppo tempo un 3-5-2 insensato che scimmiotta la memoria di Conte – senza la grinta di Conte – dimenticando i valori del campionato. Follia.
La quarta e ultima: le lacrime di Buffon, le lacrime di tutti. Le lacrime di un capitano che ha visto l’Italia cambiare: vincere e perdersi, lottare e imborghesirsi, diventare l’ombra di sé stessa in nome di una transizione che ha centrifugato talenti e speranze. È il triste simbolo di qualcosa che non c’è più: l’orgoglio di meritarsi una maglia a prescindere dai like.
“Dulcis” in fundo, Carlo Tavecchio. Presidente e sovrainsieme della sconfitta, della figuraccia. L’uomo degli autogol mediatici e tecnici, trafitto ironicamente da un autogol effettivo. L’uomo che ha ridotto ai minimi termini il prestigio dell’Italia calcistica a livello internazionale e che potrebbe persino evitare di dimettersi, aggrappandosi al prossimo nulla. È scientifico: sabato ci sono il derby di Roma e Napoli-Milan, poi Napoli-Juve il 1° dicembre e quindi Juve-Inter. Basta sopravvivere, sviare l’attenzione, magari offrire 7 lire ad Ancelotti e aspettare che dica ‘no’ in attesa della prossima polemica.
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