Gigi Riva raccontato ai giovani: il tesoro dell'isola
Aggiornato 07/11/2020 alle 13:47 GMT+1
Gigi Riva compie 76 anni. Appartiene a un altro secolo, a un altro calcio, a un’altra Italia. La sua è la contro-storia di un migrante che lasciò la nebbia nordista di Leggiuno, provincia di Varese, per cercare fortuna in Sardegna. Arrivò a Cagliari nel 1963. Voleva scappare e non se ne andò più arrivando a rifiutare le offerte di Gianni Agnelli e le lusinghe di Angelo Moratti.
E’ ancora là: con i suoi amori, con le sue cicatrici, con il suo orgoglio. I compleanni ondeggiano sempre tra borotalco e rotocalco. Spiegare Riva ai giovani è un piacere e un onore. Perché Gigi Riva è stato, a mio avviso, il più grande attaccante italiano del Dopoguerra. Ha portato il Cagliari allo scudetto (1970), è stato campione d’Europa nel 1968 e vice campione del Mondo in Messico, nel ‘70. Detiene ancora oggi il record di gol in Nazionale: 35 in 42 partite.
Tre volte capo-cannoniere, in serie A ne realizzò 156, e chissà quanti ne avrebbe segnati se solo avesse potuto contare sul liberismo normativo degli ultimi anni: dal mani-comio al fuorigiochicidio, dagli autogol estinti al potere che la Fifa sfilò ai difensori per offrirlo ai cacciatori, di frodo e non.
Portava il numero undici, sinistro fino al midollo, Gianni Brera lo ribattezzò Rombo di Tuono. Per come tirava, per come riempiva il cielo delle partite. Non un lampo: un tuono. Definirlo attaccante è riduttivo. Riva era l’attacco. Lo copriva tutto, per tutti. Era, quel Cagliari, il Cagliari di Manlio Scopigno detto il filosofo. Un sabato sera entrò nella camera in cui Riva, Enrico Albertosi, Bobo Gori e Cesare Poli stavano giocando a poker. Fumavano come turchi. Il sabato sera. La vigilia della partita. Il massimo della trasgressione. "Disturbo se fumo?", chiese Scopigno. E il giorno dopo il Cagliari vinse, naturalmente.
Uomo tutto d’un pezzo, e non tutto d’un prezzo, Riva. Rifiutò le offerte di Gianni Agnelli, le lusinghe di Moratti padre. Nato lombardo, diventò sardo e sordo alle sirene del buon ritorno. Giocava di forza, in acrobazia, faceva perno sul corpo di coloro che lo marcavano per liberare i gomiti, per armare il tiro. Era forte di piede e di testa. La rovesciata contro il Lanerossi Vicenza, la sgrullata in tuffo contro la Germania Est emergono dalle scartoffie della memoria. Storia, non cronaca.
Ai suoi tempi, il pallone rotolava a ritmi meno ossessivi. Alla Nazionale, Gigi trovò il tempo - e i "complici" - per sacrificare entrambe le gambe: il portiere del Portogallo, Americo, gli spezzò il perone sinistro nel 1967, allo stadio Olimpico di Roma; il terzino austriaco Hof gli tranciò il perone destro nel 1970, al Prater di Vienna.
Orfano di padre a nove anni, e di madre quando partì per Cagliari: “Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna o all’Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere: io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere”, confessò a Gianni Mura. Scrivendo di Gigi Riva, del suo coraggio e della sua scorza, mi viene in mente Osvaldo Soriano. Fieri, solitari y final: li immagino così, i 76 anni di questo guerriero, prigioniero-padrone dei suoi silenzi. E, dunque, libero.
Per commentare o fare domande potete inviare una mail aroberto.beccantini@fastwebnet.it o visitare il blog di Roberto Beccantini.
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