Serie A, Juventus - Pirlo fra Allegri e Rocco: «Al venerdì i xe olandesi» poi...
Aggiornato 12/02/2021 alle 20:41 GMT+1
SERIE A - E così gli indizi sono già un paio: il 2-0 alla Roma, sabato scorso; lo 0-0 con l’Inter di martedì, in Coppa. Figli, entrambi, di una difesa molto corposa, molto stretta, molto rétro; e delle pallottole, esclusive, di Cristiano Ronaldo. In parole povere, di un «catenaccio» che Andrea Pirlo, fin dai banchi di Coverciano, aveva condannato al rogo.
E così gli indizi sono già un paio: il 2-0 alla Roma, sabato scorso; lo 0-0 con l’Inter di martedì, in Coppa. Figli, entrambi, di una difesa molto corposa, molto stretta, molto rétro; e delle pallottole, esclusive, di Cristiano Ronaldo. In parole povere, di un «catenaccio» che Andrea Pirlo, fin dai banchi di Coverciano, aveva condannato al rogo. Categoricamente. Visto che il modello era, per esplicita devozione, il totalitarismo di Pep Guardiola.
Da qui il «Massimiliano Pirlo» del nostro sconcerto in versione Massimo Troisi: «Pensavo fosse amore invece era un calesse». La solita serenata al risultatismo. Si badi: l’accostamento non è un’accusa, o tanto meno un’offesa. È una fotografia. Un bel dì vedremo e tireremo le somme. Il contro-calcio da noi paga. All’estero, decisamente meno. Anche se Allegri arrivò, nel 2015 e nel 2017, a due finali di Champions. Che non saranno il bacio all’anello del Papa, ma non sono neppure l’inchino a un seminarista qualsiasi.
È Giorgio Chiellini, con le sue rughe e i suoi artigli, a spostare le colonne d’Ercole: il marchio dell’arrocco, e non dello scudo mobile, aggressivo, caro agli studi di Matthijs de Ligt. La lezione interista del 17 gennaio (il 2-0 dell'Inter al Meazza) aveva costretto il tecnico a un severo «repulisti» ideologico, le cui misure d’emergenza fruttarono subito la Supercoppa «napoletana» di Reggio Emilia. La prudenza come principio fondante e probante dell’azione. Per capire la svolta di Pirlo, in attesa che il futuro ne fissi il peso e l’identità, non si può non risalire alla saga della Juventus, che è storia di una famiglia (gli Agnelli) e di una fabbrica (la Fiat) e, per questo, basata sulla produzione dei risultati, al di là del potere che la straordinaria durata ha consolidato: dal 1923 a oggi, eccezion fatta per i dodici anni a cavallo della seconda guerra mondiale, fra il 1935 e il 1947.
Alla Juventus, per un motivo o per l’altro, le rivoluzioni non attaccano. Il 4-2-4 di Paulo Amaral ballò sì e no un’estate. Il «movimiento» di Heriberto Herrera lasciò il fiammifero di uno Scudetto, quello della papera di Giuliano Sarti a Mantova, il 1° giugno ‘67: un cerino che non accese fuochi. La zona champagne di Gigi Maifredi, all’alba dei Novanta, decretò addirittura la cacciata dall’Europa. E se il Sarrismo ha condotto al nono consecutivo, il prezzo è stato talmente alto, fra rapporti di spogliatoio e compromessi di campo, da sconsigliarne la conferma. Soltanto due allenatori sono stati capaci di spingerla oltre la tradizione del carpe diem: Marcello Lippi e, in chiave domestica, il primo Antonio Conte, che sta ad Andrea Agnelli come un dito medio a un medio vaffa: signori si nasce.
Non rimane che aspettare. Domani il Napoli, mercoledì prossimo il Porto in Champions. Segnalo, sul tema, un passo della ruspante dottrina di Nereo Rocco, il Paron che con il Milan vinse in Italia, in Europa e nel mondo: «Tatticamente, me racomando, scrive bén, xe la storia de tuti i alenadori. Dal lùnedi al vénerdi i xe olandesi. Al sabato i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può». Una damigiana di applausi: è il minimo.
Per commentare o fare domande potete inviare una mail a roberto.beccantini@fastwebnet.it o visitare il blog di Roberto Beccantini.
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