Inter: da Helenio a Inzaghi, concretezza e bellezza a confronto (ma deciderà l’Europa)
Pubblicato 01/03/2024 alle 09:46 GMT+1
SERIE A - Dell'Inter di Simone Inzaghi e della sua brillantezza si è a lungo parlato, scatenando paragoni importanti. Dalla 'Grande Inter' di Herrera passando per 'L'Inter dei record' del Trap fino all''Inter del Triplete' di Mou. La discriminane, per Inzaghi, al di là di tutto, sarà l'Europa.
I paragoni sono bucce di banana. Scivolarvi è un attimo. Soprattutto se si prendono in esame campioni e squadre di epoche diverse. Nel nostro caso, l’Inter di Simone Inzaghi e le Inter del passato. Il confronto non riguarda la quantità dei trofei - indelicato, al di là della seconda stella in pugno - ma la qualità del gioco. Indiscutibile. Non c’è loggionista, neppure il più sfegato, nemmeno Arrigo Sacchi, che non lo riconosca.
E allora, avanti. La Grande Inter di Helenio Herrera era un congegno a orologeria. Dominò gli anni Sessanta attraverso l’Espressionismo della scuola italiana. Al mago non interessava la prima mossa. La facessero pure gli avversari. Esponeva l’architettura di Luisito Suarez e il dadaismo di Mariolino Corso. Se però mi chiedete un simbolo, vi dico Armando Picchi. Il battitore libero. Non in linea, ma arretrato. In senso tattico, geografico e intellettuale: un leader. A ruota, Giacinto Facchetti: lega l’era del catenaccio ai pruriti del terzo millennio e, ruolo per ruolo, a Federico Dimarco. «Quinto», e non più «terzino». Ma sempre sulla corsia sinistra, a pompare.
Siamo all’Inter di Giovanni Trapattoni. Quella, record, dei 58 punti. Stagione 1988-’89. Nacque per caso (dall’infortunio di Rabah Madjer al «ripiego» di Ramon Diaz; dalla staffetta tra Beppe Baresi e Gianfranco Matteoli). Motore tedesco (Andy Brehme, Lothar Matthaeus) e un centravanti, Aldo Serena, più di posizione che di relazione. Ecco: la coppia Diaz-Serena non è poi così lontana da Lautaro Martinez ed Edin Dzeko (il bosniaco, più di Marcus Thuram). Se Nicolò Barella, lanciato, ha qualcosa di Nicola Berti, Alessandro Bianchi, a destra, era un tornante classico, difficile da equiparare ai Matteo Darmian o Denzel Dumfries di turno. Su un aspetto, l’Inter «tedesca» le batte tutte: la concorrenza. Il Milan degli olandesi, il Napoli di Diego Armando Maradona: fidatevi, non c’è proprio gara.
Beppe Bergomi e c. si laurearono campioni con il miglior attacco, la miglior difesa e il capocannoniere (Serena, autore di 22 gol in 34 partite, davanti a Careca e Marco Van Basten, non so se mi spiego). Senza ricorrere a un pressing efferato, e con il possesso palla in coda ai gusti, la manovra coinvolgeva profondità e ampiezza (Bianchi da una parte, Brehme dall’altra), con Matthaeus a rendere tempestosi i raid da metà campo. Non era ossessionante e ossessiva come il Diavolo fusignanista, ma sapeva essere vorace, e persino attraente non appena Matteoli si collegava dalla regia.
Se le vendemmie di Roberto Mancini sono prigioniere di Zlatan Ibrahimovic, «un uomo solo al comando», l’Inter del Triplete prosperò su un 4-2-3-1 capace di mescolare tecnica e strategia. Come Helenio, José Mourinho impose la scorza di un repertorio che riempiva la scena sin dalla vigilia, fra pizzini e slogan. Non fu semplice convincere Samuel Eto’o a migrare in fascia e alternare la tuta allo smoking. Ma risultò decisivo. Era un’Inter che si cibava di folate improvvise, di muri stordenti. Dal fascino strutturale, più che decorativo.
Sbocciata a Istanbul, sulle ceneri di una gloriosa sconfitta, la versione di mister Spiaze è l’unica, delle citate, ad applicare il 3-5-2. Rammenta la metafora del coltello a serramanico cara a Eugenio Fascetti: chiuso, se attaccata; aperto, se attacca. Può segnare in un sacco di modi con un sacco di uomini. Ma se, in generale, dovessi mischiarle ed estrarne la formazione ideale, faticherei a pescare nel suo serbatoio. E dunque, in base al 4-4-2: Zenga; Burgnich, Samuel, Picchi, Facchetti; Zanetti, Matthaeus, Suarez, Corso; Milito, Eto’o. Con Barella vice di Javier Zanetti e Lau-Toro ombra di Diego Milito.
L’estetica è concetto relativo. A Tizio piace Pablo Picasso; a Caio, Paul Gauguin. Ciò premesso, Simone è sulla buona strada. E la sua creatura, aggressiva e coraggiosa, compatta e briosa. Le coccole di Pep Guardiola valgono una medaglia. A patto che si confermi in Europa, come riuscitole con l’Atletico (ma non con la Real Sociedad). Perché è lì, specialmente lì, che si pesa il censo della storia.
*Per commentare o fare domande potete inviare una mail a roberto.beccantini@fastwebnet.it o visitare il blog di Roberto Beccantini http://www.beckisback.it.*
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