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Chiedi chi era Enrico Chiesa: perché il padre di Federico è un oggetto di culto

Mattia Fontana

Aggiornato 10/09/2018 alle 21:16 GMT+2

Il giovane attaccante della Fiorentina è parso da subito il talento su cui fare leva per rialzare il nostro calcio, merito del patrimonio genetico notevole lasciatogli in dote dal padre Enrico.

Enrico Chiesa ai tempi della Fiorentina 2000

Credit Foto Getty Images

La sola nota lieta nella prima ufficiale di Roberto Mancini. Venerdì sera a Bologna, Federico Chiesa è entrato in campo al 71’ e ha risvegliato l’Italia. Il primo tiro in porta degli Azzurri è giunto per merito suo soltanto due giri di lancette dopo, sempre lui si è conquistato il rigore da cui è nato il pareggio di Jorginho. Dati più statistici che altro. Perché nell’impatto sulla partita contro la Polonia dell’attaccante classe 1997 era difficile non scorgere le scintille di un talento fulgido. E, ancora una volta, le movenze del padre Enrico. Se di Federico conosciamo ormai tutto - tranne il suo destino - dell’ex attaccante di Sampdoria, Parma, Fiorentina, Lazio e Siena (tra le altre) il rischio è di perderne la memoria. Per scongiurarlo, proviamo a rimettere insieme i cocci dei ricordi. Ecco chi era Enrico Chiesa.

Le caratteristiche

Fino ad ora, lo sforzo è stato teso a descrivere il figlio attraverso il paragone con il padre. Da oggi in avanti, però, la sensazione è che potremo trovarci di fronte a un ribaltamento. Federico, del resto, è arrivato in Nazionale a 19 anni, mentre Enrico ha dovuto aspettare l’anno dei 26. E, vista anche la situazione generale del nostro movimento, la sensazione è che l’attuale attaccante della Fiorentina possa dominare negli anni a venire molto di più di quanto non abbia fatto il padre sul finire degli anni 90. Il paragone, dunque, merita di essere biunivoco. Scriveremo per ciò che Chiesa senior condivideva con il figlio intensità e atletismo da Premier League, associati a doti tecniche e duttilità non comune. La differenza, in termini prettamente tattici, riguarda la posizione in campo. Federico parte più da lontano, in fascia. Enrico era forse meno incisivo nel lungo, ma più determinante nel breve. Nel calcio di allora, era una seconda punta ideale per la capacità di mettersi al servizio della squadra e di regalare assist ai compagni. Ma, con ogni probabilità, se fosse stato un coevo del figlio avrebbe giocato da prima punta, cosa che gli è accaduta soltanto saltuariamente in carriera. E, possiamo sostenerlo senza grandi timori, sarebbe stato titolare indiscusso in Nazionale.
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Enrico Chiesa esulta ai tempi del Siena 2008

Credit Foto LaPresse

La qualità

Del dinamismo si è detto. Ma se Chiesa è stato uno dei giocatori più accattivanti nell’epoca d’oro del nostro calcio è soprattutto per una dote quasi unica. Il tiro. Una rasoiata di interno collo tanto potente quanto accurata. Il marchio di fabbrica, per intendersi, era la conclusione a giro sul secondo palo, preferibilmente da fuori area. Destro o sinistro? Indifferente. Poche volte si sono visti attaccanti in grado di associare potenza e precisione in questo modo. Fabio Capello lo definì un misto tra Gigi Riva e Paolo Rossi. Del secondo non aveva la voracità in area, del primo la forza d’urto. Ma nessuno dei due si sarebbe potuto paragonare a Chiesa per la meccanica della conclusione. Uno degli ultimi - e più riusciti - esempi di lavoro sul tiro prima dell’avvento dei palloni ultra leggeri (da Fevernova del 2002 in avanti). Una soluzione che gli permetteva di lasciare il segno anche su calcio di punizione diretto.
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L'inconfondibile tiro a giro di Enrico Chiesa ai tempi della Lazio

Credit Foto LaPresse

La parabola

Nella prima parte della carriera di Enrico Chiesa c’è tutto il sapore del calcio italiano di una volta. Il direttore sportivo della Sampdoria scudettata, Paolo Borea, lo scopre nel Pontedecimo quando ha soltanto 16 anni e lo acquista per 5 milioni di lire portandolo nel settore giovanile blucerchiato. Dopo due brevi assaggi di prima squadra, inizia la trafila vera e propria. Un anno in prestito al Teramo in C2, uno al Chieti in C1. E, dopo una stagione completa alla Samp, una stagione in B con il Modena. Chiesa mette insieme 167 presenze da professionista, segna 43 gol. Cresce, ma non esplode. Fino a quando, nella stagione 1995-96, Sven-Goran Eriksson non ne fa la punta della Sampdoria dei giovani in cui Roberto Mancini (ebbene sì, un collegamento nemmeno troppo banale tra padre e figlio) fa da chioccia anche a Clarence Seedorf e Christian Karembeu. Messo finalmente nelle condizioni di poter giocare da prima punta, con il supporto del Mancio segna 22 gol in 27 presenze (miglior score in carriera). Vola a Euro ’96 con la Nazionale, segna un gol alla Repubblica Ceca e passa al Parma che punta allo scudetto per 16 miliardi di lire più il cartellino di Juan Sebastian Veron.
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Enrico Chiesa durante la finale di Coppa Uefa 1999

Credit Foto Getty Images

Gli anni d’oro

Il triennio a Parma è quello più significativo nella carriera di Chiesa. Lotta per lo scudetto, contribuisce all'unica qualificazione dei ducali in Champions League e partecipa al "Dream Team" che conquista Coppa Uefa e Coppa Italia nel 1999. Tre stagioni che hanno un profondo significato metaforico nella parabola dell’attaccante. In un calcio come quello dell’epoca, infatti, non pareva esserci spazio per lui come centravanti in una squadra di altissimo livello. Lì, sia con Carlo Ancelotti sia con Alberto Malesani, non gli rimaneva che muoversi da punta di raccordo in un 4-4-2 o in un 3-4-1-2. Vero che la prima punta era Hernan Crespo, ma è innegabile che ciò ne abbia tarpato le ali dal punto di vista realizzativo (55 gol in 120 presenze in gialloblù, 33 in 92 in campionato) e abbia contribuito al suo trasferimento alla Fiorentina nell’estate del 1999. Non è nemmeno un caso che, proprio a Firenze, si sia rivelato un cannoniere all’indomani della partenza di Gabriel Batistuta. 7 gol in campionato con l’argentino, 22 senza. Il modo migliore per riprendersi la Nazionale da protagonista nonostante l'incredibile concorrenza dell'epoca. Qualche esempio? Nel 1996, fu convocato da Arrigo Sacchi in un reparto che proponeva anche Del Piero, Casiraghi, Ravanelli e Zola. Due anni dopo, fu scelto da Cesare Maldini per il Mondiale al pari di Del Piero, Baggio, Inzaghi e Vieri. E per il 2002, con ogni probabilità, sarebbe stato in corsa fino all'ultimo con Del Piero, Inzaghi, Totti, Delvecchio, Montella e Vieri. Intesi?

La sfortuna

Se Chiesa è per molti appassionati di calcio nati negli anni 80 un motivo di culto è anche per il suo legame stretto con la sfortuna. Che, immancabile, bussa alla sua porta il 30 settembre 2001. L’attaccante della Fiorentina arriva alla sfida con il Venezia con uno score di 5 gol segnati nelle prime 4 giornate di campionato. Giovanni Trapattoni lo ha già messo in pre-allarme in ottica azzurra. Lui, però, si infortuna seriamente. Rottura del tendine rotuleo del ginocchio sinistro, un ko identico a quello del fenomeno Ronaldo. Come nel caso del brasiliano, la sua carriera si interrompe bruscamente e pare a rischio. Quando torna a giocare, il 18 settembre 2002, la Fiorentina è fallita e lui è passato alla Lazio (allenata da Mancini...). Un anno di convalescenza prima di trasferirsi al Siena neopromosso e avviarsi all’epilogo della carriera a testa alta. Tre stagioni di fila in doppia cifra, cinque consecutive in Serie A. Poi l’esperienza al Figline in Seconda Divisione Lega Pro. Quando, a quasi 39 anni, cede ancora il tendine rotuleo, questa volta del ginocchio destro. La parola fine.
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Enrico Chiesa dopo l'infortunio di Venezia 2001

Credit Foto LaPresse

Così vicini, così lontani

Inutile girarci attorno. Inizialmente, Federico Chiesa ha attratto le simpatie dei più facendo colpo sull’animo nostalgico di chi voleva che la storia spesso sfortunata di Enrico ricominciasse. Una sensazione che si fa intensa ogni volta che Federico si distende in contropiede e punta la porta avversaria a una velocità rara per il calcio italiano dei nostri giorni. E proprio alla nostalgia si deve questo tributo a Enrico. L’uomo che ha dato in dote un patrimonio genetico invidiabile al miglior talento del nuovo ciclo azzurro, del resto, lo meritava eccome.
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