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27 mesi e 8 secondi: la resurrezione di Greg LeMond

Lorenzo Rigamonti

Aggiornato 08/04/2020 alle 18:07 GMT+2

Greg LeMond è un miracolato, nel vero senso del termine. Nell'aprile del 1987, già sul trono del ciclismo mondiale, fu vittima di un incidente durante una battuta di caccia. Svuotato del 60% di sangue, l'americano si aggrappò alla vita, e ne uscì vittorioso. Poi un lungo e sofferto percorso di ritorno al ciclismo, fino a vincere un altro Tour nel 1989, per soli 8 secondi.

Greg LeMond - Les grands récits

Credit Foto Eurosport

Se li si osserva bene, gli Champs-Elysées donano un colpo d’occhio senza pari non solo su Parigi, ma sulla vita di ogni ciclista. Sono il punto d’arrivo del Tour de France, la competizione più prestigiosa della disciplina. Il viale, uno fra i più celebri al mondo, prende il nome dai campi elisi: luogo della mitologia classica, destinazione beata di eroi caduti. Ma gli Champs-Elysées di Parigi hanno spesso raccontato una storia contraria. Hanno visto sorgere eroi, anziché vederli tramontare. Nel caso di Greg LeMond, si trattò di una resurrezione. La morte l’aveva già incontrata 27 mesi prima, lei lo aveva preso per mano, destituendolo di tutti i poteri che lo avevano reso grande agli occhi del mondo del ciclismo. Greg fu vicinissimo a mollare tutto. Dovette ricostruirsi come uomo, e poi come ciclista. Tutto quel processo impiegò 27 mesi. Perché per costruire un ciclista serve tanto tempo, serve allargare continuamente le pareti del proprio corpo, dare e togliere ossigeno ai muscoli, purificare il sangue, cambiare pelle; le strade che segue un ciclista non sono mai dritte: sono fatte di dislivelli, euforia e fatica, si biforcano in infinite tattiche. Spesso è facile perdere la bussola. Per diventare un eroe invece, non serve una vita: gli eroi si rivelano all’improvviso, bastano pochi tic di orologio. Nel caso di Greg LeMond, 8 secondi. 8 magnifici secondi che lo riscattarono rispetto un destino crudele, che lo aveva annientato come ciclista e come uomo. Si era perso in un delirio di sentieri Greg, ma in quegli 8 secondi, sugli Champs-Elysées, la strada era una sola, ed era spianata.
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Greg LeMond sur le Tour de France 1986

Credit Foto Imago

LeMond il pioniere

Ma prima di tutto, Greg Lemond è stato un pioniere. Le strade, intricate o dritte che fossero, se le è aperte da solo. La sua infanzia la possiamo localizzare nelle sterminate valli rocciose americane, tra Nevada e California. Terra di ranch e natura selvaggia, Greg si descrive come un bambino iperattivo: solo lo sport, più precisamente l’arrampicata e lo sci, riuscivano a calmarlo. Quel diavoletto biondo dagli occhi azzurri cominciò a pedalare per perfezionare la sua condizione fisica; ma in poco tempo il ciclismo si impossessò di lui: a 16 anni correva già assieme a 30enni di calibro olimpico.
Ma Greg non fu pioniere solo per questo: il suo talento lo portò presto ad attraversare l’oceano per competere in Europa. Lì risiedeva lo scrigno dorato del ciclismo mondiale, considerato inviolabile per qualsiasi atleta americano. Greg LeMond riuscì a sfatare il mito della supremazia europea, a imporsi come uno dei più grandi corridori mondiali della storia. Alla prima partecipazione nel 1984, divenne il primo statunitense a salire sul podio del Tour de France. Da quel punto in poi, il mondo sapeva: chi riusciva a guadagnarsi il podio all’esordio era speciale, se non un predestinato. E Greg, tanto impulsivo quanto furbo tatticamente, lo era. Ma dominare lo sport attraverso forza e intelligenza non era sufficiente: bisognava districarsi dalle imposizioni gerarchiche della squadra gestita da Bernard Tapie. Ne La Vie Claire, squadra in cui correva nel 1985 infatti, convivevano due lupi nello stesso gregge. Uno era lui, mentre l'altro era semplicemente uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi e vincitore già di tre Giri d'Italia, quattro Tour de France e due Vuelta di Spagna: Bernard Hinault. Entrambi erano saliti sul podio del Tour l’anno precedente: il francese secondo, e Greg LeMond terzo. Hinault non cedette subito lo scettro al giovane principe, anzi. Si aggiudicò il Tour successivo, il suo quinto, proprio davanti all’americano. Ma l’anno successivo l’equilibrio di potere cambiò: slegato da tattiche e politiche di squadra, l’americano dimostrò di essere il più forte. Vinse il Tour del 1986, fece uscire di scena il grande Hinault, arrivò sul tetto del mondo a soli 25 anni.
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Greg LeMond et Bernard Hinault en 1986

Credit Foto Imago

A 20 minuti dalla morte

Ma la morte, scura mietitrice, bussava alla porta. Certe volte si riesce a chiuderle la porta in faccia, altre no. Greg decise di sopravviverle. Non era ancora il momento. La puntualità, specie per un ciclista, è cruciale.
Nella primavera del 1987, Greg aveva deciso di curare un infortunio al polso presso il suo ranch di Lincoln, a una cinquantina di chilometri da Sacramento. L’occasione era perfetta per una battuta di caccia assieme a suo zio Rodney Barber e al cognato Patrick Blade. Partirono assieme, ma a un certo punto decisero di dividersi per cercare fortuna. A un certo punto Patrick si mise sull’attenti: un cespuglio emetteva uno strano fruscìo. Patrick fischiò per precauzione. Nessuno rispose. Sparò alla cieca.
Dall’altro lato del sentiero, il colpo aveva fatto centro. Le orecchie di LeMond vennero folgorate da un fischio improvviso, le gambe si irrigidirono, poi un secondo di stallo. Greg abbassò lo sguardo e si guardò le mani, vide una macchia purpurea sulla sua fede nuziale. Il cespuglio presso il quale si era fermato era dipinto di rosso. Era stato perforato nel fianco e nel basso della schiena. Le fronde degli alberi cominciarono a turbinargli intorno, il velo di una notte prematura si abbassò sulla sua fronte.
Provai a camminare ma mi accorsi subito che il mio polmone destro era collassato. Facevo fatica a respirare.
Cominciò la gara a cronometro più drammatica nella vita di Greg LeMond. Fu svuotato del 60% del suo sangue, della sua invincibilità. 60 pallini di piombo provenienti dal proiettile si erano sparpagliati dentro di lui, provocando diversi fori in più organi: costole, intestino, fegato, reni, diaframma e le pareti del cuore. Lo zio e il cognato accorsero in suo soccorso quasi un’ora dopo, e riuscirono a intercettare un elicottero di passaggio quasi subito, in soli 15 minuti. LeMond fu trasportato d’urgenza all’ospedale dell’Università della California.
“Se non ci fosse stato quell’elicottero sarei morto” affermò lui più tardi. Stessa tesi sostenuta dai medici: venti minuti ulteriori senza soccorso e si sarebbe spento in una pozza di sangue. Un’operazione di due ore gli salvò la vita: i chirurghi riuscirono ad estrarre solo la metà dei pallini di piombo che lo avevano colpito. LeMond avrebbe ricominciato a pedalare con 30 piombini in corpo, due dei quali vicinissimi al suo cuore. Questi ultimi due avrebbero spinto LeMond al ritiro nel 1994. Sandy Beal, che partecipò all’operazione chirurgica che salvò LeMond, non dubitò nemmeno per un secondo: “È giovane ed in eccellenti condizioni fisiche. Dovrà guarire bene da tutte le sue ferite e queste non dovrebbero comprometterne le prestazioni da atleta di alto livello.” Ma il ritorno in vetta fu più sofferto di quanto queste dichiarazioni andavano a far presagire.

27 mesi per risorgere

LeMond fuggì con la famiglia in Montana, lontano dall’incubo dei boschi californiani; da lì cominciarono i suoi tentativi di riconquista. Ma il suo percorso per tornare ad alti livelli fu tortuoso: quando rimontò in sella si accorse di quello che l’incidente gli aveva tolto: riusciva a pedalare per pochi metri, poi i polmoni si affaticavano. Greg aveva perso 7 kg di massa muscolare: una quantità spropositata, se si pensa che le prestazioni nel ciclismo sono decise da variazioni centesimali di quel peso. Ma a farlo annaspare non erano solo le ripercussioni fisiche dell’infortunio: suo padre stava già contrattando le sue prestazioni sportive per la stessa estate, quando Greg non riusciva nemmeno a percorrere un isolato a piedi. Inoltre Bernard Tapie aveva cancellato il contratto del californiano a bordo della sua squadra; l’affanno non era solo fisico, ma anche psicologico. Non c’era più nessuna ancora di salvataggio, la sua carriera e la sua salute dovevano ripartire da zero. Forse ancora più in basso. Mesi dopo, il ritorno alle competizioni. Ma le sue prime uscite non promettevano niente di buono: dopo pochi chilometri si piegava a lato della strada, come uno straccio usato. Ancora affaticato, smarrito. Col passare delle gare cominciò a fingere guasti alla bici, forature di gomme. L’umiliazione era insopportabile, ma lo stava corroborando. L’uomo e l’atleta si stavano ricostruendo, ma il martirio era lontano dalla fine.
la cosa più dura quando si ritorna, è ricordarsi di sè stessi al top della condizione.
Patrick Chastagner, vecchio meccanico e soprattutto grande amico di LeMond, confida:
Si accorse che sarebbe stata dura dal primo momento in cui ricominciò a pedalare. Aveva perso tanti muscoli, soprattutto alle cosce. Una volta si sentiva bene, l’altra male.
Il 1988 fu un anno da dimenticare. Una tibia malconcia lo tormentava. Greg abbandonò la formazione PDM, che non aveva più fiducia in lui e voleva tagliare il suo stipendio; si accasò alla piccola ADR, che lo avrebbe accompagnato nel 1989 sulla strada della redenzione. Scaricato e dato per spacciato da tutto il mondo del ciclismo, LeMond tentava di aggrapparsi a qualsiasi salvagente gli venisse lanciato. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Terminò il Giro d’Italia in 39esima posizione, staccato di un’ora da Laurent Fignon. La sera dell’11esima tappa toccò il punto più basso della sua carriera, concedendo 17 minuti ai leader sulle Tre Cime di Lavaredo. A fine serata tornò all’hotel con le lacrime agli occhi. Chiamò sua moglie e le annunciò la sua decisione, irrevocabile. Si sarebbe ritirato a fine stagione nel caso non avesse trovato un ritmo sostenibile. Aveva solo 28 anni.
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Greg LeMond sur les Champs-Elysées.

Credit Foto Getty Images

8 secondi per entrare nella storia

A quel punto LeMond decise di giocarsi il tutto per tutto nella gara a cronometro. Depurato di ogni aspettativa, il suo ego era stato demolito dall’inarrivabile fantasma del 1986. Non gli restava più niente, e ciò era un bene. Chastagner lo vide fiorire all’improvviso:
Partì tra gli ultimi, ma riuscì a riprenderne dodici o quattordici partiti prima di lui. Riusciva a rincorrere il gruppetto, per lui la cronometro era un test, gli ha dato una gran botta di fiducia.
LeMond terminò la gara a cronometro in seconda posizione, dietro a Lech Piasecki. L’ingranaggio micidiale era ripartito. Dopo un’incoraggiante prestazione al Tour des Vallées Minières, arrivò il momento del Tour de France. Un cocktail di sensazioni miste tra dubbio e speranza lo accompagnò all’agognato palcoscenico. A Rennes, quinta tappa, arrivò la prima vittoria in una cronometro. L’adrenalina generata dal ritorno della maglia gialla sulle sue spalle completò la rinascita: riuscì a trascinarsi in un formidabile inseguimento in coda all’eterno Laurent Fignon, un corridore che allora lo surclassava in qualsiasi aspetto atletico e prestazionale, che avrebbe battuto anche il LeMond vincitore del Tour 1986. Ma quello palesatosi sul rettilineo degli Champs-Elysées non fu il ritorno del vecchio LeMond; fu la nascita di un nuovo LeMond, che trattava la fatica del ciclismo come un gioco, irrisorio rispetto al dolore della morte.
Voi pensate di essere abituati al dolore sulle vostre bici. Ma quella non è vera sofferenza. Quella sofferenza non è niente se confrontata al vero dolore.
Il viale parigino vide Greg LeMond concretizzare una rimonta incredibile su Fignon. Quest’ultimo avrebbe cominciato l’ultima corsa a cronometro con 50 secondi di vantaggio sul fantasma dell’americano. Fignon attendeva la conclusione della prova finale di LeMond per partire. Ma con una media di 54,545 km/h, LeMond si presentò a Parigi con un tempo pazzesco. Era il momento della disperazione per Fignon, che terminò la cronometro con soli 8 fatali secondi di svantaggio. Nel giro di pochi secondi si accasciò a terra, in preda allo shock emotivo di una gara surreale, segnata da quel distacco sottile, il più sottile della storia del Tour. 8 secondi di pura follia, 8 secondi per iscrivere nella storia una resurrezione molto più lunga e faticosa durata 27 mesi.
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