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Ricordando Gianni Mura: ho perso una bussola, mi mancherà

Roberto Beccantini

Aggiornato 22/03/2020 alle 09:33 GMT+1

Prima che una grande firma, era un uomo grande. Averlo conosciuto è stato un onore: che malinconia averlo perso.

Focus Gianni Mura

Credit Foto Eurosport

Ricordare Gianni Mura, che ha sempre considerato la parola un ponte e non un muro, mi agita il cuore di sentimenti. La tristezza infinita per la scomparsa (ieri a Senigallia, all’età di 74 anni, complice un «tuffo» al cuore); la gioia schietta che mi davano il suo stile, i suoi pezzi, i suoi libri; il vuoto che i fuoriclasse assoluti - e lui lo era - lasciano nella storia del mestiere e, a maggior ragione, nella cronaca di noi mestieranti.
Gianni è stato un maestro. E come tale, fidatevi, di improbabile emulazione. Ve lo riassumo in un concetto, il concetto di Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957: «Chi scrive in modo chiaro ha lettori, chi scrive in modo oscuro ha commentatori». Ecco: aveva lettori, Gianni, una valanga di lettori, perché scriveva chiaro e forte.
Incuriosiva. Appassionava. Si poteva non essere d’accordo, non si poteva non ammirarlo. Le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, il suo amato Tour tra fasti e pasti: ha esplorato tanto sport, tanta vita e tanta cucina, sempre in punta di penna (e di penne, ça va sans dire). Si è schierato, ha combattuto gli «ismi» dell’arroganza. Prima che una grande firma, un uomo grande.
Gazzetta dello Sport, Corriere d’Informazione, Epoca, un po’ di Occhio e, dall’alba degli Ottanta, fisso a Repubblica con escursioni guerinesche e nel sociale (Emergency di Gino Strada). Destreggiarsi fra il peso di un lutto e il conto dei lutti, non è facile. L’ultima volta, due mesi fa, lo incontrai con Luigi Bolognini e Fabio Monti in una clinica di Milano. Non stava benissimo, ma si stava riprendendo.
Lottava. Non vedeva l’ora di pigiare tasti, di isolare l’arrosto di una giusta causa dal fumo dei soliti blablabla. I suoi «cattivi pensieri» costituivano la messa laica della domenica, un rito aperto, condiviso, non certo obbligato. Lo si leggeva per piacere, non per routine.
E’ stato, di Gianni Brera, il custode più fedele, più appassionato, più colto. Nel mio piccolo, ho avuto la fortuna e il privilegio di frequentarlo. Io, che adoravo gli spuntini; lui, che detestava i tre puntini. E la caccia grossa agli esclamativi, Pantadattilo Pantani, la «palla di lardo» dei pronostici estivi, la fedeltà al contropiede nell’epoca delle ripartenze adultere, le discussioni sullo stato del giornalismo, la resilienza delle «tigri di carta» che non vogliono arrendersi ai bracconieri da tastiera.
Ogni viaggio era il pretesto per una mnemonica, per un ripasso di musica (francese, in particolare). La moglie Paola gli è stata vicina fino all’ultimo. Immagino Gianni mentre, fra le nuvole, si accomoda in auto per seguire l’ennesima edizione del Tour con Carlo Pierelli al volante. Il caro Carletto della «Gazza», morto nel 2009. Una coppia di fatto, splendidamente assortita. Fumatori accaniti, complici affamati.
In questi casi, e specialmente in rapporto a «questo» periodo, la paura che scappi un aggettivo di troppo può diventare un freno subdolo.
Al diavolo. Che onore, averlo conosciuto. E che malinconia, averlo perso. Era una bussola preziosa: mi mancherà.
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