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Da Washington a Kaepernick: tutta la storia della "spirale" razzista nel football americano

Lorenzo Rigamonti

Aggiornato 17/06/2020 alle 14:47 GMT+2

L'uccisione di George Floyd ha innescato una serie di proteste contro il razzismo negli Stati Uniti. Partendo dal concetto di spirale, un meccanismo che definisce il ciclo vitale del football americano, abbiamo cercato di risalire a una più ampia dinamica sociale, spiegando perchè, oggi più che mai, il gioco più amato d'America sia uno specchio fedele della stessa società che lo ha fondato.

Colin Kaepernick San Francisco 49ers

Credit Foto Imago

La spirale. In un certo senso, la matrice di tutto il football americano. Sfruttando una contorta metonimia, si è soliti dire “throwing a perfect spiral”, ovvero “lanciare una perfetta spirale”. Una spirale, nel football americano, è il movimento che assume la palla una volta lanciata in aria dal quarterback. Una volta liberatasi dall’ultima falange del quarterback, la palla comincia a ruotare attorno al suo centro mantenendo una linea dritta e stabile. Se spogliassimo in termini essenziali il football, tutto si ridurrebbe a questo movimento. Una trottola che si sposta attraverso spazio e tempo descrivendo un moto ripetitivo e chiuso. Un movimento destinato a ripetersi senza mai risolversi, se non fosse per il contatto con le mani del giocatore prossimo a riceverla.

La spirale che lega la NFL agli Stati Uniti

La spirale è il cuore del football: se la palla non assumesse quel moto, i passaggi diventerebbero pressoché infattibili. Nel calcio invece, la palla non vive di cicli esatti, ma è un atomo imprevedibile, che sterza ovunque e in qualsiasi momento. Il calcio, a differenza del football, è uno sport che implica una trasformazione anarchica e continua, è uno sport d’enfasi, prolungato, con rarissime interruzioni. Il football no: ogni azione si risolve in una manciata di secondi, poi ci si ferma, si innesca un’altra spirale da centinaia di giri, e si riparte. È un sistema che vive di cicli sempre uguali a sé stessi, che si ricarica e si regola da solo, azione dopo azione. Un complesso che si scinde in pochi attimi di disordine per poi ricomporsi e tornare all’ordine, per poi rompersi ancora e così via. Questo principio autoregolatore plasma il sistema stesso. E tutto parte da quella palla, che gira attorno a sé stessa e si riproduce sempre uguale; così facendo scandisce il ritmo dei giocatori e delle partite, che la imitano quasi fossero una sua estensione. Ora, che cosa succederebbe se estendessimo per inerzia questo moto oltre al campo? Cosa succederebbe se provassimo a spiegare una parte della società americana con un frammento di DNA che compone il suo sport preferito?
Questo testo è stato ispirato dalla dichiarazione di Kenneth Clark, psicologo americano che negli anni ’60 testimoniò davanti alla Commissione Kerner, istituita al fine di indagare le insurrezioni nere vissute nell’estate del 1967.
Ho letto i rapporti … delle rivolte a Chicago nel 1919, ed era come se stessi leggendo lo stesso rapporto delle investigazioni della rivolta ad Harlem nel ’35, lo stesso rapporto del comitato investigativo sulla rivolta di Harlem nel ’43, lo stesso rapporto della Commissione McCone sulla rivolta di Watts. Mi preme ancora chiedere con franchezza a voi, membri della Commissione – pare una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie –, con le stesse immagini in movimento ripetute ancora e ancora, la solita analisi, i soliti propositi, e la stessa inazione.
Questa descrizione tanto aspra quanto vera, ci è utile a inquadrare il principio di prigionia e sfruttamento sotteso al sistema americano. Ed è una descrizione degli anni ’60. Oggi, con l’assassinio di George Floyd e le rivolte ramificatesi in tutta America, si ritorna allo stesso punto di partenza. Come una spirale che si avvolge sempre attorno allo stesso centro, come “le stesse immagini in movimento” che si ripetono in una cacofonia esasperante, prima di stemperarsi nel silenzio e ricomporsi. Sin dal 1868, anno in cui la costituzione americana riconobbe i neri come cittadini protetti dalla stessa legge dei bianchi, la lotta per l’uguaglianza si è intorbidita attorno a una serie di cerchi ricorrenti; nuovi metodi di segregazione comparivano in qualsiasi settore: dal lavoro, alla giustizia, all’urbanistica, alla politica, agli sport. Poi sanguinosi scontri e sfoghi razziali - specialmente tra afroamericani e forze dell’ordine - la conseguente promessa di un nuovo ordine più equo, (la stessa Commissione prima menzionata già discuteva soluzioni come la demilitarizzazione della Polizia), poi il silenzio. Il razzismo sistemico si è perpetuato attraverso gli anni seguendo questo moto duplice: le stesse dinamiche di fondo si ripetono allo sfinimento, ma nel frattempo ci si muove attraverso spazio e tempo, dalla controcultura degli anni ‘60 all’odierna viralità dei social, replicando il moto spiraliforme di una palla che ci ritorna familiare.
E certe volte succede che la frequenza delle rotazioni si intensifichi: tra gli anni ‘50 e gli anni ’60 si sviluppò il movimento per i diritti civili, e molti sportivi uscirono dall’ombra per inserire ideologia e politica nelle loro rispettive discipline. Muhammad Ali fu il portavoce più amato, mentre il pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos divenne il simbolo di una nuova speranza, una nuova rottura.
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#BlackLivesMatter: quando il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos segnò le Olimpiadi del 1968

Discriminazione nella storia della NFL

In questo contesto, è il football lo sport che meglio di tutti spiega il ritratto sociale americano: tradizionalmente si considera il football come lo sport di fratellanza per eccellenza; si dà per scontato che quella palla, grazie alle sue rotazioni impercettibili, unisca quartieri ricchi e poveri. Dalla pre-season al Super Bowl, il football è lo sport amato da tutti, indipendentemente dal colore della propria pelle. La NFL ama vantarsi delle proprie origini (per una piccola percentuale) afroamericane: nei primi anni ’20 infatti, lo sport dovette aggrapparsi anche ai giocatori di colore per rimanere in vita e trovare una stabilità finanziaria.
Poi, se indaghiamo più a fondo, arriviamo a scoprire che il football, come ogni altro sport, è uno specchio della società che lo foraggia. Perché ad inizio anni ’30, gli stessi giocatori neri che avevano contribuito a far nascere la NFL furono emarginati a causa delle politiche razziste di George Marshall, presidente dei Boston Braves/Washington Redskins (la squadra della capitale sfoggia ancora oggi tale nome e simbolo, considerato da molti come offensivo e discriminatorio nei confronti dei nativi americani). C’era il sentore che “i neri stessero rubando il lavoro ai bianchi” e perciò meritavano di essere segregati in squadre locali e lontane dall’agonismo. Tale sentimento verso i neri si inasprì durante il periodo della Grande Depressione. Dovette passare un'altra guerra (dopo quella Civile che aveva promesso uguali diritti alla comunità nera) per far capire ai proprietari della lega l’importanza dei giocatori di colore per il futuro dello sport: se potevano combattere e morire per la patria, allora potevano certamente combattere in un campo di football. Fu il running back Kenny Washington, nel 1946, il primo afroamericano a firmare un contratto per una squadra di NFL nell’era moderna. Il silenzioso accordo di segregazione sportiva dei giocatori afroamericani fu sciolto grazie alla spinta dell’intero sistema football, dalle associazioni giornalistiche ai tifosi, che cominciarono a boicottare stadi segregati e squadre che sfoggiavano simboli apertamente razzisti. Ma quella era solo la punta dell’iceberg.
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Kenny Washington – empowermagazine.com

Credit Foto Other Agency

Pregiudizio nei ruoli

Il motivo della (troppo) lenta crescita culturale del football durante gli anni è riconducibile al campo, ovvero al modo in cui il football è giocato, alla sua meccanica e alla sua estetica. Le partite non sono un fattore accessorio all’industria del football, ma sono un concetto basilare che articola l’organizzazione attorno a esse. Il modo in cui vengono selezionati e impiegati i giocatori dipende dal paradigma di fondo che articola ogni squadra. Perché sì, il football è sempre stato uno sport di bianchi e di neri. Ma quest’ultima affermazione non implica che il football sia uno sport equo, o che queste due parti si compenetrino a vicenda in un miscuglio fluido di etnie. Il football, più di qualunque altro sport, si fonda su un concetto “forte” di ruolo. Nel calcio – torniamo a questo banale paragone – un terzino può benissimo essere adattato ad ala, un centrocampista a trequartista e così via. Ruoli liquidi, intercambiabili, il che comporta giocatori elastici e duttili capaci di trasformarsi e adattarsi a un flusso in continuo divenire. Nel football invece, difficilmente si riscontra questa mobilità tra ruoli. Le squadre ospitano il doppio di elementi rispetto a quelle calcistiche, il che significa che c’è una quantità imbarazzante di corpi tra cui scegliere. Di conseguenza ognuno si specializza in un solo rigido ruolo, sa quello che deve fare e quando lo deve fare. La squadra è segnata da una forte gerarchia, i giocatori sanno chi dà gli ordini e chi no. Questa categorizzazione è una forma di selezione, che se applicata alla razza, si trasforma in segregazione. Sin dal college, i giocatori neri sono indirizzati verso la specializzazione in ruoli di corsa o più “atletici”. I bianchi vengono a loro volta scremati nei ruoli più vocali, di calcolo e astuzia. Il più delle volte si tratta di una selezione silenziosa, priva di intenzionalità da parte di osservatori e allenatori. Questo ci dice molto sull’immaginario collettivo americano.
Il quarterback è il ruolo re del football americano. Sul campo, un quarterback deve essere sia l’architetto che il generale. È lui l’uomo prescelto, incaricato di dare vita alla spirale e innescare il sistema dalla sua base. Questa posizione è sempre stata dominata da bianchi, e le statistiche degli ultimi anni ci dicono che la percentuale dei quarterback bianchi nella lega si aggira attorno all’80%. Una percentuale in calo, ma che ci mostra quanto sia difficile cambiare la spirale agendo sul centro attorno alla quale ruota. Il primo quarterback afroamericano titolare nella NFL arrivò solo nel 1968, forse anche grazie all’input delle sanguinose rivendicazioni che tormentavano l’America fuori dai suoi stadi. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una nuova (forse prima) generazione di quarterback di colore; prendiamo il caso di Lamar Jackson, l’MVP della passata stagione: il suo stile di gioco si basa su fulminee corse e gesti atletici, pochi passaggi, poco calcolo. Molti di questi nuovi quarterback afroamericani stanno sconfiggendo il pregiudizio pur adagiandosi sull’impronta del loro addestramento in college: un quarterback nero non potrà mai giocare come un quarterback bianco, non potrà mai aspettare il passaggio perfetto nella “tasca”, ma dovrà per forza correre e sfruttare il suo fisico. Lo stesso Jackson subì le pressioni di stampa e coaching staff appena draftato: tutti lo volevano adattare a ricevitore (ruolo nero per antonomasia), ma lui rifiutò fermamente.
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Mit der besten Bilanz in der regulären Saison: Lamar Jackson und die Baltimore Ravens

Credit Foto Getty Images

Una forma di discriminazione ancora più evidente riguarda i bianchi, che formano solo il 30% dei giocatori presenti nella NFL. Tra loro, il running back Christian McCaffrey, possibilmente uno dei talenti più luminosi della sua generazione, ha dovuto sconfiggere circuiti infiniti di pregiudizio, tra allenatori e intere società, prima di guadagnarsi la possibilità di affermarsi come il running back più forte della NFL. La maggior parte delle posizioni presenti sul campo sembra quasi preclusa ai bianchi: la NFL non schiera un cornerback bianco da anni, e i ricevitori bianchi tendono a scivolare in panchina più velocemente rispetto ai loro colleghi afroamericani. È forse questo il motivo per il quale il football, negli ultimi anni, è diventato il terreno perfetto per manifestazioni e gesti politici da parte dei suoi giocatori: è un sistema che suscita un rigurgito sistematico a causa del suo meccanismo di fondo; uno sport che ripropone la sua forma in maniera ciclica, una forma che enfatizza la divisione. Mai come oggi il football si riscopre come lo specchio della propria nazione: un ordine che ha in dote una quota di diversità di dimensioni colossali, tuttavia ancora incapace di gestirla efficientemente. Un paradigma ingiusto che riverbera fino ai piani alti dell’industria: la NFL non ha mai avuto un proprietario nero. Bianco è il colore della pelle di chi interrompe il ciclo della spirale definitivamente, perché è bianco il proprietario che alza prima di tutti il Lombardi Trophy al Super Bowl, decretando la fine della stagione.
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Christian McCaffrey #22 of the Carolina Panthers runs the ball against Deion Jones #45 of the Atlanta Falcons in the first quarter during their game at Bank of America Stadium on December 23, 2018 in Charlotte, North Carolina.

Credit Foto Getty Images

Kaepernick e una nuova generazione: opporsi alla spirale

Una nuova generazione di giocatori sta prendendo piede in NFL, consapevole che il football non sia solo un gioco, ma uno sport con ramificazioni sociali che oltrepassano i propri confini istituzionali. Perché il football, come qualsiasi forma di società, è un insieme di soggetti attivi legati da un preciso contratto. Un accordo reciproco stretto tra uomini, giocatori, pedine capaci di animare un collettivo immenso attraverso il loro individualismo. Sul campo di football, il quarterback promette di scoccare una spirale perfetta per i suoi compagni, né troppo lenta né troppo veloce. Questo perché il segreto per una spirale perfetta non è la sua velocità, ma il numero delle sue rotazioni: troppa velocità rompe il ciclo continuo della spirale, destabilizzandola e rendendola suscettibile alle vibrazioni; il suo movimento diventerebbe irregolare e imprevedibile per gli occhi e le mani dei ricevitori. La stessa regola vale anche per una velocità troppo bassa impressa alla palla. Dall’altra parte del campo, i compagni del quarterback promettono di essere pronti a sacrificare il proprio corpo, a bloccare e concretizzare la spirale con le loro mani. E quando una delle parti rompe questo contratto sociale, la spirale non può continuare. Lo ha ricordato Trevor Noah (conduttore del The Daily Show with Trevor Noah), riflettendo sul significato della violenza scatenatasi nel contesto di alcune proteste negli Stati Uniti:
Fondamentalmente, la società è un contratto. Un contratto che firmiamo in quanto esseri umani. Tra umani stabiliamo di aderire a certe regole, ideali e pratiche che ci definiscono in quanto gruppo. E un contratto è forte tanto quanto le persone che lo mantengono. Ma prova a chiederti questo: che interesse hanno queste persone nere nel mantenere questo contratto? (…) Queste persone afroamericane costrette a guardare di continuo come il contratto che hanno accettato di firmare con la società non sia rispettato dalla stessa società che li ha spinti a firmare. Quando vedi George Floyd, un uomo, perdere la vita in quel modo per mano di qualcuno che dovrebbe rappresentare la legge… Di che parte del contratto si tratta? (…) Che cosa ti impedisce di scendere in strada e vandalizzare?
L’inchino di Colin Kaepernick al momento dell’inno americano ha segnato il preciso momento della rottura di questo contratto. La sua era una protesta silenziosa e pacifica, un segnale rivolto all’intera nazione per denunciare la sistematica uccisione dei suoi fratelli nelle strade da parte delle forze dell’ordine. Ma non è da sottovalutare il contesto sportivo che ha spinto lui e tanti altri giocatori a manifestare sul campo. Per la prima volta nella storia del football, l’atto di protesta ha agito su una parte del gioco.
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Kaepernick

Credit Foto Eurosport

Il silenzio simbolico di Kaepernick ne ha modificato il ritmo, anche se per poco, anche se in una sua componente periferica. Un’interruzione che ha modificato la regolarità della sua rotazione, agendo su un momento considerato sacro da molti americani. Un nuovo flusso di discussioni e informazione ha avvolto la spirale, l’ha esposta oltre i confini dello stadio. L’NFL si è spaccata in due, tra coloro che sostenevano l’ideale di Kap e coloro che lo contrastavano. Con l’intensificarsi delle proteste a causa della morte di George Floyd, abbiamo assistito a giocatori pronti a disubbidire ai propri capitani a causa di dichiarazioni contrarie alla protesta di Kaepernick (vedasi il caso di Drew Brees e Michael Thomas). In pochi giorni, la NFL ha revisionato i suoi ideali di fondo, lo storico centro su cui appoggiava la sua spirale: dal campo, dove quarterback come Drew Brees hanno dovuto correggere le loro parole per rifondare un accordo con i propri compagni, ai piani alti con Roger Goodell che ha dichiarato pubblicamente l’errore della NFL nell’ostacolare le manifestazioni pacifiche dei propri atleti.
Noi, la NFL, condanniamo il razzismo e la sistematica oppressione delle persone di colore. Noi, la NFL, ammettiamo di aver sbagliato nel non ascoltare i nostri giocatori prima e non aver incoraggiato ognuno di loro a parlare e a manifestare pacificamente. Noi, la NFL, crediamo nel motto Black Lives Matter.
La stessa NFL che aveva escluso (grazie a un silenzioso consenso) Colin Kaepernick da qualunque squadra; un muto accordo che ricalca esattamente l’orbita descritta dalla spirale di segregazione degli anni ‘30. L’ex quarterback dei San Francisco 49ers è senza squadra da 4 anni. Che la spirale si sia inceppata una volta per tutte, rimane ancora da vedere.
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Stephen Jackson, l'amico fraterno di George Floyd che giura: "Porterò la figlia Gianna all'altare"

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