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Tifosi allo stadio (muniti di mascherine) durante l'influenza spagnola: la foto fa il giro del web

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 11/05/2020 alle 17:52 GMT+2

La fotografia che circola sui social in questi giorni ritrae un gruppo di tifosi americani nel 1918, pronti ad assistere alla partita della Georgia Tech, squadra universitaria di football americano. Le mascherine che indossano i tifosi creano un cortocircuito storico che sembra parlarci direttamente, un secolo dopo.

Georgia Tech, 1918

Credit Foto Other Agency

“E quelli dovremmo essere noi?”, penseremmo tutti guardando questa foto. Si tratta di un’immagine suggestiva, riesumata da Tony Barnhart (giornalista sportivo di Atlanta) attraverso il contributo di Andy McNeal, ex studente del college Georgia Tech. In pochi giorni, questa foto ha fatto il giro del mondo. Risale al 1918, raffigura il pubblico seduto sugli spalti di una partita di college football giocata dalla Georgia Tech.
La particolarità della foto è evidente: un pulviscolo di uomini si raggruppa sugli scaloni dello stadio; i loro volti scuri, inceneriti dalla grana di una fotografia invecchiata; a risaltare è solo il bagliore bianchissimo delle mascherine poste appena sotto i loro occhi. Poi scarpe, giacche, cappelli tutti uguali. È facile descrivere un panorama post-umano, all’epoca dell’influenza spagnola. Quei tetri automi seduti geometricamente sugli spalti si trovavano agli ultimi atti della Prima Guerra Mondiale, puzzavano ancora di ferro o di sangue. La Guerra si era fatta strada nel ventre dell’Europa, aveva falciato via ogni terreno, le truppe si trascinavano i loro feriti, si scambiavano le loro pestilenze. L’influenza spagnola nacque proprio in quel calderone mortale, per accelerare il conflitto e smorzare le sofferenze. Ancora oggi nessuno sa da dove si originò: qualcuno pensa in un campo francese, altri la inseriscono tra le truppe inglesi, altri addirittura in Cina. Fatto sta che l’influenza spagnola giunse anche in America, e arrivò a fermare i polmoni di 50 milioni di persone, in un mondo allora popolato da soli 2 miliardi.
In questo contesto, il presidente americano Wilson decise di non fermare la stagione di football liceale. La sua idea (simile, se non identica a quella espressa da molte cariche al vertice del calcio italiano in questi ultimi giorni) era che lo sport potesse sollevare il morale dei malati, dei soldati e delle famiglie in lutto, attanagliate dagli ultimi spari della guerra e dalla pestilenza. Ma l’impegno della guerra aveva prosciugato le risorse del football: mancava il materiale umano, dai giocatori ai tifosi. Così Wilson improvvisò un campionato alquanto eterogeneo: rinomate squadre collegiali - che avevano risorse per continuare l’attività sportiva anche durante la guerra – sfidavano squadre composte in fretta e furia presso le basi militari. Una delle squadre che riuscì a disputare una stagione completa (composta da 7 partite) fu proprio Georgia Tech, lo squadrone universitario allenato dal leggendario John Heisman. I risultati delle partite che disputò Georgia Tech danno un’idea dell’inadeguatezza delle squadre improvvisate che presero parte al torneo; la squadra di Heisman le vinceva tutte: 118-0, 123-0, 128-0… Risultati inspiegabili nel football di oggi. L’unica sconfitta arrivò contro la ben attrezzata Pittsburgh, 32-0. Alla fine della stagione si organizzò addirittura un Rose Bowl, ma la carestia di giocatori era tale che la finale non fu disputata da dei college veri e propri, bensì da due collettivi militari rappresentativi dello sport nazionale.
Ma torniamo a quella foto, scattata probabilmente tra l’ottobre e il novembre 1918, i mesi in cui la guerra si stava fermando e la spagnola aveva raggiunto il suo picco di contagi.
“E quelli dovremmo essere noi?”, in questo caso, è la domanda che innesca, che ci attrae magneticamente a questa foto… Ma è anche la risposta. Perché si, quelli dovremmo essere noi. Questa foto è un cortocircuito rovesciato, che ci allinea con la Storia di un secolo fa, che ci polarizza umanamente in termini di similitudini e antitesi. Quelli saremmo noi, in quanto uomini, in quanto spettatori, tifosi, infetti. Quelli saremmo noi se il progresso si fosse fermato un secolo fa, se le forme di previdenza sanitaria si fossero congelate in quella foto, se il nostro buonsenso (e la nostra cultura) ci suggerisse ancora che andare a vedere una partita nel bel mezzo di un focolaio virale è normale. Sia chiaro, il Coronavirus assomiglia all'influenza spagnola solo nei sintomi, non per dinamiche di diffusione o letalità. Eppure il leitmotiv della mascherina persiste, questa ciclicità virale ci pone domande sulla benevolenza della Natura, su quanto veramente somigliamo a questi nostri coinquilini temporali, se sia veramente possibile che la striscia del tempo possa accavallarsi e mischiare due società così diverse.
Anche da noi lo sport continua durante il virus,come un disco in loop. Perché fuori dai margini di quella foto, c’era una partita di football da guardare. C’era uno spettacolo mai come allora così immateriale, che continuava imperterrito, indipendentemente se lo si guardasse o no, indipendentemente da quella presenza sugli spalti, indipendentemente dalla tragedia che si stava consumando negli ospedali e nelle strade contaminate. La macchina dello sport procedeva comunque, svincolata dagli uomini che ne definivano la materia. Bastava un input, un’intenzione, e lei partiva. Non c’erano trasmissioni, non c’erano diritti televisivi, eppure lo spettacolo si riproduceva comunque, quasi fosse un’istanza sovrumana, indipendente. C’era questa silenziosa convinzione che lo sport dovesse procedere, nonostante la morale, nonostante noi. Perché guardando questo cortocircuito al rovescio, che ci fa riscoprire cambiati rispetto a cento anni fa, il filo conduttore è proprio lo sport. Lo sport che proprio in questi giorni è pronto a ripartire scavalcando focolai virali e sicurezza. Lo sport che oggi è un’industria sregolata, precaria e inarrestabile, che non può concedersi una pausa nemmeno di fronte alla salute di chi lo gioca o lo guarda.
Questa foto rappresenta un frammento di tempo che nessuno di noi ha mai visto e mai potrà vedere secondo gli standard a cui è abituato. Non ci sono video, non ci sono immagini in movimento, le fotografie periscono in un lento vortice di obsolescenza; si trattava di un’epoca da non guardare, da non consumare. E anche quello sport, quella partita di football sembrava poter procedere senza occhi, senza osservatori. Ed è persino arduo ricordare le parole scritte di quel periodo, il racconto storico di questa gente svanita in una nebbiosa terra di mezzo, in una striscia temporale che era appena uscita dal primo conflitto e si apprestava a cominciarne un secondo.
Oggi, in Danimarca, il calcio è pronto a sostituire i tifosi con degli schermi. Le partite verranno disputate a porte chiuse, ma i seggiolini degli stadi verranno riempiti da una moltitudine di televisori attraverso cui gli spettatori potranno assistere alla partita da prospettive diverse, irradiando gli stadi di un boato elettronico. Senza tifosi dunque, senza più quell’odore di ferro e sangue che caratterizzò quella partita del 1918, senza più guerre “vere”. Eppure, al di fuori di questi schermi e al di fuori di quella foto di un secolo fa, c’è una partita da giocare. C’è lo sport, unica pellicola che procede da sola, indipendentemente da chi la guardi.
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