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Niki Lauda, un valzer con la morte

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 27/04/2020 alle 21:43 GMT+2

Il 1° agosto 1976, Niki Lauda sfiorava la morte nell’incidente del Nürburgring. Bruciato vivo all’interno della sua Ferrari, si rimise al volante 42 giorni dopo. C’era un titolo mondiale da difendere. Riflessivo e calcolatore, riuscì a realizzare la rimonta più impressionante nella storia dello sport.

Niki Lauda - Les Grands Récits

Credit Foto Eurosport

Quella consapevolezza di essere diversi. Il presentimento di non appartenere a questo pianeta fino in fondo. I piloti di Formula 1 sono fatti così. Giocano a carte con la morte ogni domenica. La loro è una vocazione viscerale, inevitabile. La possibilità di scomparire è solo un dettaglio scritto in caratteri minuscoli sull’alettone delle loro vetture. Possiedono qualcosa in più rispetto a noi comuni mortali, analizzano lo spettro della loro realtà con un sesto, settimo senso incomprensibile agli occhi di tutti noi. Si accorgono di ciò che hanno attorno più in fretta degli altri. Per quanto riguardo la loro resistenza e i loro riflessi, oscilliamo tra il prodigioso e lo straordinario.
Dei supereroi, ammetteremmo sottovoce: Ayrton Senna, Michael Schumacher, Juan Manuel Fangio, Lewis Hamilton… e Niki Lauda. Quest’ultimo non riesce proprio a scivolare fuori da questa lista. Forse tra tutti questi nomi di grandi piloti, l’austriaco è stato l’esempio più lampante, più coriaceo dell’amore per la vita e per il suo sport. Il suo strato più esterno fu rovinato dai fumi mortali del Nürburgring, ma dentro, il pilota austriaco ribolliva di un’energia inusuale.
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merson Fittipaldi, Niki Lauda et Jean-Pierre Beltoise en 1973

Credit Foto Getty Images

Il sogno del ratto

Un’energia rabbiosa, una determinazione insolita per lui, figlio di borghesi. Nacque a Vienna, nel 1949. La guerra era terminata da soli 4 anni, ma la sua famiglia non assaporò mai il gusto amaro della crisi. Perché Niki Lauda non nacque col volante in mano, ma con una poltrona da banchiere pronta per lui. Ma il giovane Niki mostrava già un carattere irrequieto, avrebbe voluto provare di tutto nella sua vita, tranne che annoiarsi di fronte a una scrivania. Lauda ne era consapevole, sarebbe diventato un pilota. Ben venga il doversi emancipare dalle aspettative della sua famiglia, ben venga il doversela cavare da soli.
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Niki Lauda feiert seinen Sieg

Credit Foto Imago

Senza alcun aiuto, Lauda spianò la propria strada a colpi di prestiti bancari e debiti. Sbarcò in Formula 1 nel 1971. La sua strada era dritta, ma la pendenza ripidissima. Impiegò 3 anni per far brillare gli occhi di Enzo Ferrari. “Il Drake” si innamorò del pilota austriaco in occasione del Gran Premio di Monaco 1973. Allora Lauda era una giovane promessa, ma la sua lingua era già velenosa; la prima volta che salì sulla monoposto rossa non riuscì a evitare i mezzi termini: “Questa vettura è una merda”, gridò al Commendatore. Fu proprio questa sprezzante sincerità il segreto per costruire una Ferrari vincente. Lauda diceva ciò che pensava e faceva ciò che diceva. Ci vollero solo due stagioni per restituire alla Rossa il fascino che aveva perso da dieci anni. Nel 1975 l’austriaco mise fine a 11 anni di digiuno per la Scuderia. Il vincitore del mondiale piloti del 1964, John Sturtees, aveva trovato finalmente il suo erede. All’interno del paddock era il più intelligente, il più rapido e lucido nel prendere decisioni. Lo chiamavano “il ratto” proprio per questa sua rapidità, oltre che per quella dentatura inconfondibile. In Ferrari lo soprannominavano anche “il computer”: metodico, disprezzava gli arabeschi, i virtuosismi non necessari. Quando saliva a bordo della monoposto rossa, la parola d’ordine era una sola: efficienza. Una prova di questa sua ossessione fu quando regalò tutti i trofei racimolati in anni di corse al suo meccanico, al patto che si fosse preso cura della sua vettura gratuitamente.
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Niki Lauda (Ferrari) in azione durante il GP di Monaco del 1976 (Getty Images)

Credit Foto Getty Images

La stagione 1976 si stava rivelando più facile del previsto per Niki Lauda, numero 1 incontrastato. Si aggiudicò 4 dei primi 9 Gran Premi, più una vittoria a tavolino per la squalifica di James Hunt in Gran Bretagna. Lauda si apprestava a diventare il primo pilota a conservare la propria corona dopo Jack Brabham nel lontano 1960. Mancavano solo 7 gare, mancava quel Gran Premio di Germania.

Progresso e incertezze

Pilotare una Formula 1 significa guidare a tutta birra, con la morte accovacciata sulle spalle, pronta a impossessarsi del volante al momento meno opportuno. Nel migliore dei casi per portarli a sbattere contro un muro. Nel peggiore, per portarli all’altro mondo. E i piloti ne sono coscienti.
Impossibile comparare le prestazioni tra le prime vetture degli anni ’50 e quelle degli anni ’70. Ma se il progresso tecnologico aveva investito la performance dei bolidi, non aveva fatto altrettanto per la sicurezza dei piloti. 12 morti in pista negli anni ’50, 10 negli anni ’70. Pressoché nessun miglioramento, il tasso di morte per gli amanti della velocità era ancora altissimo. Inoltre non esisteva un buon modo per morire, certi incidenti si consumavano nelle maniere più atroci. La morte di Tom Pryce nel 1977 è uno di questi casi, decapitato da un estintore durante la gara di Kyalami (Sud Africa).
Nel 1976, il circuito di Nürburgring stava vivendo le sue ultime ore in Formula 1. Il GP di Germania si sarebbe spostato sulla pista di Hockenheim. Il Nürburgring si snodava in più tracciati, e la Formula 1 aveva scelto il più folle: la pista Nordschleife, lunga 22,8 kilometri. Un tracciato d’altri tempi, che il mondo delle corse si apprestava ad abbandonare perché quasi nessuna parte di quell’impianto rispettava le nuove norme di sicurezza.

Valzer con la morte

Se qualcuno vi dirà mai che gli piaceva correre al Nürburgring… Vi sta mentendo. Nessuno di noi girava al massimo su quel circuito.” Disse Jackie Stewart. Nemmeno Lauda amava quel tracciato così vertiginoso, privo di senso. Nella sua autobiografia Lauda scrisse:
Nella primavera del 1976 notificai la delegazione del Grand Prix della mia intenzione di non correre al Ring quell’anno. Ma la mia proposta fu rifiutata e accettai di correre ugualmente.
Allora Lauda corse. E la sua vita cambiò per sempre. In quel 1° agosto del 1976, sull’altopiano dell’Eifel aveva piovuto. Ma la pista si era asciugata rapidamente. Quel giorno, Lauda era l’unico a montare pneumatici slick (gomme adatte all’asfalto asciutto). All’uscita dalla Bergwerk, una curva rapida a sinistra, Lauda perse il controllo della sua monoposto, che si imbarcò a destra. La macchina, impazzita, attraversò tutta la pista per poi sbattere contro gli argini; poi ritornò sull’asfalto in un testacoda infinito, un valzer con la morte. Al placarsi di quell’interminabile volo, la vettura era diventata un relitto in fiamme. Ma il peggio doveva ancora venire. La 312 T2, ormai stagnante in mezzo alla pista venne colpita dalla Surtees di Brett Lunger. Una catena di disastri, uno dopo l’altro. I 3 piloti Guy Edwards, Harald Ertl e Arturo Merzario decisero di fermarsi a bordo pista, cercando di domare le fiamme che abbracciavano il corpo del campione. Merzario riuscì a strappare la cintura che teneva intrappolato Lauda nel suo abitacolo. Probabilmente quel gesto gli salvò la vita, siccome i soccorsi tardavano ad arrivare. Lauda fu trasportato all’ospedale di Adenau, dove precipitò in coma, sospeso tra vita e morte.
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La monoplace de Niki Lauda après son accident

Credit Foto Imago

Lauda non rischiava di morire per le ustioni, bensì per la condizione dei suoi polmoni. In quella culla rovente, aveva respirato una massiccia quantità di fumi tossici. Carburante e plastica avevano superato il filtro dei suoi bronchi per disciogliersi in maniera permanente nel suo petto. Cominciò allora la lotta della vita. E fu il diretto interessato a descriverla meglio di tutti:
Mi ricordo che ascoltavo il dottore che diceva ‘se gli diamo dell’ossigeno morirà’. Un dettaglio curioso… Sarei morto. Dieci anni dopo ho rivisto lo stesso dottore a Hockenheim e gli ho chiesto che cosa fosse successo durante l’incidente. Mi ha detto che sono sopravvissuto perché sono riuscito a rimanere cosciente per molto tempo. Mi riuscivano a parlare, mi ha detto. Io ho cercato di restare sveglio per seguire le istruzioni. Per me era semplice: dovevo restare in vita tanto quanto i medici riuscivano a garantirmelo.
E come rimanere svegli? Con un tubo nei polmoni. Gli aspiravano tutto quello che c’era dentro.
Quando ti attraversano con quello, i polmoni si comprimono completamente e ti manca l’aria. È spaventoso. È molto doloroso e orribile. Con più lo si fa, con più si hanno possibilità di sopravvivere. Dopo mezz’ora dicevo sempre: ‘si ricomincia’. No, no, è troppo presto mi dicevano i medici.
Tra le pause della terapia, un prete lo affiancava per l’estrema unzione. Ma sarebbe stato inutile. Perché Lauda resuscitò. Non voleva abbandonare tutto a 27 anni.
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Niki Lauda - Grand Prix Of Germany 1976

Credit Foto Getty Images

3 giri completi di orologio e Lauda ne uscì sano e salvo. Ma sarebbe rimasto sfigurato a vita. Aveva perso metà dell’orecchio destro, una buona parte del suo cuoio capelluto, così come la sua fronte e la guancia destra, ricomposte utilizzando la pelle delle sue cosce.
Quando mi sono svegliato, avevo le mani legate al mio letto. Un’infermiera mi aveva spiegato che lo avevano fatto per non permettermi di toccare il mio viso. (…) Un’altra infermiera mi ha chiesto ‘vuole guardarsi allo specchio’? Nel bagno ho aperto gli occhi e non potevo crederci. La mia testa era della stessa taglia delle mie spalle.
La testa si sgonfiò presto. Ma le cicatrici, quelle sarebbero restate per sempre. Chirurgia estetica? Che bisogno c’era?
Ho fatto un incidente, è la mia scusa per essere orribile. In molti non hanno scuse per essere così brutti.
Da quel punto in poi, sarebbe stato operato solo per ragioni mediche. E cominciò a portare un cappellino: “La mia protezione contro la gente stupida che mi guarda in maniera stupida”.
Appena uscito dall’ospedale, a Lauda non interessava che una cosa: chiudere i conti in sospeso, giustamente. Dopo una serie di sofferte terapie, Lauda ritornò ad essere un pilota, con la stessa lucidità degli anni migliori.
Ero sempre cosciente del pericolo. Ogni anno, uno o due miei colleghi morivano in pista. Era il mio mondo. Io ho giocato con la sorte. E dopo non ho avuto alcun problema nel ritornare.

Lauda contro Hunt

Il ritorno avvenne a Monza, 42 giorni e 2 Gran Premi dopo l’incidente. Niki Lauda si aggirava nel paddock con fasce e bendaggi che lo impedivano, come una mummia costretta fuori dal suo sarcofago anzitempo. Lauda era alla caccia di James Hunt, che aveva approfittato della sua assenza per riavvicinarsi in classifica piloti.
Lauda, partito quinto dalle qualifiche del sabato, riuscì a concludere la gara in quarta posizione, completando una delle rimonte più improbabili della storia dello sport. E pensare che era tornato al volante della sua Ferrari solo due giorni prima. Molti dicono che si spaventò toccando nuovamente quel volante. In una notte sola riuscì a smaltire lo shock emotivo. Dopo due notti, fece la storia.
Ma la favola più bella, questa volta, non ha un vero e proprio lieto fine. Quell’anno Lauda non vinse più nessuna corsa. Ma ciò non avrebbe compromesso il suo piazzamento in classifica nella corsa al titolo. All’ultimo Gran Premio risultava ancora in testa al campionato. Il titolo era nelle sue mani, la sua vita pure. E quella volta, Lauda decise di premiare quest’ultima. Un diluvio si era abbattuto sul GP del Giappone. La pioggia del Monte Fuji era tagliente tanto quanto quella dell’ Eifel. Quasi nessuno aveva voglia di rischiare la propria vita sui tornanti giapponesi. Ma la F1 non poteva accontentare esclusivamente i piloti. Quel giorno si sarebbe corso, imperativo mediatico. E allora Lauda accostò. Panico generale. Perse il titolo per un punto.
Sono partito direttamente per l’aeroporto. Ero in taxi, ho chiesto all’autista di accendere la radio e dirmi chi aveva vinto il titolo. Negli stessi minuti in cui la gara stava finendo, siamo passati in galleria e il segnale si è interrotto. L’autista non aveva sentito il nome del vincitore. All’aeroporto ho incrociato un ragazzo della Ferrari che voleva salutarmi. Ho notato il suo volto. Ho capito. ‘Porca puttana’ mi sono detto. E lui di seguito: ‘Si, Hunt è campione del mondo’. Così sono tornato a casa.
Davanti alla stampa, Enzo Ferrari supportò la decisione di Lauda. Ma dietro le quinte, aveva perso fiducia nel suo pilota. L’anno seguente Lauda venne relegato come secondo pilota dietro a Carlos Reutemann; ciò non gli impedì di rivincere il titolo mondiale del 1977, con due gare d’anticipo. Era il momento perfetto per uscire dalla porta del cavallino. Quella fu la fine della sua giovinezza. Avrebbe vinto un altro titolo nel 1984 a bordo della McLaren. Rimpianti? Macchè. “Certe cose valgono più di un titolo mondiale. La mia vita, è una di queste. Sono stato codardo in Giappone? No, questa affermazione non ha alcun senso. Ho usato la testa”. Se la carrozzeria di Niki Lauda ha subito danni gravissimi, il suo motore è sempre restato performante fino ai suoi ultimi giorni.
Il 29 maggio 2019 sono stati celebrati i suoi funerali. Allora si, Lauda ha potuto esprimere il suo ultimo desiderio, lo stesso che aveva rispedito al mittente 44 anni fa: venire sepolto vestendo la tuta rossa della Ferrari, l'unico abito degno di quel ballo indimenticabile, di quel valzer con la morte.
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