Miracle on Ice, 40 anni dopo: quando gli statunitensi conquistarono Lake Placid

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 22/02/2020 alle 11:00 GMT+1

Ripercorriamo la storica vittoria del team USA contro l'invincibile armata sovietica avvenuta il 22 febbraio 1980 ai Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid. Un trionfo inaspettato nel bel mezzo della Guerra Fredda che ancora oggi è annoverato tra i più grandi esempi del Sogno Americano.

Miracle On Ice

Credit Foto Eurosport

Una data da ricordare: 22 febbraio. Per la precisione 22 febbraio 1980. In un periodo pieno di significati politici a livello planetario, lo sport fece la sua parte e recitò un ruolo da protagonista nella storia che vogliamo raccontare.

Poco più di 10 anni prima: l'allunaggio dell'Apollo 11

Luglio 1969. L’umanità per qualche secondo, alzò lo sguardo verso il cielo. La missione Apollo 11 fece toccare per la prima volta un piede umano sul suolo lunare. I due astronauti in testa alla missione erano Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Atterrarono in un mare lunare che battezzarono “Sea of Tranquillity” (tradotto in italiano, Mare della Tranquillità). C’era silenzio infatti. La Terra sembrava lontana, ma era luminosa. Erano luminosi i milioni di televisori ai quali si incollarono gli sguardi di tutto l’Occidente. Inscatolati negli schermi, migliaia di inviati televisivi riportavano ogni singolo secondo di quegli attimi, incrociavano dati, si confondevano, sudavano, ma rimanevano solenni.
Perché in quella giornata, è proprio vero, ci fu
Un piccolo passo per l'uomo, un grande passo per l'umanità
Ma fu anche un grande passo per gli Stati Uniti, in quella logorante guerra silenziosa che li legava morbosamente alla superpotenza sovietica. Durante la Guerra Fredda Stati Uniti e URSS volevano arrivare per primi su tutto. Tecnologia, informazioni, terra, sport: si competeva su tutti i fronti tranne su quello che più contava; le forze politiche spargevano fango l’una addosso all’altra evitando funambolicamente lo scontro frontale. Il 20 luglio 1969 dunque, non si trattò solo di una conquista: era una risposta al lancio dello Sputnik sovietico, era un regolamento di conti.

La sera prima: Mike Eruzione

La sera prima del match di hockey USA-URSS ai Giochi olimpici Invernali di Lake Placid (New York), un ragazzotto italo-americano di nome Mike Eruzione accartocciò l’ultima lattina di birra nel camper dei suoi genitori. Aprì la porta cigolante, uscì per respirare. Dicevano che l’aria di montagna ringiovanisse i polmoni, che il silenzio dei boschi fosse propedeutico a rilasciare lo stress accumulato in città. Ma lì c’era troppo silenzio. C’era una nazione che aveva paura di fare brutta figura, c’erano delle truppe sovietiche che avevano invaso l’Afghanistan. Davanti a Mike si distendeva il bacino di Lake Placid, un lago artificiale scavato nel 19esimo secolo per raccogliere il ferro. Non è altro che un enorme cratere, coperto da una coltre di neve bianchissima. Anche Mike, per qualche secondo, alzò la testa al cielo. Gli passò di fronte tutta la sua infanzia: cresciuto in una vera e propria famiglia "all’italiana", in un nido condiviso alla buona con parenti di ogni dove; una casa per tre famiglie della working class nella periferia est di Boston, mentre suo padre imprecava contro il suo taxi perché la ruota continuava a staccarsi e non aveva soldi per ripararla. Uomo curioso, suo padre. Probabilmente non avrebbe voluto vedere suo figlio lì, venir umiliato in diretta TV nazionale da un mostro più grande di lui. Probabilmente lo avrebbe voluto vedere rimboccarsi le maniche al bar, a cercare di racimolare qualche soldo in più, a cucinare pizze e pulire banconi. E invece il figlio Mike aveva dato fiato a quella maledetta passione per l’hockey. Era stato capitano della sua squadretta di High School, poi al college di Boston. Era un’ala sinistra tecnicamente dotata, a cui piaceva guidare i propri compagni sia in spogliatoio che in campo. Ma i ragazzi sotto la sua protezione, in quei giorni, non erano i suoi fidati. Era un mucchio confuso di quelli che chiamavano "college scrubs", degli scappati di casa senza meta o obiettivo nella vita, che probabilmente non avevano la stoffa per diventare professionisti, che in molti casi non avevano ancora l’età legale per ubriacarsi. Si trattava di ragazzini che, a detta di molti, non avrebbero mai costruito un legame funzionale o duraturo per via delle rivalità universitarie, che il giorno dopo sarebbero stati picchiati da degli uomini veri.
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Mike eruzione 190 Miracle on Ice

Credit Foto Getty Images

Mike abbassò lo sguardo, rientrò in camper e disse ai suoi genitori:
Ho un presentimento… Domani andiamo a battere i russi.
Si mise a letto e spense la televisione che passava in rassegna le previsioni tombali dei giornalisti:
A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, ci si attende che i sovietici vincano la medaglia d'oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei."
C’era un silenzio consensuale tra la stampa dei vari paesi in quei Giochi Olimpici (tipico per il periodo storico in questione). Tutti sapevano che la squadra statunitense di hockey non era stata assemblata in maniera ottimale. A fare paura erano però soprattutto i sovietici; era il periodo del finto dilettantismo di Stato, per il quale i loro atleti di hockey erano retribuiti dall'Esercito russo anziché da una Federazione sportiva, generando così l’opportunità di competere a livello di giocatori meno esperti (come quelli americani) in un'epoca nella quale era proibita la partecipazione olimpica ai professionisti. Quella che i sovietici stavano portando sulle sponde di Lake Placid era un'armata vincente e collaudata, basata su studi di scacchi e coreografie teatrali passate al setaccio di mani sapienti come quelle di Tarasov prima e Tikhonov poi. Quello che l'Armata Rossa dello sport portava sulle sponde di Lake Placid era un ennesimo regolamento di conti. Si dice che, nei giorni precedenti la grande partita, l’allenatore non fece allenare i suoi giocatori. L’hockey sovietico di allora era pesantemente influenzato dalla tattica, da sofisticate scuole di pensiero. Quindi si studiava. Dal lato USA, invece, valeva unicamente l’ordine del coach Herb Brooks:
The legs feed the wolf
Letteralmente tradotta, significherebbe “Sono le zampe/gambe a sfamare il lupo”. Questo motto la dice lunga sulle limitate possibilità di pianificazione che il coach si trovava a fronteggiare. In un amalgama inconciliabile di dilettanti, Herb non poteva far altro che puntare tutto sul fisico e sui muscoli. Sulla resistenza delle gambe, appunto. Una squadra da working class. Ed era difficile insegnare a dei ragazzini privilegiati che cosa significasse essere un operaio, o un lavoratore.

Il giorno del match USA-URSS

Arrivò il giorno. Nello spogliatoio, il gruppo di ragazzi doveva ancora decidere se giocare da lupi o diventare il loro cibo. Solo uno di loro non aveva fatto ancora il suo ingresso nella stanza. Prima di entrare nell’Olympic Center, si girò un’ultima volta verso la volta stellata. Si trattava di Mike, intento a cercare lo stesso sogno che aveva lasciato intatto la sera prima.
Brooks invece, pronunciò un discorso che sarebbe entrato nella storia dell’hockey e di una nazione intera, nient’altro che l’esasperata versione hollywoodiana del Sogno Americano:
Se li sfidassimo in dieci partite, ne vincerebbero nove. Ma non questa, non stasera. Siete nati per essere giocatori di Hockey. Questo è il vostro giorno.
Dopo la vestizione, gli statunitensi uscirono dagli spogliatoi e attraversarono la prima marea lunare di giornalisti e fotografi. All’ingresso in pista cominciarono a sostenersi a vicenda, a darsi pacche di incoraggiamento sull’armatura in assenza di gravità, già in riserva d’ossigeno per il nervoso. Degli strattoni che si facevano sentire attraverso plastica e metallo, tutti tesi a capire se quel sogno con cui si erano lasciati dagli spogliatoi fosse ancora lì tra loro, sulle sponde di quell’inferno bianco; e poi gli sguardi che filtravano attraverso i caschi, a chiedersi se quel sogno appena nato li avesse cambiati, se quel miracolo che stavano iniziando a percepire stesse respirando sotto la pelle di tutti loro, se si fossero veramente trasformati in squadra, nel fluire di pochi secondi. I sovietici entrarono in pista. Loro continuarono a guardarsi vicendevolmente. Nessuno battè ciglio.
E fu il “Rockets’ red glare” dell’inno USA (il bagliore rosso dei razzi) a far sciogliere il ghiaccio come i giornalisti avevano ironicamente sperato le sere precedenti, a sciogliere le ultime ansie di quegli improbabili astronauti della folla, ingoiati dal vociare degli 8.000 sugli spalti dell’Olympic Fieldhouse.
La cronaca della partita la conosciamo tutti. Il team USA andò in svantaggio per tre volte, e per tre volte rimontò fino al sorpasso decisivo firmato da Mike, lo stesso ragazzo che aveva cominciato a giocare a Hockey quasi per scherzo, prendendo in prestito i pattini della sorella. Era la vittoria dei muscoli, dell’energia che sciolse il ghiaccio. Era la vittoria delle gambe, degli agnelli che scacciarono i lupi. Gli Stati Uniti avevano battuto l’Unione Sovietica giocando da operai.
In quei 10 secondi finali, nei quali i disperati sovietici assediarono la porta statunitense alla ricerca del pareggio, persino le telecronache solenni che provenivano dai televisori deragliarono dai loro binari consueti. Perché arriva un momento speciale in tutti gli sport, dove le gambe non servono più. Si staccano dal nostro controllo, diventano incontrollabili, si irrigidiscono. Quando un pugile è ferito, quando un giocatore è esausto. Allora si aspetta solo di cadere, in apnea. La tecnica e la tattica vengono buttate dalla finestra, rimangono solo improvvisazione e cuore. La gente da casa guarda il cronometro per vedere quanto un atleta possa essere uomo, per quanto ancora possa resistere. E allora, di importante c’è solo il tempo, i secondi:
11 secondi, vi rimangono ancora 10 secondi! Morrow passa a Silk. 5 secondi ancora da giocare. Ci credete ai miracoli? SI!
Un countdown spaziale in rampa di lancio, che accompagnò le ultime fatiche di quelle stelle improvvisate sulla pista di ghiaccio; stelle che dopo quella sera non avrebbero avuto più, nella maggior parte dei casi, un’opportunità per giocare da professionisti, un’altra occasione per brillare; giocatori che riuscirono a bruciare tutto il loro talento in una sola sera, esaurendo la propria luce.

Circa 10 anni dopo: la caduta del Muro

Il 9 novembre 1989 cadde il Muro di Berlino, cadde la superpotenza sovietica. L’umanità tornò ad alzare lo sguardo sotto lo stesso cielo. I giocatori russi riuscirono finalmente a entrare nella NHL (lega principale di hockey su ghiaccio nordamericana). La bandiera sovietica venne ammainata ufficialmente due anni dopo. Ma i fan dello sport sanno riconoscere certe stelle: 10 anni prima, Lake Placid, e 10 anni dopo. Sanno ancora individuare tra i pianeti e il tempo la lunga “Cintura della Guerra fredda” che li ha sovrastati per così tanto tempo. Sanno ricordare i vecchi tempi, in cui la guerra si decideva su una pista di ghiaccio.
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