Olimpiadi Judo Anton Geesink, il gigante del judo che fece piangere una nazione

Le Grandi Storie Olimpiche - Un silenzio di lacrime invade il Budokan: il judo ha appena fatto il suo debutto olimpico ed è già cambiato per sempre. Ai Giochi di Tokyo 1964, Anton Geesink vince la prima medaglia d’oro violando il tempio dei maestri giapponesi. Dal cuore del bushidō, questa è la storia di un gigante olandese destinato a diventare leggenda vivente.

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Anton Geesink, il gigante del judo che fece piangere una nazione

La carpa Koi è un simbolo fondante della cultura giapponese. La sua forza è magica, la sua energia perpetua. La carpa Koi risale le correnti contro il peso immane dell’acqua, nuota senza paura contro ogni avversità. Proviene da lontano, è una leggenda cinese. Ha nuotato nel Fiume Giallo e scalato le rapide della Grande Cascata per varcare la Porta del Drago con un salto prodigioso. Come una lingua di fuoco, la carpa Koi s’è trasformata in dragone specchiandosi nel suo coraggio. Ha superato i suoi limiti solo grazie alla forza di volontà.

Capitolo 1 – Il giovane Dutchman: un’epifania

«Grazie Anton». Noël van 't End non è credente nel senso religioso del termine, ma quel giorno, lo scorso 29 agosto, sa che lo spirito di Geesink è tornato sul tatami di Tokyo ’64. Fin dall’alba verso la sua ultima battaglia mondiale, il judoka olandese si sente abitato dalla presenza del suo precursore: il grande Dutchman.
La Budokan Hall di Toyko è il tempio del judo, eretto per i Giochi Olimpici del 1964 nel cuore del Giappone. Un cuore ottagonale avvolto di ciliegi in fiore e cinque cerchi di arti marziali: «Quando sono entrato per la prima volta nel Budokan - ricorda van 't End - c'erano poster di Anton Geesink dappertutto. Potevo quasi avvertire la sua presenza, sentire il suo spirito vibrarmi intorno. Così, prima di ogni combattimento, gli ho chiesto di aiutarmi».
Fu un giorno immenso che vide infine Noël Van 't End salire sul tatami, contro un judoka giapponese, per vincere il titolo mondiale: «Ho chiuso gli occhi e chiesto ad Anton di condurmi ancora una volta nel suo luogo per vincere la medaglia d’oro». Quel giorno, van 't End ha battuto Shoichiro Mukai e vinto gli ultimi Mondiali di judo, protetto dallo spirito di Geesink: «Anton è stato qui con me e con me ha combattuto per tutto il tempo».
Questa volta, mentre van 't End bacia la sua medaglia d’oro, il Giappone non versa una lacrima. Certo che la sconfitta di Mukai sul tatami di casa è stata una delusione, ma non un dramma nazionale. Non come quella volta che, alle Olimpiadi di Tokyo ‘64, un uomo maestoso venuto da Utrecht mise in ginocchio i maestri delle arti marziali.
Ciò che accadde il 23 ottobre 1964 è scritto fra le grandi pagine olimpiche che varcano il tempo. Fu una sera d’autunno che Anton Geesink incontrò il suo destino di icona dello sport mondiale e il Giappone gli divenne devoto. The Dutchman violò il tempio, ma per farlo risalì le correnti come la carpa Koi che riceve il dono dell’immortalità.

Capitolo 2 – La grandeur del judo

I camminatori di Utrecht s’imbattono spesso in un busto erculeo. È una statua di bronzo forgiata nel distretto operaio di Ondiep dove Geesink è nato e ha sempre vissuto, fondando una scuola di judo al suo ritorno da Tokyo. Perché in fondo è proprio lì, non lontano dal cantiere edile dove faceva il garzone, che avviene la sua epifania:
Avevo quattordici anni e amavo l’attività fisica, giocavo a calcio, nuotavo, correvo, poi un giorno mi sono imbattuto per caso nella dimostrazione di un judoka francese… E subito ho capito esser ciò che più desideravo fare
Questo è l'inizio di un rapporto molto speciale con la Francia perché a Parigi, a soli quattro anni dai suoi primi passi sul tatami, Geesink vince il primo dei suoi 21 titoli europei. E ancora a Parigi diventa campione del mondo nel 1961, scuotendo per la prima volta i fondamenti del judo. Per lui la Francia è una terra di grandeur sportiva, ma prima ancora la sua palestra di formazione. Il giovane Anton trascorre infatti tutte le estati a Beauvallon, nella baia di Saint-Tropez, perché è al Camp du Golf Blue che si raduna la crème del judo europeo e Geesink è ospite di Henri Courtine e Bernard Pariset che ai Mondiali di Tokyo, sul finire degli anni Cinquanta, hanno vinto due medaglie di bronzo alle spalle dei maestri.
Ed Eric, il figlio di Bernard, ricorda bene quelle estati di nouvelle vague sotto il sole della Côte d'Azur: «Avevo solo quattro anni quando vidi quell’uomo alto come una montagna. Una montagna di muscoli… Con il volto duro e la voce profonda, ma così spiacente di non saper parlar bene il francese. Era molto gentile con me e tutti lo trovavano assai affascinante». Era un ragazzo olandese che sarebbe diventato The Dutchman.
Henri Courtine lo osserva da molto vicino ed è il primo ad accorgersi della sua estrema dedizione: «Si dice che Anton Geesink abbia vinto grazie al suo fisico straordinario ma non c’è niente di più sbagliato. Il segreto dei veri atleti è mettere la propria forza al servizio della disciplina e lui in questo è stato straordinario. Giunto al campo estivo, passava un giorno a letto e poi non si fermava più: ogni giorno alle 6 del mattino si tuffava nella baia e nuotava fino ai boschi del Maures, caricandosi tronchi d’albero sulla schiena. E poi… Poi sì: iniziava per tutti l’allenamento di judo!».
Courtine e Pariset, che Geesink descrive come «I miei avversari più forti fuori dal Giappone» sono di qualche anno più grandi e per qualche tempo riescono a competere con quel giovane olandese, poi capiscono di non avere più speranze sul tatami: «All’inizio è stato un avversario alla mia portata - ricorda Courtine - ma ai Campionati europei di Barcellona abbiamo avuto un retrogusto amaro: noi non l’avremmo più battuto, lui sarebbe diventato una pietra miliare del judo. Ecco perché il mio miglior ricordo resterà quella volta in cui sono riuscito a schienarlo!».
Dopo il 1955 nessuno avrebbe più battuto Anton Geesink a livello europeo, ma i suoi orizzonti guardano verso il Sol Levante. Un anno dopo infatti, Tokyo organizza la prima edizione dei Mondiali di judo senza categorie di peso e nello stupore generale Geesink raggiunge la semifinale, dove perde contro il campione giapponese Shokichi Natsui, prima di battere Courtine per la medaglia di bronzo. Il giovane olandese ha solo ventidue anni e la sua grande ora non è ancora arrivata.
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Capitolo 3 – Haku Michigami maestro di vita

Il terzo posto dei Mondiali di Tokyo non è il premio più importante di quei giorni, perché ad assistere ai combattimenti c’è un uomo che gli cambierà la vita. È il venerando maestro di arti marziali Haku Michigami che sceglie il suo diamante grezzo per raffinare un nuovo modello di judoka. Più forte e moderno, ma sempre fedele alla linea del Kōdōkan.
Anton pesa ancora ottanta chili e Michigami dice che il giovane «Sembra un testone appoggiato su una bottiglia di birra». Ma dentro di lui, vedendolo combattere contro i suoi allievi giapponesi, sa che può diventare un titano delle arti marziali: «Ciò che più mi ha colpito è stata la sua passione. Non c’era niente che gli interessasse più del judo: era serio, diligente e operoso. Se gli ordinavi di correre, andava due volte più lontano. Se non lo fermavi in allenamento, specie nell’esercizio dell'Uchi Komi, avrebbe continuato per tutta la notte. E così presto, con questi duri regimi d’addestramento, quel collo magro e il suo corpo snello diventarono dei muscoli di marmo».
Parigi è sempre nel destino di Geesink. Prima del terremoto di Tokyo, il primo brivido sismico è nel 1961 ai Mondiali del Palais de Coubertin. Sul tatami dedicato al fondatore dei Giochi moderni, Geesink è hors catégorie per tutti i suoi avversari compresi i giapponesi Kaminaga, Koga e il finalista Koji Sone imbattuto dal 58’. La strage dei maestri è un chiaro avvertimento: quando tre anni dopo il judo sarà per la prima volta disciplina olimpica, il Giappone dovrà stringersi contro un gigante venuto da lontano.
La differenza tra Geesink e i maestri giapponesi è evidente: loro eccellono ancora nella tecnica di combattimento, lui sta trasformando l’arte del tatami in un atto di forza. Anton è pienamente consapevole della sua pienezza atletica, ma il dato fisico non gli basta: «Il mio judo non è ancora abbastanza maturo, specie se si tratta della mia tecnica di base. Dovrò lavorare il doppio per vincere le Olimpiadi».
Geesink si ritira allora in Giappone alla Tenri Daigaku, la più prestigiosa università del judo, per perfezionare il Ne-Waza e sono mesi di studi intensissimi in cui lavora unicamente sulla tecnica di base. Anton sta inoltre fuggendo da Utrecht dove, dopo i Mondiali di Parigi, diventa quella celebrità che in fondo non vuole ancora essere.
L’Olanda gli offre sponsor e perfino una casa più grande a spese governative, lui guarda solo verso Oriente: «Era spaventato dal nuovo atteggiamento riverente del suo entourage - dice il maestro Haku Michigami - e più di tutto lo atterriva l’eccessiva attenzione del pubblico. Ciò dice molto delle sue qualità umane e sportive».
Haku Michigami è del resto alla ricerca di una seconda via al judo: «Non ho scelto di addestrare Geesink per fargli vincere titoli. Non ho traversato un oceano a caccia di medaglie. Ho scelto Anton ispirato dal desiderio d’insegnare in Europa lo spirito dell'autentico bushidō: l’arte marziale degli antichi guerrieri giapponesi».
Così Geesink si prepara all’impresa olimpica: conquistare il tempio di Tokyo per deporre il regno dei maestri giapponesi, rispettando i dogmi spirituali del suo mentore (giapponese). Una doppia sfida… Anzi tripla, estrema e seducente.

Capitolo 4 – La prima Olimpiade del judo

Nel 1964 Geesink avrà trent’anni e sa perfettamente che la prima Olimpiade del judo sarà per lui anche l’ultima. A dire il vero, Anton avrebbe voluto partecipare ai Giochi di Roma 1960 per combattere nella lotta greco-romana, di cui è stato per tre volte Campione nazionale, ma il CIO non consente a un istruttore di judo di gareggiare in un’altra disciplina: sarebbe stato il Budokan il suo unico palcoscenico olimpico.
Diversamente dai Mondiali di Parigi e tutte le rassegne europee fin qui disputate, il judo entra nel programma olimpico di Tokyo 1964 diviso in quattro categorie di peso: leggeri (fino a 68 chilogrammi), medi (-80 kg), massimi (+80 kg) e Open, che dev’essere l’elite dell’arte marziale. Il Giappone può vincere le prime tre categorie, ma poi deve atterrare il Campione del mondo Anton Geesink… E un fallimento non è più pensabile.
Lo scrittore e giornalista olandese Ian Buruma aveva tredici anni al momento del trionfo del suo illustre connazionale a Toyko. Esperto di cultura giapponese, il libro di Buruma The Missionary and The Libertine è una raccolta di riflessioni d’incontro fra Oriente e Occidente e include il saggio scritto per il New York Times dedicato al judo: «Negli anni Sessanta la nobile arte marziale non fu solo lo sport della nazione, ma significò il valore spirituale, il senso della disciplina e la cura infinitamente sottile della vita giapponese. È l’arte dello spirito orientale contro la società muscolare del mondo capitalista: un combattimento culturale che alle Olimpiadi di Tokyo ’64 il Giappone temette di perdere».
Geesink ispira un senso di paura e il giorno prima della finale Open, il 22 ottobre 1964, l’imperatore giapponese Hirohito si reca al Budokan elogiando il successo di Isao Inokuma, che vince per la categoria pesi massimi il terzo oro giapponese. Erano bastati un minuto di combattimento a Takehide Nakatani per respingere lo svizzero Eric Hanni nei pesi leggeri e poco più tempo a Isao Okano, in finale dei mediomassimi, con il tedesco Wolfgang Hofmann. Fatica invece oltremodo Inokuma contro il canadese Doug Rogers e dovrà essere il campione nazionale Akio Kaminaga, senza il cospetto dell’imperatore Hirohito, ad affermare il Giappone sull’ultimo nemico. Il più forte, il più temuto: Anton Geesink.
La finale è di fatto una rivincita perché, dei nove pretendenti Open, Kaminaga e Geesink s’affrontano al debutto del torneo e vince subito l’olandese per punteggio arbitrale. Sulle spalle di Kaminaga gravano le speranze di un popolo contro la costruzione di un nemico sempre più lugubre: dopo Geesink, anche il judoka giapponese batte l’inglese Petherbridge e accede alla fase finale, ma non prima di un turno di spareggio contro il filippino Ong protagonista, suo malgrado, di due primati precoci. Opposto a due avversari troppo forti, Ong viene sconfitto per Uchimata (falciata colpendo l’interno della coscia) dall’irlandese Ryan dopo appena 6 secondi: un record subito battuto da Kaminaga, che lo batte in 4” per Taiotoshi (caduta del corpo) e nel tripudio generale del Budokan, supera anche Ryan per somma punti.
Kaminaga e Geesink si fanno strada verso una finale annunciata. L’australiano Ted Boronovskis regge per appena 12 secondi il confronto con Geesink, che accede al grande epilogo per Sasae-tsurikomi-ashi (bloccaggio del piede con il sollevamento del corpo). Il tedesco Klaus Glahn oppone maggiore resistenza, ma Kaminaga vince per Taiotoshi dopo 4 minuti d’incontro. C’è solo un aspetto che preoccupa Anton ed è l’assenza sugli spalti del maestro Michigami, che segue in un’altra sala l’okuden degli studenti giapponesi: «Mi ha mandato a chiamare facendomi dire di essere preoccupato, così l’ho raggiunto per la finale».

Capitolo 5 – Il sacrificio di Kaminaga

La prima finale olimpica del judo è l’evento essenziale dei Giochi di Tokyo ’64 per la nazione ospitante. La Budokan Hall è gremita da un pubblico di 15.176 persone sospese tra la febbrile speranza di assistere al trionfo di Kaminaga, che così avrebbe sublimato l’opera collettiva dei judoka giapponesi, e la paura di cadere in pugno a Geesink. Nella certezza di vivere in un momento comunque storico.
Akio Kaminaga nasconde al paese un infortunio ai legamenti del ginocchio dai primi giorni dei Giochi e il 23 ottobre 1964 sta salendo per l’ultima volta sul tatami olimpico. Kaminaga ha compiuto la sua prima missione: contendere a Geesink la finale animato da un sentimento di rivalsa, ma volgendo il saluto in piedi riscopre la statura del gigante: due metri di possanza muscolare contro i suoi arti svelti.
È una sfida archetipica di tecnica e potenza nel giorno più importante del judo moderno. Passano i minuti sul tatami e tutti sanno che The Dutchman è una montagna troppo alta da scalare, Kaminaga però incarna la natura del Sol Levante ed è disposto al sacrificio: non cede mai agli sguardi bassi di Geesink, che a un minuto dal termine dell’incontro rigetta l’idea di un giudizio arbitrale in mezzo al Budokan, dal centro del mondo.
Sul volto duro di Geesink traspare una breve incertezza. Ha le mani salde sul judogi di Kaminaga e deve prendere una decisione contro un rivale che resiste senza slanci. Il nipponico non ha mai osservato gli occhi di Geesink, è troppo rischioso guardare lassù, ma avverte una breve fatica sbuffare dalla bocca del gigante. Ed è proprio l’impazienza di chi vuole vincere ad avvelenare Kaminaga, che risponde speculare a una mossa Taiotoshi invece di reggere l’urto, commettendo l’errore fatale. Geesink sbilancia Kaminaga e lo rovescia sul tatami con un controllo Kesagatame (a fascia trasversale). Per diventare campione olimpico di judo violando il tempio di Tokyo, deve mantenere la presa per mezzo minuto.
Mezzo minuto è un tempo breve per Kaminaga sotto la morsa del gigante. Cerca di districarsi ma gli manca la forza, fa leva sulle gambe ma è ormai travolto da una valanga scesa dalla vetta del monte bianco, una rapida sotto cui far brillare l’ultima resistenza. È una caterva di centoventi chili che sta gravando sul peso sempre più lieve di Kaminaga. Non c’è agonia sotto la massa batava, ma solo l’ultima fibra di un guerriero che sa d’aver perso contro il più forte.
Il silenzio che cade sul Budokan lascerà un segno indelebile. Il pubblico giapponese s’alza in piedi per applaudire Geesink prima di piangere sotto il peso del gigante. Ci sono schermi per le strade di Tokyo e in tutte le maggiori piazze del paese, molti hanno visto gli incontri dalle vetrine dei negozi. Il Giappone prova un senso di vergogna collettiva unitamente grato al sacrificio di Kaminaga. Nell’anno della sua nuova dimensione olimpica, dal suo centro di gravità, il judo è cambiato per sempre.

Capitolo 6 – L’eclissi del Sol Levante

Per tutto il suo periodo di okuden presso la scuola giapponese, Geesink ha fatto del Ne-waza (tecnica di combattimento a terra) una vera ossessione e oggi, il 23 ottobre 1964, ha vinto la prima medaglia d’oro rivoltando il cuore delle arti marziali: «Qui a Tokyo – dalle cronache di Baruma - The Dutchman ha messo in ginocchio il Giappone di fronte al mondo. Come se la Grande dea del sole fosse stata profanata in pubblico da una banda di demoni alieni».
Non manca la testimonianza della nuotatrice olandese Ada Kok, che a diciassette anni ha appena vinto la medaglia d’argento nei 100 farfalla e in staffetta mista dietro alle invincibili americane di Sharon Stouder: «Ero giovane all’epoca e non capii fino in fondo la portata dell’evento. Le lacrime delle persone mute intorno a me mi sembrarono esagerate, eppure un’eclissi solare aveva appena oscurato il Giappone».
Il silenzio aveva invaso la sala. Un silenzio di lacrime dall’impatto enorme perché, per la prima volta dall’inizio delle Olimpiadi che ora volgono al termine, il paese sta mostrando i suoi sentimenti. Perché il Giappone non è un popolo privo di emozioni, ma solo nei momenti più puri svela il Sutra del Cuore e per lo stesso Geesink, che ammira a fondo lo spirito fondativo della sua arte marziale, è il momento più difficile da gestire.
Il suo successo aveva infatti rispettato una nuova e semplice regola logica. Era stato un atto di forza inesorabile contro un rivale che ne aveva esaltato l’estro tecnico e l’assoluta potenza. Geesink s’è imposto con la sua perfetta sintesi di abilità militare evoluta dai precetti della scuola nativa. Ma è adesso, tra le lacrime di un paese sconfitto, che non può disonorare il nemico da cui ha imparato tutto.
Anton Geesink ha appena compiuto la sua più grande impresa e già rivela quella magnifica dignità che solo i più grandi atleti scorgono nella purezza della vittoria. Come quando vinse i Mondiali di Parigi, il suo entourage scatta in piedi per invadere il tatami ma anche questa volta il campione olandese, allentando la presa su Kaminaga, li ferma con un gesto perentorio.
Un segno assoluto che più dell’oro olimpico inorgoglisce il suo maestro Michigami: «Alcuni membri del suo staff non conoscevano le osservanze del judo né le sue regole di condotta, ma Anton li trattenne fuori dal tatami con un cenno fermo, si strinse in vita la cintura riordinando con decoro il suo kimono e s’inchinò al suo avversario, che poi volle complimentarsi vivamente. Ringraziò la Regina d’Olanda e sua figlia Beatrice Principessa Ereditiera, e si congedò dalla sala con dignità. Non potevo aspettarmi diversamente, eppure il suo profondo rispetto del bushidō mi fece capire di aver raggiunto l’obbiettivo. Non una medaglia, ma il compito più puro e fiero di ogni maestro judoka».
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Capitolo 7 – 10° Dan. Il fondatore del judo mondiale

Il judo aveva appena fatto il suo debutto olimpico e già cambiò per sempre. Fece un salto nella modernità e oltre i giochi di Città del Messico (1968) per poi sposare i cinque cerchi della ventesima Olimpiade. Tornò a Monaco 1972 e fu Wim Ruska, un altro apollo olandese, a conquistare due medaglie d’oro perché Geesink fece straordinari proseliti. Tanti che agli Europei di Berlino, a pochi mesi da Tokyo ’64, The Dutchman vinse il suo ventesimo titolo continentale battendo i connazionali Martin Poglajen ed Henny Schaefer.
E pochi giorni dopo la finale di Tokyo, il Sol Levante è già rapito dalla nuova forza del gigante straniero che accetta di aderire a una tournée nipponica: è il “Giappone contro il resto del mondo" nei dojo di Tenri, Fukuoka, Nagoya e Sendai. Accompagnato dall’italiano Bruno Carmeni che con Geesink s’era allenato prima dei Giochi, «Anton non era per niente convinto del tour asiatico, ma aderì per il profondo rispetto che avvertiva per il Giappone… E lui in Giappone fu una specie di dio intoccabile».
Il Giappone non avrebbe mai dimenticato la sua eleganza. Fu il suo bushidō cavalleresco a sedurre un popolo che aveva appena fatto piangere. E lui al Giappone non seppe mai dire di no: nemmeno quando, negli anni Settanta, volle farlo diventare un idolo del wrestling in body aderente, stivaletti bianchi, capelli laccati e chili sovrappeso, acerrimo nemico del campione nipponico Giant Baba. Anni in cui i Deep Purple registrano al Budokan il mitico disco dal vivo Made in Japan: dopo i Beatles che s’esibirono nel ‘66, prima di Bob Dylan che a fine decennio incide At Budokan. E quando settantenne tornò per l’ultima volta a Tokyo celebrando quattro decadi di medaglia d’oro, furono molti bambini i primi a riceverlo inchinandosi.
Oltre al judo, Anton Geesink interpretò un detective nel noir olandese Rififi in Amsterdam (1062) e il giudice Sansone nel film storico I grandi condottieri di Marcello Baldi (1965). Meglio sul tatami, dove si conferma campione del mondo un anno dopo le Olimpiadi, battendo in finale Mitsuo Matsunaga. Un altro giapponese. Nel 1967 The Dutchman completa la sua straordinaria carriera marziale a Roma, vincendo il suo ventunesimo titolo europeo contro il sovietico Anzor Kiknadze e sul podio con il suo erede Wim Ruska.
Per tutto il corso degli anni Ottanta, Geesink si dedica all'insegnamento del judo con una variante del metodo classico giapponese, basato sulla progressione Go-kyo delle 5 classi. Distinguendo e riclassificando le tecniche di combattimento in base alle mosse di gambe e braccia, il primo campione olimpico descrive un’alternativa alla classica distinzione mano-anca-gamba postulata dal Maestro fondatore. Le sue nuove teorie non sono mai state ufficialmente adottate, eppure Geesink è uno dei rarissimi atleti (unico non giapponese) a cui la Federazione Internazionale di judo ha riconosciuto, nel 1997, il massimo grado di cintura nera 10° Dan. Inoltre, è stato membro del comitato olimpico olandese e poi del CIO internazionale: «Il Giappone ha accettato il mio successo ammettendo che, se ai Giochi del ’64 avessero vinto tutte e quattro le medaglie d’oro, il judo non sarebbe mai più stato uno sport olimpico».
La conservazione globale del judo come sport è il più grande trionfo di Anton Geesink, che ha fatto delle arti marziali un’usanza planetaria dal luogo a cui appartengono per elezione culturale. Più di mezzo secolo dopo, a dieci anni dalla sua morte, il connazionale Noël van 't End ha vinto il titolo mondiale sullo stesso tatami in cui The Dutchman è diventato una leggenda vivente. Lo stesso tatami che decreterà il prossimo oro olimpico a Tokyo 2020.
Scitto da Laurent Vergne, tradotto da Fabio Disingrini
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