Olimpiadi, Un salto infinito nel secolo di Bob Beamon

Le Grandi Storie Olimpiche - Ai Giochi Olimpici di Città del Messico nel 1968, Bob Beamon è atterrato ai confini della realtà, frantumando il record del mondo di salto in lungo con un balzo in avanti di 55 centimetri: 8,90 metri di smisurata impresa senza precedenti nella storia dell’atletica. Un salto con cui Beamon è volato nel futuro nell’anno della rivoluzione, due giorni dopo i pugni neri.

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Un salto infinito nel secolo di Bob Beamon

In tempi mutevoli come i nostri d’ingorghi sensazionali e sovresposizioni mediatiche, poche persone varcano il tempo di un frammento di gloria o d’un quarto d’ora di notorietà. Quando il montaggio prevale sulla trama, se la logica è solo del clic, ogni vittoria diventa impresa, ogni atleta è mitizzato, ogni pagina è di storia. Eppure nessuno passa più il taglio del tempo. Non come Bob Beamon, il cui merito sportivo ha discusso la gravità, superando i limiti naturali incontro ai viaggi dell’immaginazione. Pochi mesi prima che Neil Armstrong e Buzz Aldrin camminassero sulla Luna, Beamon è saltato nello spazio: diciannove passi, sei secondi, 8 metri e novanta. Un salto infinito nell’anno che ha inventato il mondo moderno, un’opera breve che avrebbe amato la generazione di un oggi già alla fine del presente. Questa è la storia, ma in versione integrale, di Bob Beamon e del suo veloce volo.
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Gangs of New York

Robert Beamon nasce a South Jamaica, nel Queens di New York, il 29 agosto 1946, mentre gli ultimi soldati americani tornano dai campi liberati e dai mari sanguinosi della Seconda Guerra Mondiale. Nasce senza padre, rinchiuso a Sing Sing, e cresce senza mamma Naomi, morta di tubercolosi solo otto mesi dopo. Suo fratello maggiore Andrew soffre di ritardi mentali, che molti ritengono causa dei pestaggi di un uomo violento e alcolizzato alla moglie incinta.
«Mia mamma era troppo malata per occuparsi di me e mio padre minacciò di uccidermi se lei mi avesse portato a casa», scrive Beamon nella sua autobiografia di fine millennio, The Man Who Could Fly. Così Bob vive con nonna Bessie e intanto cresce anche in altezza, diventando la prima scelta sotto i canestri della città. E malgrado la sua iniziale feroce avversione, l'uomo che crede d’essere il padre naturale si prende cura di lui nei brevi interludi fra le prigioni. Più di trent’anni dopo, un’anziana zia, sorella di sua madre, gli racconterà del vero padre: un medico dell’ospedale in cui Naomi Brown lavorava come infermiera.
Bob è un ragazzo che germoglia in un ambiente ostile con povere premesse e prospettive limitate, ma il basket gli dà sollievo fra i più grandi, offrendogli quel senso di appartenenza che non ha mai avuto in famiglia: «Il basket è una cosa importante a New York - scrive in biografia - Se sei bravo, tutti ti rispettano, perché nessuno vorrebbe rovinare uno “shooting eye” o uno “shooting arm”».
Il basket fa collante sociale, ma lo sport non è ancora tutto nella vita del giovane Bob: «Sono entrato in una banda: ci chiamavano “The Frenchmen" ed eravamo una ventina di ragazzi provenienti dai South Jamaica Housing Projects, tra i dodici e i quindici anni. Combattevamo con pistole fatte a mano, catene e coltelli. Un giorno ho visto uno della mia gang ucciso con un punteruolo in quella che doveva esser solo una rissa di pugni».
Bob beve, fuma e smercia droga nel quartiere, però consapevole di certi rischi: «Crescendo, vedevo ragazzi della mia età morire come mosche per overdose, nelle sparatorie, o scomparire in prigione. E ripetevo a me stesso: “Non voglio essere come loro, non voglio finire come loro”».
Un giorno è arrestato per omicidio, somigliando al presunto assassino poi fermato e riconosciuto colpevole. Suona l’allarme, ma non è ancora il momento di lasciare la strada, anzi, «Ero diventato famoso. I ragazzi mi consideravano una specie di eroe perché fui preso in custodia, ora temuto per esser stato sospettato di omicidio. Insomma, fu un grande affare». Così Bob scala le gerarchie delle piccole bande di quartiere finché colpisce la persona sbagliata, un insegnante a scuola, e da espulso finisce in una delle famigerate “600 Schools”, riformatori affollati di ragazzini indigenti, che gremiscono a NY fino alla fine degli anni Settanta.
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Bob Beamon 1968

Credit Foto Getty Images

La svolta delle Isole Randall

Rimosso dall’habitat della giungla urbana, Bob si rimette in sesto ed è sempre più bravo sotto canestro: «Sai, Beamon - gli dice un suo “professore da 600 dollari” - se sapessi giocare a basket come te, non lo farei di certo in un riformatorio come questo».
Bob fa il suo primo grande salto in avanti e la percezione degli altri cambia come all’improvviso. A scuola si cimenta nell'atletica e al secondo anno debutta in un meeting giovanile, vincendo le gare dei 50, 100 e 200 metri piani oltre al salto in lungo. Nel 1962 non ha ancora sedici anni quando vede il poster delle “Junior Olympics” che si tengono alle Randalls Island, sull'East River tra Manhattan e il Queens: non molto distanti da Harlem, dove ora vive con nonna Bessie. Bob prova una voglia irrefrenabile di cogliere l’attimo, ma non ha le scarpette spikes e di certo non se le può permettere, ma prestategli infine da un compagno di classe, si presenta sulla pista di atletica a pochi minuti dall’inizio delle “Olimpiadi giovanili” newyorkesi.
«Era una giornata limpida, senza una nuvola in cielo - ricorda Beamon - così blu che mi sentivo finalmente libero, senza inibizioni. Quando ho sentito il mio nome, non ho pensato a nulla: m’è bastato un istante di concentrazione per prendere la rincorsa e staccare, battendo il record di salto in lungo delle “Junior Olympics”. E la gente si sarà chiesta chi fossi, da dove venissi, quando mi ritrovai sul podio con la medaglia al collo. Non avrei ancora saputo rispondere: non lo sapevo nemmeno io».
Il giorno dopo, il suo nome appare per la prima volta su un giornale: "Bob Beamon ha saltato 7,34 metri", scrive il locale Daily Mirror, e il suo presunto padre non perde l’occasione, di fretta fino alla South Jamaica High School con la pagina dell’articolo aperta per Larry Ellis, rinomato istruttore di atletica locale. Gli sta chiedendo di prendere Bob nella sua squadra ed Ellis accetta, ma a un’unica condizione: la Jamaica è una buona scuola per tradizione e al primo sgarro, uno come Beamon è fuori.
A sedici anni, Bob è alto un metro e 89 centimetri. Nel 1964 è già il decimo miglior atleta liceale degli Stati Uniti e l’anno dopo sale al secondo posto del ranking nazionale. Corre le 100 yards (91.44 metri) in meno di 10 secondi, passa i 16 metri nel triplo e sfiora i 2 metri nell’alto. Riguardo al salto in lungo, ha ancora notevoli problemi di stacco, eppure a diciott’anni salta 7,64 metri: una misura che alle ultime Olimpiadi di Tokyo 1964 gli sarebbe valsa il quinto posto.
Nel 1967, Beamon supera per la prima volta gli 8 metri nel lungo, ritoccati fino al primato nazionale di 8,21 indoor. Il 20 giugno 1968 a Sacramento, alla vigilia dei Giochi Olimpici di Città del Messico, salta 8,33 a due centimetri dal record del mondo di Ralph Boston e del sovietico Igor' Ter-Ovanesjan. La progressione del «talento grezzo e indisciplinato», come lui stesso vorrà definirsi, è veloce come il vento. Non ugualmente fuori dalla pista di atletica.

Beamon contro i Mormoni

Prima di partire per l’università, Beamon si ritrova costretto da nonna Bessie a sposare Melvina, la giovane donna che dice di portare in grembo suo figlio. Ma quando nove mesi dopo, allenato da Mr Ellis alla North Carolina A&T, Melvina ammette di aver avuto un aborto spontaneo, il giovane Bob non ha più motivi per non andare all’Università di El Paso, ricevuta la famosa borsa di studio dall’élite dell’atletica americana. Raccomandato da Larry Ellis, la nascita del fenomeno Beamon avviene nel 1966 sotto l’egida di coach Wayne Vandenburg, che già alla prima occasione annuncia: «Un giorno, molto presto, Bob farà un salto a cui non potrete credere».
Vandenburg fiuta fin da subito la sua grandezza, ma la vita in Texas non è facile per un black man della giungla newyorkese. All'UTEP ci sono 10mila studenti e fra loro solo 250 sono afroamericani, quasi tutti atleti. E mentre le tensioni razziali sfociano a Detroit nella 12th Street Riot, la coscienza politica di Bob accende una calda estate nel campus di un istituto notevolmente discriminante.
Non era bastato il Civil Rights Act legiferato dal presidente Lyndon Johnson, che dichiarò illegale la segregazione, per cambiare a fondo gli Stati Uniti d’America. Il 4 aprile del 1968, Martin Luther King è assassinato dal suprematista bianco James Earl Ray sulla terrazza del Lorraine Motel di Memphis: un giorno d’infinita tristezza in cui Bob Beamon, figlio di un Paese razzista, decide di chiudere il pugno.
Nel fine settimana di Pasqua, è previsto un meeting di atletica fra la University of Texas at El Paso e la Brigham Young University di Provo, Utah: un ateneo mormone ostile agli studenti afroamericani, che prende il nome da un politico ottocentesco fondatore di Salt Lake City e grande promotore della schiavitù. Uno per cui i neri, discendenti da Caino, non devono votare, sposare donne bianche o farsi preti.
Così l’'8 aprile 1968, il giorno prima del funerale di Luther King, nove membri della squadra di atletica dell’UTEP capitanati da Beamon convocano una riunione straordinaria con l'allenatore Vandenburg, annunciandogli la ferma intenzione di boicottare l'incontro. La loro ragione è molto semplice: il Libro di Mormon predica che “I neri sono la rappresentazione terrena del diavolo” e perciò non vogliono mischiarsi, gareggiando, a un’università razzista: «Persi la mia borsa di studio - ricorda Bob nel suo libro - ma dannazione, non avrei mai rinunciato al mio sogno: non smisi mai di allenarmi per le Olimpiadi».
El Paso e il Messico sono divisi dal confine di un’America sporca di sangue. Due mesi dopo Luther King, Bobby Kennedy viene ucciso a Los Angeles da Sirhan Bishara Sirhan, giordano di origine palestinese, reo confesso fra teorie del complotto. Dieci giorni prima della cerimonia di aperura della XIX Olimpiade moderna, due bengala illuminano il cielo sopra la Piazza delle Tre Culture di Tlatelolco. Come in Vietnam, ai fuochi accesi seguono gli spari e trecento studenti manifestanti e disarmati cadono in 62 minuti di massacro, uccisi dalla polizia messicana coadiuvata dalla CIA.
Senza università, senza squadra e senza risorse, Beamon incontra Ralph Boston, lunghista connazionale, oro olimpico di Roma 1960 e co-detentore del record mondiale. Boston gli fa da mentore insegnandogli lo stacco: perché se non va lungo, è solito regalare venti o trenta centimetri alla pedana.
Non solo Boston. Bob s’allena da anni sulla velocità insieme all’amico John Carlos, duecentista afroamericano e newyorkese come lui, ma è solo quando i tre s’incontrano ai Trials di Sacramento, mentre manca meno di un mese ai Giochi Olimpici, che Carlos schiude il portale del futuro.
Echo Summit è un passo di montagna al confine tra Nevada e California, sulle sponde del Lago Tahoe, a oltre duemila metri di altezza come la capitale messicana. Un bosco di pini inquadra l’anello dei 400 metri di pista, dove gli atleti corrono tempi e saltano misure incredibili. Beamon è il migliore di loro e arriva fino a 8,39 metri, che senza vento sarebbe stato record del mondo. È il giorno in cui Carlos gli dice: «Lo sai come fanno gli aeroplani a volare, Bob? Prendono velocità».
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Bob Beamon durante gli anni universitari

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Saltando sul filo del rasoio

This is the dawning of the Age of Aquarius (Questa è l’alba dell’Età dell’Acquario) e il mondo sta cambiando da un piccolo palcoscenico off-Broadway. Il tennis è appena entrato nell’era Open e il primo giocatore afroamericano trionfa a Flushing Meadows su un campo che oggi porta il suo nome. Sono i giorni di grazia di Arthur Ashe e quelli della protesta di Tommie Smith, che corre i 200 metri olimpici per la prima volta sotto i venti secondi: 19”83.
Il 17 ottobre 1968, giorno delle qualificazioni di salto in lungo, il clima è teso. Gli atleti si svegliano con la notizia dell’espulsione di Smith&Carlos che hanno lasciato il villaggio olimpico alle sei del mattino, nel silenzio buio di Città del Messico dopo averne squartato il cielo con un pugno. Sul podio olimpico, Tommie Smith e John Carlos (terzo) ci sono saliti scalzi a capo chino, alzando il guanto nero del Black Power contro ogni forma di violenza razziale. Tutti e tre i medagliati dei 200 piani, anche l’australiano Peter Norman (secondo), hanno il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights.
Anche Beamon ha versato una quota alla rivoluzione civile, espulso dall’università per aver boicottato i mormoni, e al progresso dell’atletica, fermandosi a 2 centimetri da un record del mondo di salto in lungo, che negli anni Sessanta è già stato migliorato di 19: «Se Beamon riesce a staccare bene in finale - scrive l’audace Robert Parienté su L'Equipe alla vigilia dei Giochi - non solo vincerà la medaglia d’oro, ma potrà saltare oltre gli 8,60 metri. Purché la fortuna sia dalla sua parte».
Ma l’atto puro e radicale dell’amico Carlos abita e agita i suoi pensieri, immischiato come tutti gli atleti afroamericani nei disordini sociali delle Olimpiadi del Sessantotto.
«Sarà una battaglia tra quattro dei sei più grandi lunghisti di tutti i tempi», è la previsione di Dick Schaap su Newsweek, con il britannico Lynn Davies campione olimpico di Tokyo 1964 e i due co-detentori del record mondiale, l’americano Ralph Boston e il russo Igor Ter-Ovanesyan. Saltare di mattina 7 metri e 65, la misura minima per andare in finale, non è un problema per nessuno di loro e Boston ha già stabilito il nuovo primato olimpico di 8,27 metri, mentre Beamon si ritrova con le gambe all’aria, pestando la plastilina sia al primo salto che al secondo.
Due salti nulli e una sola ultima chance, come a Jesse Owens ai Giochi nazisti del ‘36, per non gettarsi al vento incrociando lo sguardo del mentore segreto: «Hey Bob - gli dice - aspetta domani per dare spettacolo, oggi stacca venti o trenta centimetri prima del limite! Con quelle gambe che ti ritrovi, ti basterà per fare otto metri». Beamon ne fa 8,19 e tira un sospiro nell’aria rarefatta. Boston ha salvato un’altra volta The man who would jump longer than anyone else in history: l’uomo che sta per saltare nel futuro.

Genesi di un salto infinito

Ci sono molte vulgate delle ultime ore da uomo qualunque di Bob Beamon. Quella autobiografica mantiene una lirica distanza dalla realtà dei fatti: «Caddi in quello che per un atleta è cardinal sin, peccato mortale», ovvero passò la notte facendo l’amore con Gloria, la sua prima fidanzata newyorkese, dopo aver assestato qualche bicchiere di tequila in una locanda di Città del Messico: «Amico, ero così sciolto, ma se addormentandomi all’alba mi potevo sentire la medaglia d’oro al collo, risvegliandomi pensai di averla appena gettata tra le lenzuola». La mattina del 18 ottobre, i primi riflessi di Bob sono una vertigine di linee curve, fitte di tensione fisica e disagio emotivo, come nel poster olimpico di Lance Wyman altro newyorkese: Mexico 68 e un cielo carico di nuvole nere.
Alle 15:46, Bob si fissa in piedi sulla pista dell’Estadio Olimpico Universitario con la pettorina 254 appiccicata alla schiena da un umidità al 42%. La finale inizia con il giapponese Yamada, nullo, il giamaicano Brooks, nullo, e il tedesco occidentale Baschert, nullo, e sta per scoppiare un immenso temporale. «Ci chiedevamo se saremmo stati in grado di saltare - ricorda il finalista francese Jack Pani a Ouest France, ripensando al suo settimo posto - stava per mettersi a piovere e c'erano terribili raffiche di vento che, soffiando da dietro, avrebbero fatto effetto sulla pista». Il quarto è Bob Beamon che fa cose di puro istinto. Ha doti naturali prodigiose, ma nemmeno il minimo autocontrollo di uno stile inversamente proporzionale al raffinato Boston o ai salti elaborati dell’ucraino Ter-Ovanesyan. È stata la sua vita nella giungla a giustificarne la tecnica artigianale.
Mentre Beamon si mette a 40 metri dalla sabbiera, il pubblico presente e tutti i fotografi sono sulla finale dei 400 metri del connazionale Lee Evans, nuovo strepitoso record del mondo in 43"86. Tutti tranne il londinese Tony Duffy con la sua Nikon e una felpa della squadra britannica regalatagli da Pat Nutting. Lui che - diversamente dall’ex-fidanzata, ostacolista olimpionica - non aveva nemmeno un pass per Città del Messico, ritrovandosi di fronte alla pista d’atterraggio del più grande salto della storia. Nella lente, una delle istantanee più famose del ventesimo secolo.

8,90 metri

Alle 15:49 di Città del Messico, Bob Beamon chiude gli occhi per un istante, fa un bel respiro e parte chinandosi in posizione aerodinamica, come la fusoliera di un concorde verso Mach 2. Conta diciannove passi ben tarati, falcate lunghe a velocità crescente fino ai trentotto chilometri orari: un picco mai più replicato da un saltatore. E all’ultimo passo Beamon stacca, anzi decolla, come un aereo di John Carlos: «Lo sai come fanno a volare, Bob? Prendono velocità».
Beamon sale nell’aria, prendendo quota a 6 piedi dal suolo, 183 centimetri d’elevazione in meno di mezzo secondo. Slancia il bacino con il braccio destro proteso in avanti e il sinistro già pronto all’atterraggio: uno strano razzo sottile che esplode nella sabbia e solo cede fondoschiena alla forza di gravità, difettando l’arrivo di almeno una decina di centimetri. Però il salto è buono. Bandiera bianca. Eccolo, quel salto illogico e assordante di cui uno parlava e a cui nessuno credeva.
Beamon non ha pensato a niente che non fosse la validità del salto per tutto quel tempo sembrato perenne, come sospeso nell’aria prima di atterrare: «L’ho fatto con un tale impatto che sono rimbalzato come un canguro fuori dalla sabbiera - scrive - ma non ero molto contento. “Dannazione, come ho potuto atterrare sul sedere! Avrò perso almeno un piede (trenta centimetri, ndr)! Ecco, ho fatto proprio un bel casino”, mi dissi».
Se l’atterraggio non fu dei migliori, il volo che l’aveva preceduto superò la Twilight Zone oltre ogni immaginazione. «Sono più di 28 piedi (otto metri e mezzo, ndr)!»: seduto su una panchina accanto alla pista, Boston assiste al prodigio di Mexico 68 aprendosi alla replica di Lynn Davies: «No, al primo salto non può essere, non è vero, non è possibile».
Mentre lo dice, Davies si sta sfilando la tuta con una calma eleganza britannica, sapendo di non essere più il campione olimpico. La finale del lungo è già finita: quel salto da otto metri e novanta centimetri non può essere più battuto e nemmeno umanamente avvicinato. Bob Beamon è volato ai confini della realtà.

Mexican Ballet

Bob dondola e danza mentre sventola bandiera bianca e uno dei giudici entra nella vasca per misurare il suo salto. L'anemometro indica due metri di vento entro il limite che Beamon ha appena infranto. Un centimetro in più e il record non sarebbe stato omologato.
Per questi Giochi hanno introdotto un sistema di rilevazione elettronica tramite un dispositivo ottico, che corre su un binario per 8 metri e 60 di pista: troppo pochi per misurare il salto più lungo del mondo. Ci vuole allora un gran daffare di giubbe rosse per procurarsi una bindella, un nastro di misurazione, magari un metro da sarto, e tirar fuori i 30 centimetri mancanti fra gli sguardi sconcertati dei terrestri e il sorriso segreto di Ralph Boston: l’unico ancora a credere a quel che ha visto.
Il tempo s’è fermato. Passano venti minuti di Messico e nuvole, gocce di pioggia e rosso tenebra, prima che gli ufficiali di gara trovino una versione in cifre di quel volo tecnicamente unico e praticamente impossibile. In un concerto laborioso, hanno calcolato il salto manualmente, annunciando 8,90 metri di smisurata impresa. Numeri che gridano, otto nove zero, ma Beamon non conosce il sistema metrico decimale: sa di essere il nuovo primatista mondiale, ma dev’essere ancora Boston a fargli i conti: sono 29 piedi e 2,5 pollici, ovvero 21,75 pollici più di quanto fosse mai stato fatto, «Hai saltato più di ventinove piedi, la finale è finita. Ci hai uccisi tutti».
Ora è Bob che urla e crolla a terra, colto da una crisi cataplettica, ovvero la paralisi cosciente dei muscoli per effetto di uno stress psico-fisico: è tornato mortale, ma «Rispetto a quel salto, sembreremo dei bambini», parla il sovietico Ter-Ovanesyan che proprio un anno dopo, nello stesso stadio, ha perso sempre il suo record mondiale. «Hai distrutto la gara», gli dice il campione olimpico Lynn Davies: una finale giunta appena al quarto salto, ma di fatto già conclusa. «Ha distrutto anche me», gli risponde Bob ancora riverso a terra, colpito da shock emotivo. «Sì, ma io non posso continuare, o faremo tutti la figura degli scemi»: Davies sarà nono.
La pioggia batte forte la pista, il vento soffia sulla sabbia: Bob si concede un secondo inutile salto di 8,04 metri e nel distacco generale, il tedesco dell’Est Klaus Beer vince un’inattesa medaglia d’argento davanti a Boston e Ter-Ovanesyan. Beamon ha migliorato il record mondiale di salto in lungo di 55 centimetri: un’impresa che non ha precedenti nella storia dell’atletica leggera.
Il matematico Donald Potts, quantificando nel 4% il fattore altura e vento a favore, stabilì che, a vento nullo sul livello del mare, Beamon avrebbe saltato 8,56 metri e sarebbe comunque stato record. Il dottor Ernst Jokl, luminare tedesco di neurologia sportiva, allargò invece le braccia, rassegnato alla sconfitta dei numeri e della scienza: secondo i dati in suo possesso, un salto del genere non avrebbe dovuto verificarsi prima del 2052.
«Certi studiosi analizzarono il mio salto secondo le leggi della fisica: velocità, traiettoria, aerodinamica - spiega Beamon nel suo libro… Molti altri basandosi invece sul fatto che fossi nero e favorito dall’avere le gambe più lunghe, le caviglie più magre o la struttura muscolare “tipica dei neri”. Come quando ci dissero che eravamo buoni schiavi: corpi forti senza cervello. Mi chiamavano “sovrumano”, riferendosi a me come a una macchina da salti. E solo grazie a Dio, non proprio tutti la pensarono così».
Prima di salire sul gradino più alto del podio, Beamon avvolge i pantaloni della tuta sopra i polpacci, mostrando i calzini neri per Tommie Smith e John Carlos. Premiato con la medaglia d’oro, anche Bob chiude il pugno e lo alza sotto un cielo profondo. L’uomo che ha fermato il tempo si batte per i diritti afroamericani. L’uomo che ha fermato il tempo e già sa di non poter più tornare nell’infinito.

Mexico 68: un olimpo di primati

Messico 1968 fu un'Olimpiade eccezionale. Caddero 14 record mondiali e 12 primati olimpici in 36 eventi di atletica leggera. Nel salto triplo, il record fu addirittura migliorato cinque volte in ventiquattr’ore: dai 17,10 metri di Giuseppe Gentile in qualificazione, ai 17,39 del sovietico Viktor Sanejev medaglia d’oro. Lo statunitense Jim Hines fu invece il primo a correre i 100 metri piani in 9"95 sotto la barriera dei 10 secondi.
Furono sprinter e saltatori eroici dove l’ossigeno manca al 20% e satura il 7% in meno d’emoglobina, mentre il battito cardiaco accelera dannosamente sulla lunga distanza. La nigeriana Olajiunmoke Bodunrin finisce in ospedale dopo la batteria dei 400 metri. La nuotatrice quattordicenne Karen Moras ha una crisi respiratoria in acqua, prontamente ricoverata. L’americano Mike Burton, oro nei 400 e 1500 stile libero, sviene in ascensore. L’australiano Ron Clarke, tra i favoriti dei 10mila metri, si pianta a tre giri dalla fine, ultimo al traguardo in condizioni precarie.
Furono sprinter e saltatori leggendari in cima a un olimpo di 2.200 metri sul livello del mare, dove si riduce la pressione dell'aria e le piste da corsa furono per la prima volta in tartan, carezzate dai velocisti sul velluto. Dove Bob Beamon ha spiccato il volo nel vuoto d’aria di una turbolenza temporale: «Non c'è risposta al mio salto - afferma al New York Times nel 1984. Tutto è stato semplicemente perfetto: la pista, il mio decollo a sei piedi d’altezza quando non ero mai andato oltre i cinque, quell’istante di concentrazione emotiva prima di partire. Ho fermato il tempo per volare».

Un’eterna impronta nella sabbia

«Ho raggiunto l'apice appena compiuti ventidue anni. Studente al college, ero un ragazzo già sposato che voleva essere il migliore, ma non potevo resistere lassù oltre la fine degli anni Sessanta: anni sconvolgenti per noi neri fra violente lotte razziali e nuove droghe. Anni in cui mi sono perso con una medaglia d’oro al collo».
Bob Beamon è alto 1,91 metri e pesa 68 chili. Rivoltato sul mondo, è stato una stella locale di basket sui campetti del Queens di New York e dice da sempre che se avesse amato i salti quanto i canestri, avrebbe fatto 35 piedi: 10,67 metri. Di fatto, da atleta, è volato nello spazio.
E tornato sulla terra fra la polvere di stelle, viene selezionato dai Phoenix Suns al Draft NBA del 1969. L’anno in cui Lew Alcindor, presto e per sempre Kareem Abdul-Jabbar, è la prima scelta dei Milwaukee Bucks. L’anno in cui Neil Armstrong posa il piede sulla Luna alle 02:56:15 del 21 luglio.
Quindici anni dopo, ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984, Carl Lewis vince la prima delle sue 4 medaglie d’oro nel salto in lungo, fermandosi a 34 centimetri dal record del mondo. «Né oggi né mai», commenta Bob a LA, ma il 30 agosto 1991, ventitré anni dopo quel salto infinito, il realismo magico scorre sulla pista dei Mondiali di Tokyo. Lewis, che ha già siglato il nuovo record del mondo dei 100 metri in 9”86, salta 8,91 ventoso: un centimetro oltre la misura Beamon. Dopo di lui Mike Powell agita le braccia e inizia la rincorsa, corre veloce e stacca da terra, atterrando in un’altra dimensione: quella di un nuovo record del mondo inviolato a trent’anni di distanza, scolpito a 8,95 metri.
Un’altra eterna impronta nella sabbia. Come quella di Bob Beamon in un Sessantotto fitto di lotte e proteste, assassinii e bengala dal cielo per stroncare un tempo da cui volò via lontano, immaginando uno smisurato futuro.
Scitto da Maxime Dupuis, tradotto da Fabio Disingrini
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