It’s ok not to be ok: la mental health, tra sensazionalismo e società

Jacopo Pozzi

Aggiornato 24/05/2024 alle 19:42 GMT+2

OLIMPIADI - Raccontare la storia di un atleta non vuol dire parlare di salute mentale, vuol dire raccontare una vita. Se vogliamo che alle Olimpiadi di Parigi agli atleti sia permesso esprimersi in questo senso, e se vogliamo che, proprio durante i Giochi, un eventuale Simone Biles-bis venga trattato con maggior tatto, dobbiamo avere il coraggio di parlarne per davvero, in maniera metodica.

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Spoiler alert: non a tutti piacerà questo articolo. Non a tutti farà piacere leggere di questi argomenti, quantomeno non in questi termini. Non a tutti sembrerà giusto, delicato, corretto, parlare così di questi temi, senza paura di affrontarne le conseguenze, le derive, le complicazioni. Soprattutto senza paura di affrontarne i bagliori, perché lo sport, prima di ogni cosa, è un riflesso: lo specchio ipertrofico, rumoroso, seducente, energetico e sotto steroidi (non in senso letterale, non di solito) della nostra società. Che lo sport sia una metafora della vita lo sappiamo tutti. Da sempre. Perché non esiste insegnante, maestro, tecnico, formatore o parroco di oratorio che non lo dica, almeno una volta al giorno. E anche perché è vero. È una sacrosanta verità, e se ci sembra una verità stropicciata è perché siamo stropicciati noi, oppure è stropicciato lo sport. Se gli atleti ci sembrano arrivisti, vanesi, superficiali è perché la nostra società è arrivista, vanesia e superficiale. E se, dall’altro lato della bilancia, gli atleti ci sembrano invece iper performanti, sempre più specializzati e strutturati nelle loro scelte è perché lo è anche la nostra società, così orientata al profitto, all’efficienza, al risultato. O almeno questo è quello che richiede per eccellere al suo interno, in ogni campo, dimenticandosi, almeno nei titoli di testa, di tutti coloro che, in cima, non ci potranno mai arrivare. E che sono la grande maggioranza del totale. Con la sua capacità di essere la cosa più essenziale tra quelle non importanti, il mondo dello sport anticipa le tendenze sociali, specie in Occidente, offrendo uno sguardo su ciò che accadrà, probabilmente a breve, anche negli uffici e nelle scuole. Questo è il vero valore dell’essere dei modelli di comportamento, degli esempi a cui tutti, direttamente o indirettamente, guardano. E se le cose stanno davvero così, la nostra società allora è prossima ad affrontare una grande crisi di significato, quella della mental health, per cui lo sport sta facendo da apripista.
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Kobe Bryant

Credit Foto AFP

Salto indietro di quasi tre decenni, più o meno all’epoca in cui la generazione degli adulti consapevoli di oggi, quella compresa tra i 35 e i 45 anni, iniziava a guardare e a praticare lo sport. Prendiamo un anno in particolare. Anzi, prendiamo una singola stagione, l’estate del 1996. Il punto d’origine è del tutto arbitrario, sia chiaro, e se ne potrebbero trovare molti di altrettanto interessanti, ma per qualche ragione strana, forse profonda, questa coppia è rimasta dentro di me: Kobe Bryant e Graeme Obree. Campione e agonista, il primo, poi leggenda cristallizzata da una morte tragica. Campione e creativo, il secondo, poi caduto nel dimenticatoio del grande pubblico, come una specie di curiosità statistica. Nell’estate del 1996 stavano entrambi vivendo momenti fondamentali della propria carriera e della propria esistenza. Per motivi assai diversi tra loro. Lo scozzese Obree, classe 1965, era un ciclista su strada ed un pistard, ormai trentenne, alle prese (da sempre) con gli alti e bassi di un talento bizzoso, geniale ma di difficile gestione, che si apprestava a vivere dei deludenti Giochi Olimpici di Atlanta 1996, l’ultimo atto di una carriera unica nel suo genere. Dall’altra parte dell’Oceano, ma filosoficamente già vicino ai Cinque Cerchi, un giovane cestista, figlio di Joe Jellybean Bryant, prendeva la fortunata decisione di saltare il college e di rendersi eleggibile al draft NBA del 1996. Una giostra che lo avrebbe fatto approdare ai Los Angeles Lakers, dove ha cominciato subito a costruire il mito di un atleta feroce e vincente, quello dei cinque titoli e dei due ori Olimpici, a Londra e Pechino, e quello della Mamba Mentality.
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La coppia può sembrare mal assortita e il salto può essere vertiginoso, lo so, ma il trattamento che la stampa e la società hanno riservato a questi due uomini e alle loro incertezze resta la fotografia più efficace di questo processo creativo: il punto di partenza necessario per capire cosa stia succedendo oggi, nello sport, quando parliamo di salute mentale. Vite distanti, distantissime, le loro. Con Kobe, amatissimo ambassador dei Giochi e dei loro valori, che ha sempre fatto di tutto per proiettare l’immagine del professionista per eccellenza, anzi del professionista per esclusione, quello che resta ad allenarsi quando tutti gli altri sono andati a dormire; e con Graeme, un amatore, che scappava dal mondo dei pro’ perché spaventato dal doping e dalla competizione, e che si costruiva da solo le sue biciclette, spesso usando pezzi di elettrodomestici da rottamare. Il suo mezzo più iconico, la Old Faithful, oggi esposta tra le innovazioni scientifiche del National Museum of Scotland, era stata assemblata nel corso di anni, dopo esperimenti e prove fallimentari, utilizzando anche elementi di una vecchia lavatrice scassata. Aveva una forma strana, senza la barra orizzontale della canna, un po’ come le moderne biciclette pieghevoli che si usano in città per andare al lavoro, e uno strettissimo manubrio sottile, che consentiva al ciclista di restare rannicchiato, proprio come uno sciatore che scende a “uovo”.
Un prodigio della tecnica e dell’aerodinamica, che permise a questo sconosciuto scozzese di strappare a Francesco Moser il record dell’ora, record che poi perse e riguadagnò ancora, e di finire tra i convocati della nazionale di sua Maestà la Regina, non solo per Atlanta, ma anche per due Campionati Mondiali. Vinse l’oro nell’inseguimento, nel 1993, a Hamar, in Norvegia. Poi l’UCI bandì la sua amata Old Faithful. Lui inventò allora un nuovo modo di stare in sella, a braccia completamente distese, vinse nuovamente i Mondiali, nel 1995 a Bogotà, e l’UCI bandì pure quello. Così sparì dai radar, vittima di una sorta di damnatio memoriae da parte di un ambiente che non solo non l’aveva mai amato, ma non l’aveva neppure provato a capire.
Kobe Bryant sulla saluta mentale
Graeme, che oggi di anni ne ha quasi 60, convive da tutta la vita con un disturbo bipolare e con la depressione; ha tentato per tre volte il suicidio, un paio di queste in gioventù, con il gas, e un’altra anni dopo il ritiro, cercando di impiccarsi. Lo hanno trovato grazie al cavallo di famiglia, che se ne stava lì, fermo al garrese, a fissare il corpo. Ha perso il fratello per un tragico incidente nel 1994, e ha trovato il coraggio di fare coming out soltanto nel 2011, ammettendo di aver sempre avuto paura di essere giudicato, se lo avesse fatto prima. Un’esistenza tormentata, asimmetrica, piena di aritmie emotive, che la ha trasformato in una specie di giocattolo mediatico: prima sconosciuto oggetto del mistero, poi scienziato pazzo, poi pecora nera, e infine un debole. Un debole che non ha mai accettato le sfide richieste per fare qualcosa del proprio talento. Soltanto negli anni 2000, quando il clima intorno al tema della mental health iniziava a cambiare, gli è stata restituita una sorta di pienezza narrativa: il diritto di riconoscere se stesso, per quello che è stato per quello che è.
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Kobe Bryant e l'esordio olimpico a Pechino 2008 in USA-Cina

Anni 2000 che erano il territorio di caccia di Kobe, per qualche stagione l’atleta più amato del Pianeta, in un processo di accettazione reciproca con il pubblico che non è sempre stato lineare. Dopo i primi successi al fianco di Shaquille O’Neal e Phil Jackson, la sua personalità abrasiva ha iniziato a scavare un fosso intorno a lui, lasciandolo sempre più nudo in cima alla torre: la vera solitudine dei numeri primi. Intere stagioni passate a litigare con i compagni, a maltrattarli, a fingere che non esistessero durante le trasferte, a non salutarli perché non considerati alla sua altezza, perché non abbastanza ossessionati dal basket, dal miglioramento, dalla vittoria. E ossessione è esattamente la parola che Kobe usava per descrivere il suo fuoco agonistico, quello che lo faceva scendere in palestra prima dell’alba, quello che stritolava gli altri, quello che ha costituito la base della mamba mentality, oggi diventato un brand più che un insieme di regole, che fa vendere scarpe e t-shirt, ma che condivide messaggi torbidi, riassumibili nel machiavellico: il fine giustifica i mezzi. Ma chi ha seguito davvero la carriera di Bryant ha visto cose diverse, oltre alla ferocia agonistica. Ha visto una parabola, un cambiamento. Il talento arrogante che non riteneva nessuno al suo livello, a fine carriera era cambiato, complici gli infortuni, la crescita emotiva, le esperienza Olimpiche, la genitorialità. Rideva e scherzava con gli avversari, era diventato accorto nelle interviste, più paziente coi giovani, meno ossessionato dal risultato, più in pace con sé stesso. Non vorrei essere frainteso, è stato un campione assoluto, una gioia per gli occhi e un vincente nato, ma il Kobe tragicamente morto nel gennaio del 2020 era più un reverendo che una rockstar.
Michael Phelps sulla salute mentale
Ecco, questo è il perimetro, lo spettro complessivo della discussione, perché prima degli anni ’90 di salute mentale era difficile, se non proprio proibito, parlare anche nella società, nella vita di tutti i giorni. E lo sport non era lo sport di oggi. Il professionismo vero, quello che conosciamo ora e il cui successo economico ruota intorno ad un misto di diritti tv planetari, personal branding, social e narrativa, ha iniziato a svilupparsi negli anni ’90, raggiungendo piena realizzazione a metà degli anni 2000. Ed è lì che abbiamo messo i paletti per la definizione di ogni cosa, compresa la mental health degli atleti, imponendo un immaginario maschilista, insensibile, orientato al risultato, che mastica il “debole” e premia il “forte”. I due estremi narrativi che sono racchiusi nelle storie di Graeme e di Kobe. Alfa e Omega ideali di un alfabeto che poi ci ha dato degli strumenti inconsci per giudicare gli atleti, ogni giorno, in maniera arbitraria, facile. Troppo facile, con una matrice che non applicheremmo mai a noi stessi o ai nostri cari. Il calciatore bravo, ma “debole di testa”, la tennista con talento ma che “non regge di nervi”, il saltatore che “viene da un brutto background”. Schemi che dividono il mondo in vincenti e perdenti, ignorando l’impatto della salute mentale sull’equilibrio e sul benessere generale della persona, lasciando gli atleti soli a combattere le proprie battaglie. E, anche se ora le cose stanno cambiando, in molti ambienti è ancora così, e vi posso assicurare che esistono ancora squadre, gruppi dirigenti e persino intere federazioni che fanno pressione sui propri atleti per non parlare mai dei propri problemi di salute mentale, preferendo fingere infortuni fisici. Così nessuno fa domande.
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La verità è che quella sulla mental health, specie da noi, è una riflessione ancora embrionale, troppo legata a luoghi comuni, a frasi fatte, a speculazioni economiche. Quasi una moda: come quando ti accorgi che ogni azienda del Pianeta si riempie la bocca di parole tipo empatia, sostenibilità, progresso, e poi, giustamente oppure no, guarda principalmente al profitto. Sono passati quasi vent’anni dalle prime, potenti, deviazioni dalla narrativa, quelle di Kevin Love, di Michael Phelps, di Lindsey Vonn, voci che hanno deciso di esprimere il proprio disagio, le proprie paure e insicurezze, forti dei successi ottenuti in carriera, e forti del credito guadagnato presso il pubblico e la stampa. Ma un conto sono loro, soprattuto se uomini, visto che sulle donne applichiamo ancora preconcetti gravissimi anche in questo, e un conto sono tutti gli altri, gli atleti che convivono con lo stress, la pressione, le difficoltà personali e sportive, senza essere fuoriclasse protetti dal talento. Per ogni Andre Agassi c’è una Naomi Osaka, e per ogni Osaka un Robin Soderling, e per ogni Soderling decine di professionisti sconosciuti al grande pubblico.
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Simone Biles

Credit Foto Eurosport

E questa piramide può essere ripetuta in ogni disciplina, allargandosi sempre alla base, così come può essere applicata a qualsiasi ambiente di lavoro, nella nostra vita di tutti i giorni. E invece la mental health è ancora un argomento sensazionalistico, che viene raccontato dai media sportivi attraverso le parabole più o meno dolorose dei campioni che “tirano” di più, come Mikaela Shiffrin, Simon Biles oppure Kristof Milak, ignorando i casi più sommersi e divisivi, come quello di Raven Saunders, per esempio, medaglia nel getto del peso a Tokyo 2020, e evitando un approccio generale al tema. Raccontare la storia di un singolo atleta non vuol dire parlare di salute mentale, vuol dire raccontare una vita. Nulla di più, nulla di meno. Se vogliamo fare un passo avanti, giunti a poche settimane dall’evento più atteso del quadriennio, dove tutto il Mondo guarderà gli atleti. Se vogliamo che alle Olimpiadi di Parigi agli atleti sia permesso esprimersi in questo senso, e se vogliamo che, proprio durante i Giochi, un eventuale Simone Biles-bis venga trattato con maggior tatto, senza dividersi tra chi la difende e chi la accusa di vigliaccheria, dobbiamo avere il coraggio di parlarne per davvero, in maniera metodica. Non soltanto aprendo i giornali sportivi. Ma a casa, sul lavoro, tra amici. Per quanto banale possano essere un paio di slogan, “it’s ok not to be ok” e non bisognerebbe fare agli altri ciò che non vorremmo venisse fatto a noi.
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Comola: "Nel nostro sport la parte mentale è fondamentale: bisogna rimanere umili"

 
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