Squadra olimpica dei Rifugiati: tutto quello che c'è da sapere

Jacopo Pozzi

Aggiornato 17/05/2024 alle 14:07 GMT+2

GIOCHI OLIMPICI - Se da un lato c’è lo sport e dall’altro la politica, al centro ci sono tutti quegli esseri umani troppo sfortunati per poter scegliere, quelli che non hanno altro posto dove stare se non nel mezzo, strizzando magari l’occhio ad una sponda nella speranza di animare l’altra. Tutto ciò che c'è da sapere sulla squadra olimpica dei Rifugiati.

Il messaggio di Gebru ai rifugiati: "Non mollate mai, continuate a lottare"

C’è un grande silenzio, alla base della questione: un vuoto di significato, troppo spesso riempito da tante parole inutili. Un esercizio di stile e di retorica, che tanto esercizio poi non è, visto che ha un impatto reale sulla vita della gente. Persone lontane da noi, magari, ma pur sempre persone. Perché in questo pezzo potremmo parlare di politica, oppure parlare di sport, ignorando il fatto che, invece, sono la stessa identica cosa e che dimenticare l’uno nel racconto dell’altra ci restituirebbe soltanto una storia a metà. Incompleta, se non addirittura falsa. C’è una ragione logica, nella pratica di separarle e di farne narrative parallele che, come i binari di una ferrovia, si specchiano per tutto il percorso, con l’illusione di non toccarsi mai. Neppure dopo un milione di chilometri. Perché lo sport e la politica, separatamente, vendono molto di più. Peccato, però, che ad unirli, quei binari, ci siano sempre delle traversine, delle modeste ed economiche assi di legno, che sono lì da quando è stata inventata la locomotiva, e senza le quali il metallo si deformerebbe dopo pochi passaggi del treno, o dopo pochi acquazzoni estivi. E se da un lato c’è lo sport e dall’altro la politica, al centro ci sono tutti quegli esseri umani troppo sfortunati per poter scegliere, quelli che non hanno altro posto dove stare se non nel mezzo, strizzando magari l’occhio ad una sponda nella speranza di animare l’altra.
Team Rifugiati: 36 presenze a Parigi
 
36 atleti, in rappresentanza di 100 milioni di persone: una platea molto più ampia di quella italiana, di quella britannica, di quella tedesca o di quella di decine di altre nazioni che sfileranno sulla Senna, il 26 luglio prossimo, con la bandiera fieramente e saldamente tra le mani di qualcuno di importante. 100 milioni di persone è un pubblico corposo, certo, ma anche infinite volte meno interessato al pugilato, al judo, all’atletica o al ciclismo rispetto a tutti gli altri, perché intento, un giorno sì e l’altro pure, a lottare per i propri diritti. Il CIO ha recentemente presentato la terza spedizione del suo Refugee Olympic Team, dopo le esperienze di Rio 2016 e, soprattutto, di Tokyo 2020, stimolando tutti noi ad una riflessione più profonda. Chi sono questi atleti? E cosa può realisticamente fare lo sport, per loro? Poco, la risposta è “poco”, a meno che non si cominci ad affrontare l’argomento da una prospettiva nuova, distante dal pietismo neo-colonialista di cui i nostri media sono cintura nera, e a meno che non si parta dalle basi. Dalle definizioni.
picture

Judo for Peace, sport e accoglienza per i rifugiati siriani

 
Questa non è la selezione degli immigrati, né quella dei clandestini, e neppure quella degli apolidi o dei profughi: e la distinzione non è cosa da poco, perché spesso è proprio l’etichettatura a determinare la qualità della vita di un essere umano. Giusto o sbagliato che sia. Oggi, sul Pianeta si stimano più di 300 milioni di migranti, che significa circa uno ogni 30 persone, e che solo in minima parte hanno a che fare con gli spostamenti interni tra i paesi del “Primo Mondo”. Perché emigrare, fatta eccezione per i 110 milioni su 300 che sono stati proprio costretti fisicamente a farlo da guerre e dittature, abitualmente significa andare alla ricerca di una vita migliore, tanto dal punto di vista economico, quanto dal punto di vista sociale. Esistono, quindi, flussi enormi, vere e proprie maree in costante movimento, che spingono un’enorme quantità di persone, di cui il 40% abbondante è minorenne, ad andarsene dalla propria casa, dalla propria nazione, in cerca di qualcosa di diverso. Interi strati di umanità, che per noi quasi non esistono e di cui ci arrivano soltanto pochi brandelli di racconto, come quando ci accorgiamo dell’aumento degli sbarchi a Lampedusa per gli strali di un politico, quando scoppia uno scandalo caporalato in qualche piantagione o come quando scopriamo che la parrocchia sotto casa sta ospitando delle famiglie in fuga dall’Ucraina. Ecco, non tutti loro sono dei rifugiati, anzi. Perché quello del “rifugiato” è uno status speciale, riconosciuto dall’UNHCR, l’organo delle Nazioni Unite deputato alla loro tutela, in collaborazione con i Paesi ospitanti, e ottenerlo, molto spesso, fa la differenza tra la vita e la morte. Tra la dignità e l’isolamento.
Team Rifugiati: 36 presenze a Parigi
Dal punto di vista tecnico, è rifugiato colui che: “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. Copia-incolla dall’articolo 1A della Convenzione di Ginevra, datato 1951, rimasto invariato da allora, a differenza da quanto avvenuto alla nostra società. Si trattava di uno strumento nato, sotto altre forme, già trent’anni prima, negli anni ‘20, e che serviva principalmente per proteggere tutti quei cittadini europei (anche se l’Europa non esisteva ancora) che scappavano dai regimi dittatoriali più oppressivi: gli esuli del regime comunista, di quello franchista, di quello fascista. Cento anni più tardi, il Mondo è cambiato, ma quella definizione si è cristallizzata: ampia, flessibile, soggetta a continue interpretazioni. Così, mentre il Mondo sperimenta nuove disuguaglianze, come il cambiamento climatico, il neo-colonialismo, e le occupazioni, dimostrare il confine tra chi ha diritto ad essere chiamato rifugiato e chi no, si fa sempre più difficile, e si fa sempre di più esercizio politico, non umanitario. Elementi tutt’altro che secondari, e che servono a comprendere davvero quello che muove l’IOC Refugee Olympic Team. 
La prima versione di questo esperimento di sport sociale è arrivata alle porte dei Giochi di Rio 2016, con un Comitato Olimpico Internazionale profondamente provato dagli scandali e dai problemi, dal virus Zika e dalle accuse di corruzione, prima tra tutte l’esplosione del caso del “doping di stato” russo. 10 atleti, al cospetto degli 11 mila abbondanti arrivati in Brasile per competere. 10 atleti reclutati tra Etiopia, Sud Sudan, Siria e Repubblica Democratica del Congo, Paesi in guerra, Paesi stabilmente nei titoli dei telegiornali di tutto il Mondo. 10 atleti selezionati non senza problematiche. C’era Yusra Mardini, certo: giovane siriana, scappata dal conflitto civile affidandosi ai mercanti di uomini e poi rifugiatasi in Germania, che nel corso del tragitto verso l’Europa, insieme alla sorella, ha dovuto ricorrere alle sue doti di nuotatrice in acque libere per trascinare un gommone pieno di profughi verso la terra ferma. Storia che è diventata la copertina di quella prima spedizione un po’ per la drammaticità degli eventi, fattore, però non esclusivo, e un po’ per il magnetismo esercitato dallo sguardo e dai gesti di Yusra, un dato di fatto, tanto meschino quanto reale. Con lei, a sfilare sotto la bandiera a Cinque Cerchi, al Maracanà, c’erano altri 9 atleti, nessuno dei quali, però, oggi, è noto al grande pubblico generalista. Eppure, la parabola di Yiech Pur Biel, per esempio, meriterebbe un intero approfondimento.
Nel 2005, all’età di dieci anni, quando il padre non ha più fatto ritorno a casa, e lui ha intravisto i miliziani avvicinarsi, insieme alle sorelle, al fratello e alla madre, si è rintanato nei boschi intorno alla città di Nasir, situata a nord est di quello che un giorno sarebbe diventato il Sud Sudan. Come centinaia di altri fuggiaschi ha vissuto dandosi alla macchia, per interi giorni, arrampicandosi sugli alberi, combattendosi il cibo con gli animali raccoglitori, usando la vegetazione per nascondersi alla vista di chi stava dando loro la caccia. Così, giunti al punto di non ritorno, la madre ha messo sul piatto della propria bilancia le possibilità di sopravvivenza di ognuno di loro, e con una freddezza calcolata e necessaria, ha abbandonato il figlio maggiore al proprio destino, dirigendosi a piedi verso il confine etiope, distante circa 30 chilometri, scortando e proteggendo soltanto i tre minori. Rimasto solo, ma ormai, a 10 anni, già adulto, Biel, ha iniziato la sua personalissima sfida alla morte, prima raggiungendo un campo profughi e poi trovando il modo di sopravviverci dentro, senza mai più rivedere il resto della sua famiglia. Lui e tutti gli altri, anni più tardi, sarebbero stati scelti per le Olimpiadi brasiliane, attraverso processi di selezione personalistici e avventurosi. È questo il tenore delle storie che hanno fatto da sotto-testo al Refugee Team di Rio, questo il grado di disperazione e questo il grado di competenza comunicativa dei suoi promotori, che con una mossa strategica e geniale, hanno permesso ai Giochi di ravvivare la discussione pubblica. 
Il grande merito del CIO sta in quello che è stato costruito dopo l’edizione del 2016, sull’onda emotiva e mediatica del successo brasiliano, cercando con grande coraggio e investimento, di creare un sistema. Una vera e propria architettura, in grado di fare delle future spedizioni Olimpiche una ciliegina sulla torta, non la torta stessa. È stata costituita una Fondazione, che lavora ogni giorno, in ogni angolo del Pianeta, collaborando attivamente con le Nazioni Unite e con le Associazioni del Terzo Settore. E non è stata creata allo scopo di scovare le gemme nascoste, i campioni mancati, e di farli competere; ma di assicurare l’accesso allo sport al più alto numero possibile di ragazzi e ragazze, come veicolo di promozione personale, di integrazione e di riscatto comunitario. 12 programmi, in ogni continente, che mettono un pallone, un paio di scarpe o dei guantoni addosso a quasi mezzo milione di aspiranti atleti e atlete e che hanno formato, se possibile in maniera ancora più rilevante, migliaia di allenatori e di insegnanti, che potrebbero garantire un effetto di crescita esponenziale negli anni a venire: un risultato di assoluto valore, pure di fronte alle difficoltà sempre nuove che l’iniziativa incontra e incontrerà. Quella dell’IOC Refugee Team resta una sfida impervia, perché l’opinione pubblica è capricciosa, e sempre lo sarà, e il fine ultimo di smuovere le acque per migliorare la vita altrui passa attraverso step graduali, che ci obbligano a fronteggiare l’apatia contemporanea, quella per cui, per esempio, non ci ricordiamo già più dell’esistenza dell’occupazione ucraina, non durante i Giochi almeno.
Ci sono state polemiche e piccoli scandali, perché all’allargarsi della squadra, erano in 29 a Tokyo e saranno 36 in Francia, aumentano anche gli interessi commerciali che gravitano intorno agli atleti, come nel caso del mezzofondista sud sudanese Dominic Lokinyomo Lobalu, cresciuto sportivamente dentro il programma, e poi scappato dall’albergo dopo una 10 km corsa a Ginevra, una gara che aveva vinto, ma il cui (misero) premio era stato intascato dai suoi accompagnatori. Avrebbe dovuto, o quantomeno potuto, essere la prima medaglia Olimpica del Team, e invece ha preferito affrancarsi dal sistema, rinunciando a Tokyo 2020, aiutando a sollevare alcune questioni legate alla gestione quotidiana dei fondi del CIO, e provando a diventare un professionista in autonomia. Ora vive in Svizzera, ha vinto una tappa di Diamond League, è un atleta di livello internazionale e non parteciperà ai Giochi, né sotto la bandiera della nazione che lo ospita, né sotto quella in cui è nato, né sotto il nuovo stendardo, creato ad hoc dal Comitato proprio per il Refugee Team.
picture

Cindy Ngamba, la rifugiata che ha trovato pace interiore nel pugilato

 
Adesso il peso del pronostico e l’obiettivo di vincere una medaglia a Cinque Cerchi passa sulle spalle di Cindy Ngamba, pugile nata in Camerun ed emigrata con tutta la famiglia in Gran Bretagna quando aveva 11 anni. La federazione di accoglienza ha fatto di tutto per poterla tesserare, sbattendo sempre sul no del Governo, un Governo che, nel corso della sua vita, l’ha anche messa in prigione, nel tentativo di rimpatriarla a forza. Ma lei, in Camerun non può tornare perché dichiaratamente omosessuale, ancora una colpa in alcuni Stati del Mondo, e un motivo di discriminazione e persecuzione  in molti più posti di quello che siamo pronti ad ammettere. Cindy ha accettato di buon grado l’avventura con il Refugee Team, che vede in lei anche un potenziale strumento di propaganda e di visibilità, nonostante la sua prima scelta fosse la Gran Bretagna, l’ecosistema pugilistico che l’ha accolta, cresciuta e protetta. E la sua presenza, insieme a quella di Francisco Edilio Centeno, di origine venezuelana, a quella di Ramiro Mora Romero, cubano, e a quella di numerosi atlete e atlete iraniane, è la premessa alla discussione sulla prossima frontiera del Team e sulla necessità di inserire in squadra anche individui di Nazioni che saranno presenti a Parigi, e che sono perseguitati per ragioni politiche, religiose e di orientamento sessuale, temi molto più sottili e delicati, rispetto alla fuga da una guerra civile. E non perché la guerra sia meno d’impatto sull’opinione pubblica, ma per l’esatto contrario. Diritti che ancora, troppo spesso e in troppe parti del Mondo, sono erroneamente percepiti come oggetto di una discussione politica, invece che conquiste universali. In fin dei conti, il termine rifugiato è nato proprio per proteggere le persone in fuga dai dittatori, e c’è da chiedersi se a Los Angeles 2028, sotto il nuovo emblema del Team, in mezzo a tutti gli altri, vedremo sfilare anche qualche atleta russo, o magari turco, o forse ancora proveniente dall’Arabia Saudita o dalla Cina: uomini e donne che non scappano da un conflitto, ma dall’oppressione dei propri governanti e dalle loro politiche discriminatorie.

Più di 3 milioni di utenti stanno già utilizzando l'app
Resta sempre aggiornato con le ultime notizie, risultati ed eventi live
Scaricala
Condividi questo articolo
Pubblicità
Pubblicità