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Elisa di Francisca: il successo è fatica e più grande è la fatica, più grande è la festa

The Owl Post

Aggiornato 24/02/2020 alle 15:02 GMT+1

Prosegue il viaggio verso le Olimpiadi di Tokyo 2020 con i racconti in prima persona dei campioni azzurri. Oggi è la volta di Elisa di Francisca. La Jesina arriva alla sua terza Olimpiade, la prima da mamma, con la grinta che ha sempre dimostrato in pedana e la voglia di far vedere cosa è capace di fare, sotto gli occhi curiosi del suo piccolo Ettore.

Elisa di Francisca - copertina

Credit Foto Eurosport

Della danza classica mi piaceva tutto. O meglio: quasi tutto. Da bambina quello era stato il mio primo sport, ero portata e mi divertivo, se non fosse per la sola cosa che non riuscivo a sopportare: il saggio. Il saggio di fine anno era insopportabile. Era tutto troppo calcolato, preciso. Nessuno era veramente allegro durante il saggio perché in quel giorno tutto doveva essere senza sbavature. Perfetto. E la perfezione non è affatto una cosa divertente. In più c’erano troppe donne nel gruppo e a me piacevano di più i gruppi misti, dove il casino è all’ordine del giorno.

1. A Jesi gli schermidori sono rockstar

Stufa di stressarmi l’anima ogni anno per preparare un saggio senza sbavature ho deciso di cambiare, e la scelta è stata facilissima. A Jesi gli schermidori sono conosciuti come i calciatori, più dei calciatori: a Jesi gli schermidori sono delle rockstar. Quello. Voglio fare quello. La scuola di Jesi è famosissima, non soltanto in Italia, ma nel Mondo intero e il maestro Triccoli, che l’ha fondata, è una leggenda dello sport. Imparò a tirare di scherma durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre era in un campo di concentramento in Sudafrica, e quando finalmente tornò a casa decise che non avrebbe fatto altro nella vita. Per fortuna sua, nostra e di tutto lo Stivale. Stefano Cerioni fu il primo a vincere le Olimpiadi sotto le sapienti cure del Maestro e dopo di lui ne arrivarono molti altri.
I primi anni trascorsi nella scuola sono stati decisamente i più belli. Certo avere successo e ottenere grandi risultati dà soddisfazione, ma la gioia che ho sentito nel provare quell’ambiente per la prima volta resta il ricordo più dolce. Tutto era così rilassato, leggero.
Andavamo a correre nei campi con tutta la squadra, ci allenavamo con la musica e lo spogliatoio era un posto dal quale non te ne saresti mai voluta andare, neppure la sera tardi.
Elisa Di Francisca, un palmares decisamente pazzesco

2. Talento, passione e responsabilità

Per diventare uno schermidore però serve tempo, molto tempo. Nella maggior parte degli altri sport le basi restano sempre le stesse nel corso degli anni, ed è il tuo livello a cambiare e crescere. Se vai a provare la pallavolo, per esempio, ti insegnano il bagher, l’alzata e la battuta fin da subito e sarà poi il tempo a farti diventare brava in un fondamentale piuttosto che un’altro. Ma nella scherma no. Il fioretto non te lo danno subito. È una conquista e in quanto tale richiede tempo. Simile alla musica: prima devi imparare a leggere lo spartito e solo dopo anni di solfeggio prendi in mano lo strumento, e quello è il momento in cui capisci se quanto hai fatto fino a lì è valso davvero qualcosa.
La scherma è asimmetrica, come la musica e come me, per questo, forse, mi piacciono entrambe le cose. Da buona asimmetrica, comunque, non ho certo preso un’autostrada per andare dal gioco dell’infanzia alla carriera vera e propria, ma ho deciso di provare tutti i sentierini strani che ho incontrato lungo la via, passeggiando in mezzo agli alberi e giocando a nascondino con la voglia di diventare grande.
Molte campionesse plasmate dalle mani del Maestro sono arrivate in alto presto, da Valentina Vezzali a Giovanna Trillini, ma per me non è stato così, io avevo il bisogno di sfogare altro, prima di dedicare anima e corpo soltanto a alla scherma. Ricordo che quand’ero bambina mio papà mi accompagna in palestra e controllava che andassi per davvero ad allenarmi, mentre a volte io sgusciavo via dalla porta sul retro per andarmene a spasso nel mondo.
La differenza tra il talento e la passione è tutta qui. E non è cosa da poco. Avere dentro l’attitudine a fare bene qualcosa non è una garanzia di successo, senza il lavoro. Ma non è neppure un obbligo. Non è un dovere, arrivare in alto. Passare due, tre o cinque ore in palestra può anche non valere niente se la tua mente è altrove, se il tuo pensiero è distante.
Senza la passione il talento diventa responsabilità, la responsabilità consuma la persona e la persona consumata non potrà mai arrivare in alto.
Per questo alcuni grandi talenti si perdono e per questo qualunque sportivo vi può raccontare di aver incontrato giovani campioncini finiti dispersi nel mare dei "potrei ma non voglio". La passione funziona come un interruttore. Quando scatta quello non conta neppure più il tempo, gli orologi in palestra li puoi pure togliere dal muro perché non ti interessa quanto stai investendo in quello che fai. Non ti serve la calcolatrice: stai investendo tutto. Semplicemente.
Elisa di Francisca, la scherma è come musica

3. Da Pechino 2008 a Londra 2012, da sparring a oro Olimpico

Il mio primo assaggio del successo è arrivato quando avevo già 28 anni, non perché prima non ne avessi il talento, ma perché prima non ero pronta a prendermene cura ignorando le altri parti di me. Ho vinto l’oro ai Mondiali di Parigi del 2010 e da lì in avanti tutto è cambiato. Tutto ha iniziato a moltiplicarsi e a spostarsi su traguardi enormi, con aspettative altrettanto pesanti.
Non sono mai stata brava a partecipare e basta. Anche se a volte magari sarei risultata più simpatica agli altri smussando certi angoli del mio carattere. Ma io non sono così. All’epoca delle Olimpiadi di Pechino 2008, per esempio, rinunciai ad andare in Cina. Non ero riuscita a qualificarmi e mi proposero di accompagnare le altre per far loro da sparring durante i Giochi e io dissi di no. Istintivamente. Di pancia. Non era cattiveria, ma a me di fare una passeggiata nel Villaggio come se fossi in gita non fregava nulla. Avrei sofferto troppo a guardare le altre e basta.
Non me lo sono meritata? Resto a casa. Arriverà il momento mio.
Un momento che è arrivato a Londra, quattro anni più tardi. Quella a cinque cerchi è stata un’esperienza entusiasmante, in tutto e per tutto. Era talmente grande quel pensiero da essere diventato una barriera, come un grande punto da cui poi serviva per forza andare a capo per la frase successiva.
Se vinco smetto, mi dicevo. Perché non esisteva, nella mia testa, un dopo le Olimpiadi. Il Villaggio, la gente, l’attesa: tutto era enorme, scintillante. Mi ha dato la stessa sensazione di arrivare per la prima volta in una metropoli, lasciandomi alle spalle un piccolo paesino di campagna. Una metropoli che ho comunque vissuto poco, perché sono rimasta dentro una bolla per tutto il tempo.
Il giorno della competizione ero serena, come mai successo prima. Avevo più volte sognato la gara, ma non soltanto la gara, proprio la vittoria. Mi ero allenata benissimo, non avevo dubbi sul fatto che avrei vinto, anche se poi, in realtà, ho sofferto molto in pedana, soprattutto in semifinale e finale, che chiusi all’ultima stoccata. Finì con una storica tripletta italiana, che condimmo anche con la vittoria a squadre. L’Olimpiade perfetta.

4. La fatica va festeggiata

E mo come faccio?
Continuavo a chiedermelo una volta tornata da Londra. Mi sentivo come se avessi scalato l’Everest e avevo, in fondo allo stomaco, un senso di vuoto. La mia prima reazione è stata festeggiare. Festeggiare tanto. E con tanto intendo dire TANTO. Ma mi sembrava doveroso: la fatica non va solo celebrata, ma va anche onorata e altrettanto va fatto con le medaglie importanti. Il cervello di un atleta vive di equilibri delicati perché la testa è una brutta bestia e nell’altalena tra la fatica e i festeggiamenti serve trovare un punto d’incontro.
Più grande è la fatica che ho fatto, più grande è il risultato raggiunto e maggiore dovranno essere le celebrazioni, perché altrimenti il peso del lavoro ti schiaccia e priva il lavoro stesso del suo senso più profondo: gioirne.
Non volevo più tornare in pedana. Ma non era tristezza o sfinimento, mi sembrava tutto naturale e giusto. Ero a posto così. Poi Stefano Cerioni, che mi seguiva praticamente da sempre, decise di andare ad allenare la Russia e per me fu un duro colpo. Ma fu anche il duro colpo che mi serviva.
Ho sentito rimontare dentro una rabbia agonistica che pensavo di aver perso per sempre, perché volevo dimostrare a tutti, e a me prima che agli altri, che potevo vincere anche senza di lui. Volevo dimostrare che il mio talento e la mia forza non dipendevano esclusivamente dalla sua guida. E così ho ritrovato la spinta per un altro quadriennio.
A Rio sono arrivata con un carico di responsabilità enorme, un peso gigante da sostenere sulla punta del fioretto. Non poteva andare storto nulla. Punto. Ho tirato malissimo in pedana, e quasi mi sono stupita quando, alzando la testa, mi sono accorta di essere in finale. C’era come un retro-pensiero nella mia testa, come una paura di vincere, alimentata dal peso del momento. Ricordo di aver avuto il tempo, poco dopo la semi, di andare da mia madre e chiederle: “due ori, mamma ma non sarebbe troppo?” Lei mi guardò un po’ confusa:
Elisa, vai.
Finì con l’argento e io ero profondamente delusa da me stessa. Non tanto lì, sul momento, ma nei mesi seguenti. Non sarei più tornata in pedana. Basta. Troppa fatica, troppa pressione, troppo tutto. Io volevo fare altre cose.
Elisa di Francisca, la differenza tra Talento e Passione

5. L'Olimpiade da mamma

Volevo diventare mamma e così è stato, anche perché a Ivan, oggi mio marito, ne avevo fatte vedere di cotte e di crude, visto che non sono certo una che si tira indietro. Era giunto per noi il momento di fare altro, di vivere altro. Mi sono goduta la gravidanza prendendo 16 chili e mangiando qualunque cosa desiderassi, lontanissima dal pensiero della scherma.
Poi ho ripreso a fare movimento, senza fretta, come fanno tutte le neomamme: il pilates, le passeggiate, cose così. In tanti mi hanno chiesto di tornare. In tanti tranne Ivan, che probabilmente aveva bene in mente il ricordo della mia versione sotto stress. Eppure oggi, che siamo alle porte di una nuova Olimpiade, io sono tornata in pedana, e questo lo sanno tutti. Per la seconda volta, dopo aver promesso a me stessa che non sarei più tornata, ho rimesso la maschera e ripreso il fioretto.
È difficile spiegare come funziona il fuoco che brucia nella pancia di un atleta. È difficile raccontare con quanta facilità si possa alimentare o spegnere, quasi senza preavviso, soltanto per una parola che leggi, per un video che guardi o per uno sguardo che dai a te stessa nello specchio in una mattina d’inverno.
Il confine tra fierezza ed orgoglio per chi fa sport è una linea molto sottile e la voglia di far fatica è un’equilibrista che ci cammina sopra. Oggi a bordo pedana c’è anche mio figlio che mi guarda e ho voglia di fargli vedere che cosa è capace di fare la sua mamma, perché la scherma sarà per sempre un pezzetto di quello che mi definisce come donna. Un altro giro di giostra, con tutte le sue conseguenze e con il mio carattere pieno di spigoli sempre in prima fila, aspettando qualche bella festa, per celebrare insieme una soddisfazione nuova
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