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"Borg McEnroe", la recensione del film che gli appassionati di tennis attendevano da anni

Eurosport
DaEurosport

Aggiornato 13/11/2017 alle 18:37 GMT+1

Lo scorso 9 novembre è arrivata nelle sale italiane la pellicola che finalmente celebra una delle rivalità che hanno fatto la storia di questo sport: abbiamo visto il film per voi, sezionandolo in tutti i suoi aspetti principali.

LaBeouf and Gudnason as Borg and McEnroe

Credit Foto Eurosport

Lo scorso weekend è arrivato nelle sale Borg McEnroe, l'attesissimo film incentrato su una rivalità che ha scritto pagine senza pari nella storia del tennis. Ecco la nostra recensione, quattro punti di vista differenti per analizzare la pellicola di Janus Metz.

Il cinefilo

Volto contratto, totale assenza di emozioni: così si palesa in scena Sverrir Gudnason nei panni di Bjorn Borg e la mimesi è già bell’e compiuta. Come il più solerte dei testimonial del metodo Stanislavskij l’attore svedese non interpreta il leggendario tennista, diventa il leggendario tennista…Che una somiglianza così marcata - sorta di reincarnazione - non la si riscontrava sul grande schermo dai tempi di Val Kilmer/Jim Morrison nel biopic The Doors. Il tanto vituperato "Borg-centrismo” della pellicola di Janus Metz - a tratti spudorato, a onor del vero - non è fine a se stesso nella misura in cui permette di sfatare un pantagruelico luogo comune attorno alla rivalità con il vulcanico John McEnroe. Quando signoreggiavano il tennis venivano definiti artatamente dalla stampa Fire and Ice, nell’ambito di un’ossessiva ricerca di opposti che si respingessero; Borg McEnroe ha l’indiscutibile merito di scavare nel passato di Bjorn e riportare a galla - udite udite - il lato più fumantino della sua personalità. Ebbene sì, ci fu un tempo in cui anche quella sfinge di Borg imprecava dopo una controversa chiamata arbitrale e cadeva in preda dei fumi dell’isterismo proprio come la sua nemesi a stelle e strisce. Risultò decisivo l’incontro con il mentore Lennart Bergelin, che in un passaggio assai significativo del film stringe un patto d’acciaio con l’adolescente Bjorn: "Debutterai in Coppa Davis a patto che non mostrerai più una singola fottuta emozione: tutta la rabbia, la paura e il panico che potrai provare le racchiuderai in ogni colpo”. La porzione più intrigante di un film che sceglie con coraggio di ricostruire le scene di tennis giocato senza affidarsi a immagini di repertorio – l’asticella si alza sensibilmente rispetto al trascurabile Wimbledon del 2004 – in fondo è proprio questa; un film che non conterrà l’epica di Rush e che raramente è in grado di svincolarsi ritratto macchiettistico di McEnroe ma in cui i motivi d’interesse non mancano, specialmente per chi volesse addentrarsi in un viaggio nella mente di uno degli sportivi più influenti di sempre, i cui lati oscuri appena percettibili all’epoca dei fatti sarebbero in seguito emersi in superficie come un fiume carsico. Quanto a John McEnroe, rivolgersi altrove per ricavarne un quadro più esaustivo. (Paolo Pegoraro, Twitter: @PaoloPego82)

Il tennista

Dopo tanti film di maldestra resa sportiva, m'ero chiesto con una certa esitazione: come giocheranno Sverrir Gudnason e Shia LaBeouf nei panni di due iconoclasti del tennis? Lo fanno bene, e la mimesi è funzionale all'inquadratura tennistica grazie a un sistema di dissolvenze, del più distante, e quadro spalle del più vicino. Così hanno avuto delle valide controfigure sui colpi in movimento mentre i due attori hanno ripreso i dettagli più netti, come il servizio "ingobbito" di McEnroe spalle alla rete o il pendolio delle braccia di Bjorn in risposta, ma anche un paio di notevoli piani sul top-spin di Borg/Gudnarson. Qui siamo già a Wimbledon, ma nella prima parte del film s'era già visto il giovane Borg - del resto interpretato dal figlio Leo - che sposta la mano dominante dal manico mentre tira contro il garage di Södertälje: questo rovescio a due mani che sembra un colpo di mazza da hockey - fra poster, pattini e lealtà svedesi, il film spiega bene il perché - e invece farà la rivoluzione. Gesto inconfondibile, come esemplare è il footwork del divo Borg mentre s'allena su un campo di terra battuta: in una delle scene migliori del film, la ripresa stringe sulle gambe di Bjorn che si muovono in una danza macabra sulla riga di fondo campo. Se Borg ha portato il gioco di resistenza ai suoi migliori livelli, McEnroe ha sublimato il tennis d'attacco nella massima espressione, ma la volée di SuperBrat si gusta più nelle parole di Arthur Ashe che non nella magnifica eleganza del gesto: trattasi in fondo di film Borg-centrico, col redentore che cammina sulle racchette per testarne l'incordatura e si dice feticismo. Di Wimbledon manca quella bellezza austera che solo si prova entrando all'All England Club: l'establishing shot è troppo digitale, la poesia del prato verde un po' trascurata. E cosa dire della finale del 1980? Che il film originale era più bello e che il quinto set soffoca nell'enfasi, ma si capisce che per i più giovani e perché no, per quelli a cui non piace il tennis, questo “lieto fine” non era poi così scontato. La frase che Bjorn rivolge a Mac su un cambio campo - «Va tutto bene, è una bellissima partita» - è l'artificio di parole dette a New Orleans per calmare il furente americano, però adesso scegliamo un simbolo, uno scatto: Borg e McEnroe sono seduti fianco a fianco nell'”atrio” del Centre Court mentre attendono di giocare la finale, e sul muro di Wimbledon c'è scritto: If you can meet with triumph e disaster and treat those two impostors just the same. Se saprai confrontarti con trionfo e rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori: manifesto del tennis e del film che molto gli rende omaggio. (Fabio Disingrini, Twitter: @FabioDisingrini)

Lo psicologo

Dai fischi agli applausi. Tutto in pomeriggio. La contrapposizione tra il serafico Borg ed il vulcanico McEnroe, all’interno della pellicola, si amplifica molto anche nel rapporto con il pubblico di Wimbledon. Il dio delle folle di radici svedesi, alla ricerca del quinto Championship consecutivo nel 1980, cammina tre metri sopra il suolo all’All England Lawn and Cricket Club. McEnroe assume al contrario i contorni d’un guitto, quasi estraneo al contesto di cotanta eleganza. Motivo per cui viene fischiato sonoramente, conseguenza dei suoi atteggiamenti sopra le righe, delle sue proteste, così stonate agli occhi ed alle orecchie di un pubblico che vuole solo Borg ed il suo quinto successo che lo farebbe entrare di diritto nella storia. Borg è un ostacolo, un fastidio, e viene dipinto fin troppo in questi termini, anziché descriverlo come un finalista dotato di un talento fuori dal comune. Le due personalità non sono però così dissimili in profondità, perché nelle sue prime istantanee il film dipinge un giovanissimo Borg (tra l’altro interpretato da Leo Borg, il figlio più giovane di Bjorn) alle prese con atteggiamenti "alla McEnroe", ma che vengono livellati e placati nel tempo dalla pazienza sapiente di Lennart Bergelin, suo allenatore dal 1971 al 1983. Come dicevamo, la linea sottile in grado di cambiare questa percezione è proprio la finale di quel Wimbledon 1980. John varca la soglia del centrale sommerso di fischi a cui fanno da contraltare le ovazioni per Bjorn. Il tennis è però in grado di sradicare le etichette, di ribaltare le percezioni, di trasformare i fischi in applausi. È piacevole e riporta sulla realtà il convinto applauso che il centrale tributa a McEnroe durante le premiazioni. Anche perchè l’americano non esce mai dai contorni durante la finale, non dà mai in escandescenza, non finisce dietro la lavagna come ci si aspetterebbe. E si merita un applauso come a preparare il terreno per colui che negli anni successivi avrebbe vinto tre volte in quattro anni su quell’erba. Quella linea sottile di demarcazione tra fischi ed applausi è anche un passaggio di consegne: Bjorn mette in bacheca il quinto Wimbledon ma è consapevole che il suo tempo da numero uno volge al termine, tanto è orgoglioso da non saper accettare la sconfitta imminente. (Alberto Coriele, Twitter: @albertocoriele)

Il critico

Non stupitevi se alla lettura dei titoli di testa avete fiutato l’odore di una produzione svedese, danese e finlandese. Non impressionatevi se in quelli di coda siete rimasti impressionati dalla sfilza di -sson, -qvist e -berg che scorre. Il problema reale, in fondo, è tutto ciò che risiede nel mezzo. Lo stordente squilibrio tra la rilevanza dell’uno e dell’altro protagonista. Da un lato, le vicende di Borg vengono scandagliate nel profondo con una splendida analisi psicologica e storica. Dall’altro, quelle del giovane McEnroe scadono nel tratteggio macchiettistico. Al punto che, quando al termine del film i due scambiano per la prima volta alcune battute, sembra di assistere al dialogo tra un personaggio della mitologia norrena e il Dustin Hoffman di Rain Man (lasciamo a voi dedurre chi sia l’uno e chi sia l’altro). Lo statunitense non era poi così dissimile, potrete replicare. Per quanto possa essere vero - e per quanto Shia LeBeouf sia eccellente nell’interpretarlo - resta però un altro elemento da sottolineare: la "par condicio” suggerita dal titolo del film non è per nulla rispettata. E i momenti in cui Borg è protagonista sono decisamente più estesi rispetto a quelli in cui McEnroe viene sbalzato in primo piano. Con il fondato sentore che, in ultima analisi, quest’ultimo sia utile ai fini narrativi soltanto per esaltare la grandezza dello svedese. Non c’è niente di male, s’intenda. Ma pare non troppo onesto proporre al mercato internazionale un prodotto che solo in apparenza ambisce a divenire il Rush (del quale Borg McEnroe è probabilmente superiore a livello visuale) del tennis. Un film ottimo se considerato come l’attenta dissezione delle tappe che portarono il cinque volte vincitore di Wimbledon a disputare la sua ultima grande partita. Una pellicola pessima se si considera il modo in cui è stata titolata, impacchettata e venduta al grande mercato. Perché evade ogni possibilità di imperniare la sceneggiatura su un autentico dualismo tra i due. Anche l’unico fil rouge (la rabbia: repressa dall’uno, continuamente esternata dall’altro) è palese fin dalla prima mezz’ora, ma non viene percorso fino in fondo. Lasciando il vago sospetto che l’azzeccata scelta di scritturare un attore del calibro di LeBeouf sia stata dettata soprattutto da fini commerciali. Un film ottimo per nostalgici, tifosi di Borg, pubblico svedese e forse addirittura fruitori totalmente all’oscuro dei fatti. Meno per gli amanti del bel cinema. (Mattia Fontana, Twitter: @mattiafontana83)
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