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Wimbledon e Wembley: da Berrettini-Djokovic a Italia-Inghilterra, una domenica per completare il Rinascimento azzurro

Lorenzo Rigamonti

Aggiornato 10/07/2021 alle 15:47 GMT+2

Domenica 11 luglio sarà il crocevia di un rapidissimo percorso di crescita per l'intero sport italiano: dalle 15 Berrettini affronta Djokovic in finale di Wimbledon, dalle 21 l'Italia di Mancini se la giocherà contro l'Inghilterra in finale di Euro 2020.

Lorenzo Insigne, Matteo Berrettini, Londra

Credit Foto Getty Images

Una giornata di sport così, forse, non l’avremmo potuta né prevedere né sognare. Domenica 11 luglio 2021 passerà agli annali dello sport italiano, nel bene o nel male. Si comincia alle 15.00 con Matteo Berrettini nella finale di Wimbledon contro Novak Djokovic, poi verso mezzanotte conosceremo il verdetto di Wembley, con gli Azzurri di Mancini a caccia di gloria europea.

Il Rinascimento dello sport azzurro

La sottile soglia di tempo (meno di 24 ore) che ci separa dagli eventi di domani, ci fornisce quel giusto distacco per ammirare l’affresco azzurro in tutta la sua complessità, e di dargli valore contestualizzandolo: perché un ritorno così sentito e violento allo sport, dopo un’Odissea così sofferta causa pandemia, potrebbe rivelarsi un cuneo in grado di reggere un enorme processo di maturazione culturale.
Di questo Rinascimento azzurro, oltre al calcio e al tennis, fa parte anche l’Italbasket, in grado di compiere l’impresa strappando una qualificazione olimpica che mancava da 17 anni. Calcio, tennis e basket, queste gioie ci hanno investito da tutti i fronti e hanno dato vita a un tripudio collettivo che non solo ci ha unito come Paese, ma ha debellato dei genomi identitari che nelgi ultimi decenni stavano attecchendo sempre di più nel nostro immaginario: quelli che proiettavano un’Italia fiacca, al di sotto delle attese, sempre sul ciglio della crisi economica e sportiva. Era un’Italia spesso beffata, vecchia, anacronistica nella sua organizzazione, struttura, filosofia sportiva sia sui prati di calcio che sui campi di tennis.
Dagli spalti, nelle piazze e davanti ai televisori le platee vivevano solo in funzione dello sproloquio. Si era creato un tappo di retoriche e di attese convertite istantaneamente in acido, in grado di ustionare irrimediabilmente ogni potenzialità di ricambio generazionale. Il terreno su cui impostare un radioso avvenire sembrava danneggiato irrimediabilmente da delle voragini auto-inflitte.
Poi il telo grigio della pandemia ha silenziato ogni nostro lamento. Il nostro stretto, sciagurato lembo di terra, per qualche crudele scherzo del destino, è stato uno dei più colpiti dal virus. Pur non potendo confermarlo con la matematica, lo possiamo sentire sulla nostra pelle: siamo quelli che hanno sofferto di più, tra i primi ad esserne stati colpiti e gli ultimi ad esserne usciti. C’è chi ha sofferto la malattia, e c'è chi invece ha somatizzato gli strascichi e le conseguenze della psiche.
Feriti, abbiamo trovato nuovi metodi per convivere con la perdita e soprattutto con questo inedito silenzio. E forse, dico solo forse, i recenti risultati dello sport azzurro ci hanno confermato che questi nuovi metodi sono più sani dei precedenti. Questo periodo buio ci ha condotti a un nuovo Rinascimento, che si porta con sè una nuova visione prospettica e una nuova mentalità sullo sport e sul nostro paese. La pandemia ha generato un’attesa diversa, che per la prima volta - chiusi nelle nostre case - abbiamo vissuto con gioia anziché con astio. Ci siamo fermati un attimo, abbiamo colto la magia del ritorno.
Abbiamo allentato la nostra presa sul reale, abbiamo dato modo a un nuovo ciclo di esprimersi con freschezza e ingenuità. In pochi mesi questi ragazzi innamorati ci hanno dimostrato che esiste un’Italia in grado di inventare anziché arrangiarsi. E domani, sulle due sponde opposte del Tamigi, vogliamo dimostrare al mondo di avere invertito un’inerzia non solo sportiva, ma anche storica e sociale.

Sud: si parte con Berrettini-Djokovic

Dal Sud-ovest londinese, alle 15 Matteo Berrettini si addentrerà per primo nel ventre di un sogno diurno su erba: il tennista romano ha riscritto la storia del tennis azzurro superando le impronte di Nicola Pietrangeli, che nel 1960 si spinse fino alla semifinale di Wimbledon. Era un periodo d’oro per la racchetta di Tunisi, che quell’anno era entrata all’All England Club come testa di serie numero cinque. 61 anni dopo, Berrettini ha compiuto quel passo in più da testa di serie numero sette. E ci piace pensare che il tennista azzurro sia stato in grado di compiere questo passo sostenuto dalla generale spinta del tennis azzurro, che in questo ultimo anno sta attraversando uno stato di grazia epocale.
Oltre alle prime, grandi soddisfazioni procurateci da Berrettini (che prima di Wimbledon ha alzato il suo trofeo più importante finora al Queen’s), ci brillano ancora gli occhi dinanzi alle giocate pirotecniche di Lorenzo Musetti, capace di dominare per due set il numero uno al mondo sulla terra rossa di Parigi prima di arrendersi ad un'acerba tenuta fisica; poco prima della pandemia invece siamo stati abbagliati dall’immenso talento di Jannik Sinner, che a 19 anni ha già potuto saggiare più volte il tennis dei Giganti. E poi c’è un Sonego formidabile a Roma e a Eastbourne, un Cecchinato in ripresa, un Fognini che ci regala ancora stoccate di gran classe. Al Roland Garros abbiamo portato per la prima volta tre italiani agli ottavi di uno slam, a Wimbledon invece vogliamo andare fino in fondo con la nostra punta di diamante, spronati dalla sensazione che l’onda lunga del tennis maschile non si esaurisca qui, ma sia destinata a rinvigorirsi con le nuove gemme nate dopo il 2000.
Sul manto verde di Wimbledon, Berrettini ci ha mostrato un tennis rigenerante, fresco, potente. In semifinale contro Hurkacz ha recitato in maniera encomiabile la parte del favorito, trivellando il campo del polacco con 22 ace. Certo, la parte di tabellone navigata dal tennista romano (Pella, van de Zandschulp, Bedene, Ivashka, Auger-Aliassime e Hurkacz) non gli ha opposto grandi resistenze, ma Matteo è stato comunque in grado di stupirci per scioltezza, controllo e maestria a servizio nonché freddezza sui punti determinanti. Alcune gare le ha vinte da “Big Server”, togliendo fiato e impeto di risposta dalle racchette degli avversari.
Djokovic tuttavia è una bestia completamente differente, e forse il doppio set di sonno giocato contro un Hurkacz completamente fuorigiri potrebbe aver allentato leggermente la tensione di Berrettini. Tuttavia è giusto notare che la racchetta azzurra ha raggiunto finalmente l’apice della sua maturazione, ed è pronta a dare filo da torcere al numero uno al mondo. I due si sono incrociati ultimamente sulla terra battuta del Roland Garros, e già in quel frangente il serbo aveva vacillato sotto il dritto e il servizio atomico di Berrettini. Sul campo veloce di Wimbledon, questa difficoltà potrebbe amplificarsi. E’ tuttavia valido anche il ragionamento opposto, siccome Djokovic è un maestro proprio in quello stesso skill set. E nonostante a distanza di pochi chilometri, a Wembley, il pubblico affosserà di fischi e ululati l’Italia del calcio, sull’erba gentile di Wimbledon gli inglesi potrebbero facilmente schierarsi dalla parte di Berrettini. E’ l’ebbrezza dell’impresa.

Nord: si chiude con Italia-Inghilterra

Attraversando il Tamigi e marciando verso il nord-ovest di Londra, il chiasso delle strade si farà sempre più persistente fino all'apertura dei cancelli di Wembley. L'’Italia di Mancini se la giocherà ad armi pari contro l’Inghilterra di Southgate, per la corona di Campioni d’Europa. Lì sarà tutta un’altra atmosfera. Perché Wembley è “la cattedrale del calcio”, nonché la roccaforte di coloro che scoprirono per primi l’arte del football. Ma allargando lo sguardo verso le due compagini, ci accorgiamo subito del controsenso prodotto dall’antiquata cornice: siamo noi in realtà, quelli che entrano a Wembley con la convinzione di aver (ri)scoperto un nuovo calcio; un calcio frizzante, esaltato dal collettivo, corrobaorato d'una joie de vivre in grado di ammorbidire il secolare catenaccio italiano.
E a proposito di calcio all’italiana, il gruppo di Mancini ha dimostrato nelle ultime partite di essere un ibrido in grado di conservare il meglio del secolo passato: la ferrigna difesa è in grado di sostituirsi alla effervescente trazione anteriore nei momenti di stanchezza. E’ un’Italia pensata ed incarnata dal genio di Roberto Mancini, una delle prime voci in grado di alleviare la pressione sul relitto del 10 novembre 2017, quando perdemmo contro la Svezia. Da quel momento la leggerezza e la motivazione del Mancio sono state il traino per tentare qualcosa di nuovo, per riscoprire quasi con infantilità il significato del pallone per il Paese.
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Da Pirlo a Balotelli: Italia-Inghilterra, la storia infinita

Dall’altra parte del campo invece, gli inglesi se ne stanno arroccati sul solido piedistallo. Altezzosi, certi della propria superiorità. Sono sempre loro. Sono quelli che, dopo non aver preso parte al Mondiale per ostentata superiorità, brontolarono quando alzammo la Coppa Rimet nel 1934, fino a spaventarsi quando lo stesso anno rischiammo di rimontarli clamorosamente nella nebbia di Highbury.
Sono gli stessi che negli anni ’70 ci definirono come un popolo di rozzi camerieri e che dominammo nel 1973, nel 1997 e nel 2012 grazie al gran cuore e alla grande smania di emigrati in campo e/o sugli spalti. Oggi come allora, gli inglesi si costruiscono una monotona cupola sonora inebriata da quell' “It’s coming home”: a volte sembra più un disperato scongiuro che una melodica certezza. Oggi come allora, si specchieranno orgogliosi nel riflesso delle effigi sulla propria corona, sebbene questa per loro sia la prima finale d’Europeo. Quella orchestrata da Southgate è una Nazionale con un potenziale stellare e una solidità impressionante, ma che stenta ancora a trovare la sua espressione matura. Hanno paura della loro stessa potenza, e proprio come noi prima di quel turnover pandemico, vivono in agonia per ciò che potrebbero diventare.
Noi invece siamo nient’altro che questi: le vicissitudini della pandemia e del torneo ci hanno spogliato in tutto e per tutto. Non abbiamo stelle, ma abbiamo il gruppo. Sappiamo dominare e sappiamo soffrire. Là davanti abbiamo ancora delle incognite. Questa è l’Italia di Mancini, prendere o lasciare. La paura l'abbiamo lasciata al tempo del silenzio. Ora è il momento di espugnare Londra, di fare rumore.
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Southgate: "Italia in finale con merito. Wembley è speciale"

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