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Mike Marsh, il duecentista che rallentando mancò l'appuntamento con la storia per un solo centesimo

Fabio Disingrini

Aggiornato 10/10/2019 alle 12:02 GMT+2

Il record di Pietro Mennea, quel longevo record nei 200 metri, era lì, alla sua portata, nella semifinale di Barcellona 1992. Ma Marsh decise di rallentare palesemente, bruciando negli ultimi 10 metri tutto lo slancio che aveva e fermandosi a un solo centesimo dal mito, che fu poi infranto dal connazionale Michael Johnson.

Mike Marsh

Credit Foto Eurosport

Il 5 agosto 1992 ai Giochi Olimpici di Barcellona, 13 anni dopo Pietro Mennea, Mike Marsh avrebbe potuto battere il record dei 200 metri. Quel giorno però, in semifinale, Marsh non sapeva di aver bussato alla porta del mito. Rallentando a pochi metri del traguardo, infatti, lo sprinter statunitense ha mancato di un centesimo l’eterna grandezza. Questo è il racconto di un campione olimpico nato nei giorni di John Carlos e Tommie Smith, cresciuto ai tempi di Mennea, vissuto all’ombra di Carl Lewis e Michael Johnson.
Il 1° agosto 1996, al Centennial Olympic Stadium di Atlanta, l’atleta in terza corsia esce dai blocchi come un proiettile. Dorato come le sue scarpe, lucente come la catena al collo, Michael Johnson sta riscrivendo la storia dell’atletica con il mezzo giro più veloce di sempre. Nato a Dallas nel 1967, c’è chi lo chiama The Waco Locomotive con netto motivo, chi invece The Duck, il papero, per il suo unico stile di corsa a petto in fuori. Con il busto eretto, le ginocchia basse e il passo raccolto, Johnson infiamma il pubblico, semina gli avversari e ferma il tempo in 19:32, urlando al cielo di uno stadio in tripudio. È il nuovo record del mondo dei 200 metri piani.
Cinque giorni dopo i 100 metri record di Donovan Bailey in 9:84, Michael Johnson cancella il tempo con una prova superba. Un mese prima, il 23 giugno 1996, Johnson aveva battuto il vecchio primato di Pietro Mennea, correndo i 200 metri in 19:66 diciassette anni dopo il 19:72 italiano. Stavolta, sulla stessa pista di Atlanta, il record è infranto.
Il 19:32 stampato da Michael Johnson sembra un record destinato all’eternità. È l’agosto del 1996 e un ragazzo prodigio sta per compiere dieci anni nella parrocchia giamaicana di Trelawny. Lo stesso Lightning Bolt che nel 2009 squarcerà il cielo di Berlino.
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Michael Johnson 1996

Credit Foto Getty Images

L'età dell'oro degli sprinter americani

Stesso nome, stessa età, stessa divisa di Michael Johnson. L’attore non protagonista di questa storia scatta in prima corsia e chiude per ultimo, in 20:48, la corsa record del divo MJ. Si chiama Michael Lawrence Marsh e ad Atlanta detiene il titolo olimpico dei 200 metri piani. Il 1° agosto 1996, mentre vede Michael Johnson sfrecciare nel mito, Mike sa che questa sarà la sua ultima Olimpiade. Ha vinto 3 medaglie olimpiche - oro a Barcellona nei 200 metri e nella 4x100 di Carl Lewis, argento ad Atlanta nella stessa staffetta USA, dietro al Canada di Donovan Bailey - eppure sta per ritirarsi da quella linea d’ombra sfumata sulla pista alle spalle dei giganti.
Pare che Michael Marsh, nato al tempo rivoluzionario di John Carlos e Tommie Smith, cresciuto con le gesta di Pietro Mennea, secondo a Henry Thomas nelle corse scolastiche e a Leroy Burrell nel Santa Monica Track Club, coetaneo di Michael Johnson e compagno di Carl Lewis, non sia destinato al mito eterno, però sì a “un oro senza tempo”.
Per inteso, il campione olimpico dei 200 metri piani a Barcellona 1992 è stato un ottimo velocista al naturale, sebbene ai margini dei ricchi sponsor e dietro le quinte del più grande spettacolo olimpico a stelle e strisce. Vivendo la stessa epoca sportiva del Figlio del vento, Marsh ha spartito medaglie olimpiche e fatto parte della Golden Age degli sprinter americani. Di questo firmamento, Mike ha incarnato l’atleta dal volto umano: “the regular fast guy” che per correre coi migliori ha dovuto spostare il suo limite. Ha gettato il cuore oltre il traguardo meno una volta. La volta in cui non seppe di incontrare la storia.

Un passo prima del mito olimpico

Nella vita di uno sportivo, l’appuntamento con la grandezza olimpica può durare una meteora o investire una carriera di sviluppi e sacrifici. Può baciare il talento puro del prodigio, premiare uno stato di grazia, oppure cedere al vizio della dea bendata, cambiando per sempre la “natura mortale” dell’eroe per caso.
D’altra parte, c’è chi viene puntuale all’incontro con la fama e chi tarda al primo appuntamento. Chi trema al cospetto di sua altezza. Chi sbaglia giorno. Chi come Mike Marsh, il campione normale, rallenta per non essere in anticipo e non sa invece che la grande dea è impaziente di riceverlo. È così che il destino bussa alla sua porta un giorno prima: il giorno della semifinale dei 200 metri alle Olimpiadi del ’92. In senso lato, la fenomenologia dell’evento c’impone pure qualche passo indietro.
Michael Marsh nasce il 4 agosto 1967 nell’eco sparso della Summer of Love. This is the dawning of the Age of Aquarius e il mondo sta cambiando da un piccolo palcoscenico off-Broadway, mentre Arthur Ashe è il primo tennista afroamericano a vincere gli US Open, ma specialmente Tommie Smith corre i primi 200 metri olimpici della storia sotto i venti secondi: 19’83. Sul podio di Città del Messico, Tommie Smith e John Carlos (terzo) salgono scalzi, alzano il pugno e chinano il capo: il guanto nero è per il Black Power contro la violenza razziale e perfino l’australiano Peter Norman, secondo, si mette il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights.
Giorni immensi, anni formidabili in cui Mike, purosangue californiano, figlio di un agente immobiliare e di una commercialista, vive la sua infanzia a Los Angeles scremato dalla controcultura beat. Human being ma non Human Be-In, a sei anni il piccolo Marsch corre veloce fra i talenti della Hawthorne High School: un astro nascente dell’atletica che non può essere il migliore, perché il migliore è un certo Henry Thomas.
Destinato a dominare il panorama USA dell’atletica high-school, negli anni Ottanta, Henry Thomas è un fuoriclasse dei 100 metri in 10:27, fissando il primato Under-18 per oltre un decennio. Un decennio che lo vedrà spegnersi in un buco nero di sprechi e rumori, abusi di droga e patrie galere. Precoce come un icaro nel suo veloce volo, rapido come l’Hermes, bello come un dioniso: Thomas fu troppo forte troppo presto. Nella vita di uno sportivo, solo la dea grandezza può essere così impaziente.
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Dennis Mitchell et Mike Marsh

Credit Foto Getty Images

LA 1984: le Olimpiadi di casa viste da un parcheggio

La prima volta di Michael Marsh fuori dal suo cono d’ombra si misura sui 200 metri del campionato interscolastico (CIF California State Meet) nel 1985: li corre al posto di Henry Thomas operato d’appendicite, vince la sua gara e ottiene una borsa di studio alla UCLA. Seguono nel 1987 un terzo posto nei 100 metri dei campionati NCAA (10:07) e il miglior tempo universitario sui 200 metri in 20:35.
Ai Giochi Olimpici sotto casa di Los Angeles 1984, Mike applaude le 4 medaglie d’oro del Figlio del vento da un parcheggio di Long Beach, al lavoro da volontario presso i campi di pallavolo. Quattro anni dopo, Marsch è la riserva della staffetta alle Olimpiadi di Seoul 1988, ma la squadra USA viene squalificata al primo turno.
Finalmente Marsh scende in pista ai Mondiali di Tokyo nel 1991, segnando il tempo record di 37:75 nella sua 4x400 metri, eppure non viene schierato in finale quando gli Stati Uniti vincono la medaglia d’oro. A quasi 25 anni, la sua carriera non è ancora uscita dai blocchi. Per questo Mike lascia la California e il suo allenatore John Smith affidandosi a Tom Tellez, che in Texas lo trasformerà nel “secondo” duecentometrista più forte delle Olimpiadi di Barcellona.

La linea d’ombra tra Carl Lewis e Michael Johnson

Qualcosa è cambiato se nella primavera del 1992 Michael Marsh corre i 100 metri in 9:93, vicino al primato di Carl Lewis in 9:86, e specialmente scende sotto i venti secondi nei 200 metri, segnando un ottimo 19:94 nell’anno olimpico.
Non ho ancora fatto nulla, sono solo due gare. Dovrò ripetere queste prestazioni contro i migliori, sotto i riflettori, quando in palio ci saranno le medaglie».
Ai Championships statunitensi, che per la prima volta valgono come US Olympic Trials, Mike deve mettere su pista la svolta della sua carriera, però a New Orleans i suoi ultimi numeri stellari non valgono niente e Marsh passa dal miglior tempo dell’anno al mancato pass olimpico nei 100 metri: quarto in una gara sciagurata che vede Carl Lewis, vincitore dei 5 precedenti titoli mondiali e olimpici, finire sesto. Il Figlio del vento non avrebbe più corso i 100 metri alle Olimpiadi, lasciando un record del mondo.
Se nei 100 metri Mike si ritrova, oltre al trentenne Lewis, i velocissimi Dennis Mitchell, Mark Whiterspoon e Leroy Burrell, i 200 li corre a fianco del coetaneo Michael Johnson ed è una finale supersonica, con vento a favore di un metro al secondo, che incorona MJ campione nazionale per il terzo anno consecutivo in 19:79. Marsh, secondo per 7 centesimi, vola alle Olimpiadi con l’erede di Carl Lewis.
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Mike Marsh

Credit Foto Getty Images

1992: l’anno triste così felice di Michael Marsh

Ai Giochi di Barcellona 1992, Michael Marsh vince la medaglia d’oro più cupa nella storia dell’atletica olimpica. Il 6 agosto 1992, in un pomeriggio uggioso, Mike corre la finale dei 200 metri in 20:01 precedendo il namibiano Frank Fredericks e il compagno di squadra Michael Bates. Un giorno triste così felice. Una finale senza Michael Johnson.
MJ si reca a Salamanca all’inizio dell’estate per ultimare la sua forma olimpica, rinunciando ai 400 metri per detonare i 200 più veloci di sempre. La sera dell’ultimo allenamento, il suo agente Clyde Hart lo porta a cena e Michael vorrebbe festeggiare la fine del suo ritiro con un panino da Burger King, Clyde gli ha invece riservato un tavolo del famoso ristorante El Candil. Qui non ci è dato sapere le portate del menu, né se MJ e il suo agente abbiano scherzato sulla recente svolta vegana di Carl Lewis, e neppure il piatto che causerà a Johnson un’intossicazione alimentare. Il braciere del Montjuic non è ancora acceso quando un cuoco di Calle San Francisco estromette dai Giochi il miglior velocista della squadra USA.
Invero, palesemente smagrito dal virus intestinale, Michael Johnson corre le batterie dei 200 a denti stretti. Ma in semifinale, nel giorno che avrebbe potuto fare la storia dell’atletica, crolla in 20:78, sesto ed eliminato. Il giorno in cui Mike Marsh sta per correre i migliori 190 metri di sempre.

I 200 metri più grandi della storia.. Per 190 metri

Stadio Olimpico di Barcellona, 5 agosto 1992, semifinale dei 200 piani. Michael Marsh esce dai blocchi in quinta corsia ed è un proiettile lucido e affilato che segue la curva in magnifica progressione. Lo stile è perfetto, il vento misura -0,2, il tempo è 19:73, a un centesimo dal primato di Pietro Mennea. L’inglese Linford Christie, che ha vinto la medaglia d’oro nei 100, lo guarda incredulo ma non è per il tempo. È allibito perché per primo, voltandosi dalla sua corsia, capisce cos’ha fatto Marsh: dopo aver corso 190 metri sotto il record del mondo, lo sciagurato Mike s’è fermato. Ha rallentato prima del traguardo. Michael Marsh non ha visto la storia venirgli incontro.
All’arrivo, rilassando lo sforzo, alza gli occhi verso il tabellone, che gli getta negli occhi un maledetto 19:73. Mike cammina nervoso fra i rivali e si rivolta: 19:73. Mani sui fianchi, passo nervoso, torna indietro e lo rivede: 19:73. Il vincitore della seconda semifinale abbassa il volto e lascia la pista, più scuro in volto di Michael Johnson fuori dalla sua gara.
A vento nullo, Michael Marsh avrebbe fatto il record del mondo. Senza fermare la sua corsa negli ultimi dieci metri, avrebbe fatto il record del mondo. Avrebbe fatto il record del mondo con un tempo che i migliori studi, con un anemometro di -0,2 m/s, misurano in 19:65. Quando nel 1996 cadrà il primato di Mennea dopo diciassette anni, sarà per mano di Michael Johnson in 19:66.
Quel giorno di Atlanta, Pietro Mennea dirà di non aver pensato che il suo record potesse durare così a lungo: «Davvero, a Città del Messico nel 1979, non sapevo di aver corso così veloce». Non lo sapeva nemmeno Mike quella sera di Barcellona sotto un cielo azzurro tenebra, ma per lui sarà un rimpianto di quelli che divorano il tempo.

Pietro Mennea 19:72: il pensiero stupendo

Nella storia dell’atletica, nessun altro record del mondo ha avuto il fascino indiscreto di Mennea. Un tempo che è stato la splendida ossessione di Carl Lewis, che ha riflesso 9 ori olimpici e 8 titoli mondiali in quel 19:72 di materia dei sogni.
Come quegli 8,90 metri saltati in lungo da Bob Beamon a Città del Messico, nel 1968: una distanza mai più battuta alle Olimpiadi. In ossequio alle imprese di Beamon e Mennea, Lewis non partecipò allo US Olympic Festival del 1983, che ai 1.839 metri sopra il livello del mare (Colorado Springs) avrebbe dato al Figlio del vento la chance d’infrangere ogni record. Un’occasione che invece colsero, lassù dove l’aria non pone resistenza, Calvin Smith (9:93) ed Evelyn Ashford (10:79) per pulire le lavagne dei 100 metri.
Ci fu comunque una volta in cui Carl Lewis saltò più lungo di Beamon: era il 30 agosto 1991 e ai Mondiali di Tokyo segnò un 8,91 ventoso. La stessa gara in cui Mike Powell, su una pedana leggendaria, fissò l’attuale record del mondo di salto in lungo: 8,95.
C’è stato anche un giorno in cui Lewis avrebbe potuto battere il primato di Mennea. Agli US Championships di Indianapolis, nel 1983, il giovane Carl alzò le braccia esultando a cinque metri dall’arrivo. 19:75, pubblico in delirio, record sprecato. Aveva 22 anni e tutti pensavano che il record del mondo sarebbe stato infanto alle Olimpiadi. Invece Carl Lewis, medaglia d’oro in 19:80 a Los Angeles 1984, non corse mai più 200 metri così veloci. Così come Mike Marsh non poteva più ripetere i 190 metri più grandi della storia.
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Pietro Mennea 1980

Credit Foto Imago

Una medaglia d’oro senza tempo

«Provate a credermi se vi dico che non ho rimpianti. Quel giorno il mio allenatore, Tom Tellez, mi disse: Se sei primo, rallenta e risparmia le forze per la finale… E così ho fatto. In fondo, come potevo sapere di aver corso in 19:73? You Fool! Provate a credermi e se non ci riuscite, tentate lo sforzo. Come quando devo convincermi di aver fatto la cosa giusta ogni volta che ripenso a quel centesimo. Inizio sempre col chiedermi perché ho rallentato, ne concludo che così è la vita e non potrò mai cambiare quei 10 metri».
Passa un anno dalle Olimpiadi prima che Michael Marsh rilasci un’intervista e subito dirà queste parole. Eppure ha vinto la medaglia d’oro che fu di Jesse Owens, di Tommie Smith e Carl Lewis. Un titolo che eredita da Joe DeLoach (Seoul 1988) fermatosi a 3 centesimi dal record di Mennea, unico a battere Lewis in una gara olimpica.
Michael Marsh ha vinto le Olimpiadi senza pensare al record di Mennea, perché il suo spettro l’avrebbe sgretolato in una notte. Senza Carl Lewis, senza Michael Johnson: una medaglia d’oro in assenza dei miti, un titolo senza primato. Mike non può ripetere la batteria del giorno prima, non può rifare i 190 metri migliori di sempre, però in finale ne corre 200 e resta lì sospeso, come stregato, a guardare lo stesso tabellone che stavolta dice 20:01. Lo fissa a lungo, non sorride mai. La sua medaglia d’oro è scritta, ma la vera grandezza gli è scivolata fra le dita.
La vittoria olimpica mi ha ripagato di tutto il duro lavoro fatto per costruirmi una carriera. Certo che dopo quel 19:73 ho pensato di battere il record del mondo il giorno dopo, ma in finale ero più stanco di quanto immaginassi. Quando qualcun altro lo farà al mio posto, mi terrò la medaglia d’oro in tasca e la stringerò forte.
Sabato 8 agosto 1992, Michael Marsh vince il suo secondo titolo olimpico nella 4x100, ma l’ultima staffetta è il premio alla carriera (su pista) di Carl Lewis, The Greatest, vincitore di 4 medaglie d’oro a Los Angeles 1984, 2 ori e un argento a Seoul 1988 e altrettanti qui a Barcellona, re senza fine del salto in lungo con il quarto oro olimpico alla sua quarta Olimpiade, Atlanta 1996.
Negli albi dei Giochi Olimpici, ci sono due foto iconiche della 4x100 USA. La prima ritrae Carl Lewis che spalanca le braccia e offre al cielo il testimone, Figlio del vento e spirito santo. Nella seconda, Lewis abbraccia Leroy Burrell e Dennis Mitchell festanti, ma manca Michael Marsch che ha messo le basi del record del mondo (37:40) correndo la prima staffetta. Nel video di allora, la regia inquadra il divo Carl mentre Mike esce dai blocchi, infine stacca sull’immagine dei tre prima che Marsch possa raggiungerli dall’altra parte della pista: deve passare al lungo piano slomo del red carpet di Carl Lewis.
Sì che avete letto bene, la staffetta USA fissa il nuovo primato del mondo 4x100, che alle Olimpiadi resisterà per vent’anni fino all’avvento di Bolt e della sua Giamaica. Anche su questo record di Barcellona 1992, Michael Marsch c’è ma non si vede. È già rientrato nel suo cono d’ombra. Gli è mancato un centesimo per diventare un mito.
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Mike Marsh

Credit Foto Getty Images

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