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Perché nessuno potrà mai essere come Michael Jordan

Daniele Fantini

Pubblicato 17/02/2016 alle 08:09 GMT+1

L’ex-stella dei Chicago Bulls compie oggi 53 anni, ma a più di 10 anni dal suo ritiro ufficiale dal campo, resta ancora lo sportivo più apprezzato di sempre a livello mondiale, l’ideale del campione perfetto. Jordan non è semplicemente una superstar, ma è la pura essenza del gioco della pallacanestro

Michael Jordan

Credit Foto Eurosport

Sono passati ormai 13 anni da quando Michael Jordan ha ufficialmente chiuso la carriera da giocatore. 13 anni. Tredici. Eppure, Michael Jordan è ancora il basket per eccellenza, quando di più attuale possa esserci, più di Kobe Bryant, LeBron James, Stephen Curry o i San Antonio Spurs. E, tra il serio e il faceto, possiamo anche sognare - o aspettarci - di poterlo rivedere in campo, sì, anche a 53 anni, perché no. D’altronde è già tornato due volte, e lui stesso, con un sorriso sornione, ha lasciato intendere di come sia convinto di poter essere ancora più forte di tanti giovinastri che riempiono i roster di molte franchigie NBA.
Kobe Bryant si ritirerà a fine stagione, con un bagaglio di cinque anelli, 18 presenze all’All Star Game, e due nomination come MVP delle Finals. Come struttura fisica, tecnica e caratteriale, è stato probabilmente la cosa che più si è avvicinata a Michael Jordan nell’ultimo quindicennio, la superstar che ha cercato di emularlo nella maniera più marcata possibile, ma che non è mai riuscita a superarlo o eguagliarlo, e non soltanto perché gli è mancato un titolo per raggiungere il palmares dell’ex-stella dei Bulls.
E lo stesso si potrebbe dire, a maggior ragione, di LeBron James e Steph Curry, tutt’altre tipologie di giocatori e complessivamente ben lontani dalla carica emotiva che Jordan sapeva trasmettere. LeBron è un giocatore che divide, che ha tanti estimatori quanti detrattori, Curry è un giocatore che accende l’empatia, una sorta di simpatia affettiva per un campione con il viso e il fisico da bambino capace, però, di dominare una Lega di giganti. Michael Jordan era qualcosa di diverso, qualcosa che possedeva o possiede ancora un’aura di sacralità. Jordan era divino.
Michael Jordan - Visual
Jordan è stata la prima superstar a livello mondiale a trasformarsi in un brand, nell’ambasciatore per eccellenza di uno sport (la pallacanestro), fino a quel momento confinata all’interno degli Stati Uniti, e vissuta nel resto del globo soltanto attraverso fotografie, racconti, radiocronache, qualcosa di sognato, idealizzato, ma lontano dall’essere concreto. Con le Olimpiadi di Barcellona ’92 e lo sbarco del Dream Team in Europa, tutto il mondo ha potuto entrare in contatto con i campioni più dominanti della NBA, e Jordan, più di tutti, ha avuto quell’aura, quel carisma, quella capacità innata di trasportare la pallacanestro americana fuori dai confini degli States e di annunciare a tutto il mondo: “eccoci, noi siamo questi qui. Il basket vero è questa cosa qui”.
Jordan ha provocato un cataclisma a livello culturale, un terremoto che ha rotto (in positivo, s’intende) con il passato, qualcosa che ha trasmesso con una velocità e una forza dirompente un modello di sport, di gioco, di comportamento completamente nuovo. Le grandi stelle della NBA erano un qualcosa di mitico, che finalmente, dopo decenni di splendido isolamento in cui erano state rimpiazzate dai ragazzi collegiali, si mostravano al pubblico di tutto il mondo nel loro pieno e totale splendore. Jordan è stato l’ambasciatore principe, un marchio abbiamo detto, un brand. E non a caso, lui stesso si è trasformato in un brand. Pensateci. È forse l’unico campione che ancora oggi non ha bisogno di un nome. Bastano soltanto le sue iniziali: MJ. O, meglio ancora, l’immagine stilizzata di un omino che salta, allungandosi per una schiacciata. Jordan è diventato un simbolo, un’immagine, un marchio. Quello della pallacanestro.
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