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Inzaghi e Keita hanno cambiato la Lazio che "cambiò" la Juventus

Roberto Beccantini

Aggiornato 15/05/2017 alle 10:18 GMT+2

Mercoledì la sfida per l'assegnazione della Coppa Italia in bilico tra due fattori: una squadra molto in forma, ma che ultimamente contro la Juventus non riesce a ottenere punti.

Ciro Immobile e Giorgio Chiellini in Juventus-Lazio

Credit Foto LaPresse

Della Lazio si parla sempre poco, schiacciata com’è dall’ingerenza romanista e da obiettivi che, rispetto all’epopea di Umberto Lenzini e Sergio Cragnotti, raramente coincidono con il vertice del podio; al massimo, come due stagioni fa, con il podio (terzo posto, allenatore Stefano Pioli).
La sconfitta di Firenze non fa testo: è stata episodica, a Europa già in tasca. Claudio Lotito potrà piacere o non piacere, ma sa scegliere la gente che deve scegliere, da Igli Tare in giù. Simone Inzaghi, lui, è uno dei pochi allenatori capaci di sopravvivere all’assenza di gavetta. Suo fratello, al Milan, non ci riuscì.
In tempi non sospetti avevo scritto che il confine tra media e alta classifica sarebbe passato da Keita Baldé, questo ventiduenne fumantino che dai 4 gol della scorsa stagione è schizzato a 15. La Lazio è una squadra, frase che è un luogo comune solo quando i risultati e le ambizioni non ne sorreggono il significato letterale. Quarta in classifica, finalista di Coppa Italia. Non sempre a suo agio con le Grandi, ma in grado di suonarle alla Roma nei valichi cruciali del calendario.
Inzaghino non è un fondamentalista. Adegua lavagne e gessi alla stoffa dei suoi e al valore dei rivali. Anche per questo Sergej Milinkovic-Savic, classe 1995, è diventato una degli interni più completi e robusti. La difesa è una cosa con Stefan de Vrij e un’altra senza. Ciro Immobile ha risposto in pieno alle premesse e alle promesse: fuori, a Dortmund e Siviglia, pagò il fio, nei nostri cortili lo fa pagare, come documentano le 22 reti.
Mi aspetto sempre molto, e forse troppo, da Felipe Anderson. I limiti della Lazio sono riconducibili, se mai, agli scarti di personalità e al livello delle riserve, comunque migliorato. Tra le conquiste più preziose di Inzaghi, la continuità: merce rara.
Il caso vuole che la Lazio contenda la Coppa Italia, mercoledì all’Olimpico, proprio a quella Juventus a cui non riesce a strappare un punto dal 25 gennaio 2014 (1-1 casalingo). Da allora, un disastro: 0-3 e 0-2, 0-2 e 0-3, 0-1 e 0-2. Per tacere della Coppa Italia 2015 (1-2 dts) e delle Supercoppe (0-4 nel 2013, 0-2 nel 2015). La legge dei grandi numeri si profila come il più fedele degli alleati, visti, soprattutto, il sicuro forfeit di Lukaku e quello possibile di Parolo.
E occhio alla penna. Fu proprio la Lazio a tenere a battesimo la «nuova» Juventus, quella del movimento cinque stelle (più o meno). Era il 22 gennaio, i campioni venivano dagli schiaffoni di Firenze. Massimiliano Allegri rimescolò le carte. Abbassò la quantità, alzò la qualità. Tutti insieme, appassionatamente: Juan Cuadrado, Miralem Pjanic, Gonzalo Higuain, Paulo Dybala e Mario Mandzukic, la colonna portante. Dai gol di Dybala e Higuain nacque un’altra storia. La Juventus riprese slancio, la Lazio non lo perse. Non ci capimmo nulla, confessò Inzaghi. Sono passati quattro mesi, tripletisti e anti tripletisti affilano le lame. Inzaghi aspetterà la Juventus, come fece con la Roma. Una Juventus ferita, non ancora campione, senza Pjanic (squalificato). Ne vedremo delle belle.
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