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Il compleanno surreale di Ronaldinho: i pensieri dal carcere del campione caduto in basso

Paolo Pegoraro

Aggiornato 21/03/2020 alle 10:58 GMT+1

L'ex fenomeno di Barcellona, Milan e Nazionale brasiliana sarà costretto a trascorrere il suo 40esimo compleanno in carcere dopo essere stato pizzicato, assieme al fratello, con un passaporto falso mentre si trovava in Paraguay per promuovere un libro. Cosa passerà per la testa del campione caduto in basso dopo una vita di successi e bagordi?

Copertina Ronaldinho

Credit Foto Eurosport

Ronaldinho sarà costretto a trascorrere il giorno del suo 40esimo compleanno in una prigione in Paraguay. La sua richiesta di scarcerazione non è stata accolta dal giudice e nelle ultime ore la sua posizione si è per giunta aggravata. Con un esercizio di pura fantasia liberamente ispirato a fatti realmente accaduti ci siamo immaginati il dialogo interiore del campione caduto agli inferi nella notte prima del suo compleanno.
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Non ci sarà nessuna mega festa di cinque giorni nel più lussuoso motel di Rio de Janeiro, nessun concerto a ritmo di samba col mio gruppo pagode, tanto meno quella fantastica piscina stracolma di birra: la sera del mio compleanno la passerò in questa squallida gattabuia di massima sicurezza. Fa un caldo fottuto nell’Agrupación Especializada della Polizia Nazionale di Asunción e a differenza di mio fratello Roberto che russa come un elicottero Helibras qui accanto a me io non riesco proprio a prendere sonno: sto per compiere 40 anni e cerco di risalire all’esatto istante in cui la mia vita è andata a pu***ne!
Ronaldinho ripensa alla sua carriera
Il bello è che il Paraguay mi aveva sempre portato fortuna: è cominciato tutto a Ciudad del Este, nel 1999. Me lo ricordo come se fosse l’altroieri: come se al posto di giocarmi un maiale di 16 chili in un ridicolo torneo penitenziario mi stessi giocando la Coppa America. Chiudo gli occhi ed è il 72esimo minuto di Brasile-Venezuela: Luxemburgo mi butta nella mischia al posto di Alex e dopo tre minuti controllo un passaggio di Cafù, dribblo un primo difensore con un sombrero, un secondo con un controllo a seguire di esterno destro di controbalzo prima di fulminare il portiere con un collo destro sul primo palo, ancora di controbalzo. Galvão Bueno ripete all’infinito la frase “Guardate cosa ha fatto” in tv e all’improvviso il mio nome compare sulle mappe del calcio mondiale. Il 1999, che anno! Vittoria e titolo di capocannoniere del campionato Gaúcho col mio Gremio, Scarpa d’Oro e Pallone d’Oro della Confederations Cup, debutto nella seleçao e trionfo in Coppa America. E poi proprio ad Asunción è legato l’ultimo punto esclamativo della mia carriera nel calcio, nel 2013: la vittoria del Galo nella finale di Copa Libertadores contro l’Olimpia. Ora invece è cambiato tutto: quando uscirò da qui in Paraguay non ci voglio più mettere piede!
Il reparto in cui mi trovo, il Cuadrilatero, ospita pezzi grossi della politica ma anche narcotrafficanti e detenuti comuni. Tra un autografo e due calci al pallone - facciamo anche tre, fatico a star dietro alle loro richieste - qualcuno di loro mi ha confessato di aver trovato conforto nella religione pregando nottetempo. Altri tirano testate al muro. Io non sono mai stato un atleta di Cristo come il mio ex compagno di seleçao Kakà: ho un rapporto tutto mio con la fede e se alzavo le braccia al cielo dopo ogni gol be’, era solo per papà João. Però dietro tutto questo casino è difficile non intravedere un segnale dall’alto: gli stadi sono vuoti, il pallone è fermo per colpa di questo stra maledetto virus e il profeta del Joga Bonito dal sorriso perennemente stampato sul volto si trova in carcere. Io sto vivendo il mio personale Purgatorio, il mondo là fuori il suo: siamo entrambi rinchiusi tra quattro mura.
Ripenso ai primi calci tirati nel mio quartiere di Vila Nova a Porto Alegre, alle partitelle sul campo di Periquito seguite dall’immancabile churrasco, ai miei dribbling da funambolo sulla spiaggia di Tramandaí o sui campi di futsal con la maglia del PROCERG di mister Cleon Espinosa. Avevo lo stesso sorriso e la stessa gioia di vivere che avrei messo in bella mostra al Bernabeu nel giorno della standing ovation dei tifosi del Madrid per il mio show in campo, del giorno in cui avrei steso l’Inghilterra al Mondiale con due numeri da circo oppure di quella magica notte parigina dove avrei esultato come un pazzo per la conquista della Champions. È stato papà João a insegnarmi per primo a giocare così, libero da ogni pensiero. Chissà se quella libertà la ritroverò presto, chissà se il mondo intero ritroverà il suo sorriso…
L’afa qui dentro è proprio insopportabile, i pensieri mi tormentano, Roberto ronfa manco fossimo in una suite: chi dorme più ormai? Sto per compiere 40 c***o di anni e rivivo il film della mia vita: quand'è che la mia carriera è andata a rotoli? Mi tornano in mente le parole di Guardiola nel giorno della sua presentazione al Barcellona:
Se mi rendessi conto che Ronaldinho vuole tornare ad essere il giocatore che è stato, resterebbe qui
Ma io da tempo avevo mollato: io, nato in una casa di legno nel cuore di una favela, avevo raggiunto tutti i traguardi cui un calciatore poteva ambire; i tifosi del Barça pretendevano ancora e ancora, ma io non avevo più fame. Non avevo più quel fuoco dentro. Ho toccato l’apice in quella notte di Parigi del 2006 e da lì è cominciata una lenta discesa: il mio fisico ha iniziato a presentarmi il conto dei tanti, troppi, bagordi. Perché se il mio compagno di mille avventure Ronie era il re delle feste, io non ero certo da meno. Una volta il mio amico nonché idolo Diego Maradona mi disse:
Quando sei sul campo la vita sparisce. Se ne vanno i problemi, se ne va tutto
Il problema è quando la vita ritorna e ti stordisce con sombreri, pasi doble, lambrete e rabone. Ma se uscirò da questo buco dimenticato da Dio giuro che ritroverò il mio sorriso: lo devo a papà João.
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