Premier League - Bobby Charlton spiegato ai giovani: un signore, un centravanti, un regista
Pubblicato 22/10/2023 alle 07:29 GMT+2
PREMIER LEAGUE - Fine di un'era: il calcio inglese piange Sir Bobby Charlton, leggendario attaccante del Manchester United. Con la maglia dei Red Devils ha messo a segno 249 gol in 758 gare. Campione del Mondo con la Nazionale e Pallone d'Oro, Charlton si è spento a 86 anni. Combatteva da tempo la demenza senile.
Prendete George Best e rovesciatelo. Tanto era estroso, isterico e alcolico il quinto Beatle, quanto è stato saggio, dinamico e geometrico Sir Robert Charlton. Detto Bobby, di papà minatore, ci ha lasciato sabato all’età di 86 anni. Per demenza senile, la stessa malattia che ha consumato il fratello Jack, giraffa e lucchetto delle difese.
I giovani del Web ne avranno annusato la polvere degli archivi. E’ stato la bandiera del Manchester United e dell’Inghilterra, con cui si laureò campione del Mondo nel 1966, davanti alla regina Elisabetta. Erano stagioni turbolente ed effervescenti, i Beatles, la Swinging London, le minigonne di Mary Quant, il Sessantotto con i bivacchi nelle università, la voglia di futuro. La rabbia nelle strade, la fantasia al potere.
Proprio nel Sessantotto, lo United di Bobby conquistò la prima Coppa dei Campioni della storia: 4-1 al Benfica di Eusebio nel catino imperiale di Wembley. Arbitro, Concetto Lo Bello. Si resero necessari i supplementari. Charlton firmò due gol: il primo e l’ultimo. Non era «bello», era solido: con una siepe mal tagliata che gli faceva da riporto, ambidestro, un tiro che spesso fischiava come una pallottola. Di fisso aveva il numero (nove), quello e basta. A tradurlo con il vocabolario odierno, un «falso nueve»: nel senso che, della squadra, fungeva da regista, da punto di riferimento, da cervello. Oltre che da cannoniere.
Se lo affidavi a uno stopper, arretrava e divagava; se gli piazzavi un mediano, avanzava e stangava: un giocatore «moderno», fra il tramonto di Alfredo Di Stefano e l’alba di Johan Cruijff. Fu più fortunato di Valentino e del Grande Torino: la sua Superga si materializzò a Monaco di Baviera, il 6 febbraio 1958, di ritorno da una trasferta a Belgrado. Morirono in tanti, in troppi: non lui, però, e nemmeno Matt Busby, l’allenatore scozzese che, stremato ma indomito, gettò le basi della riscossa, della saga. I «Busby babes». Nobby Stiles, l’orco dalla dentiera vampiresca; Denis Law, un passaggio al Toro, il «dieci» dalle visioni lisergiche; Best, il monello-modello dal dribbling irridente e dalle battute al dente («Ho speso gran parte dei miei soldi per donne, alcol e automobili. Il resto l'ho sperperato»; oppure: «Se fossi stato brutto non avreste mai sentito parlare di Pelé»).
Bobby solo. Capitano. L’aria di un capoclasse uscito dalla penna di Edmondo De Amicis. E non pensate a una «apologia di beato». In bacheca luccicano 3 campionati, 1 coppa inglese, 4 Charity Shield. Più il Pallone d’oro del 1966, alzato davanti a Eusebio e Franz Beckenbauer. Più una Coppa dei Campioni e la Coppa Rimet, strappata alla Germania Ovest negli epici sgoccioli di Londra. Con il 3-2 di Geoff Hurst - capace, quel pomeriggio, di siglare addirittura una tripletta - probabilmente mai entrato. Si narra che a Tofip Bakhramov, il guardalinee azero che indusse l’arbitro svizzero, Gottfried Dienst, a convalidarlo, dai gradoni avessero urlato «Remember Stalingrad».
Il dopo United è stato vago e periferico. Rimane l’epopea dei Red Devis che ha contribuito a scolpire. Una leggenda. D’accordo, era un altro calcio, meno scientifico, meno veloce, ma era sempre calcio. Molti cercarono di toccare le sue vette. Si arresero. A vederlo, non sembrava mica uno da 249 gol in 758 partite (e con i leoni, 49 in 106). Leggeva le trame come si sfoglia un libro, rispettoso degli avversari, degli arbitri. «Mai espulso, mai ammonito», ha ricordato Enzo D’Orsi, giornalista dal taccuino curioso e picaresco. Gli chiese il segreto, si sentì rispondere: «Non ho fatto niente di speciale, mi veniva tutto naturale».
Fidatevi: un grandissimo. Che la terra gli sia lieve come i prati che l’hanno reso immortale.
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