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Le due conferme di San Siro: la Juventus è una fabbrica e Higuain un fiammifero

Roberto Beccantini

Aggiornato 12/11/2018 alle 11:10 GMT+1

La partita non è stata bellissima per il divario evidente tra le due squadre: mi aspettavo di più sul piano estetico e anche atteggiamenti diversi in campo. Qual è il vostro giudizio?

Focus Juventus-Higuain

Credit Foto Eurosport

La Juventus, in Italia, è una grande fabbrica di risultati. L’ha ribadito anche a San Siro, contro un Milan incerottato e un po’ timido (o intimidito?). In generale mi aspettavo di più, sul piano estetico, ma la Juventus è questa, brillante e sciupona in Europa, solida e tirchia in campionato.
I numeri soccorrono Allegri e allontanano, per ora, i devoti del dolce stil novo: zero sconfitte in trasferta nel 2018 e 34 punti su 36, record assoluto. Le emozioni, quelle, sono un diversivo che il mister non ha mai considerato un obiettivo primario: soprattutto se poi, quando ci sono, succede quello che è successo mercoledì sera allo Stadium, con lo United.
Se la partita è stata lenta e bruttina, si deve alla differenza di categoria fra le squadre, e al modo in cui la più forte ha gestito la pratica, un palleggio dominante ma leggero, sterile. Sono stati i terzini a scolpire il tabellino: Alex Sandro (uno dei migliori), la capocciata del rientrante Mandzukic; Cancelo, complice Laxalt, la sassata di un Cristiano periferico.
Ma dal momento che il calcio è metà arte e metà riffa, è stato il portiere, Szczesny, a evitare che un match così sbilanciato e così segnato potesse girare. Higuain ha un pregio: è bravo. E un limite: è emotivo. Non è il primo rigore che sbaglia. Rigore, netto, sfuggito a Mazzoleni ma recuperato dal Var. Mentre a Benatia, in materia di gialli, ho l’impressione che proprio male non sia andata.
La frustrazione, a lungo covata, ha poi portato il Pipita allo sfogo che gli è costato il rosso degli sgoccioli. Sentiva troppo, la Juventus. E non voleva sfigurare al cospetto di colui che l’aveva sfrattato. Le sue scuse sono state un inno alla sincerità.
Di Allegri non ho capito la rinuncia a Bonucci, anche se Benatia il suo l’ha fatto (e in alcuni casi, vedi l’ammonizione su Bakayoko, persin troppo). Subito avanti, Madama ha scelto di palleggiarsi addosso, riducendo i rischi a un paio di contropiede. Poco però ha costruito, ripeto, e questo - dei rari tiri, delle occasioni avare, palo di Dybala su punizione a parte - sta affacciandosi qua e là alla ribalta domestica: non ancora una vera e propria tendenza, ma un indizio da marcare stretto. A metà campo, in compenso, Bentancur continua a crescere, mentre Pjanic è sempre lì al confine tra sartina e geometra. Dogana ambigua, insidiosa.
Gattuso ha raschiato il fondo del barile, ha alternato il 4-4-2 al 4-3-3, ha inserito Cutrone, ha pagato l’alta elettricità del suo condottiero, al netto della superiorità, tecnica e territoriale, degli avversari. Ha giocato più o meno come nel derby, il Milan, senza quel coraggio che chissà dove l’avrebbe portato. E che comunque non sarebbe stato male, perso per perso, sbandierare.
Sei punti sul Napoli, nove sull’Inter, crollata - come da me (non) previsto - a Bergamo, le orecchie di Mourinho più lontane: la Juventus sorride alla sosta, e viceversa.
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