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Calcio in lutto - Silvio Berlusconi e quella rivoluzione che ci ha cambiato

Roberto Beccantini

Aggiornato 12/06/2023 alle 18:27 GMT+2

BERLUSCONI - Mattone, televisioni, polisportive: fino a battezzare il pallone.  Non so dove sarebbe arrivato, e come ci sarebbe arrivato, se fosse nato in un altro Paese, visto il conflitto di interessi che lo ha sempre accompagnato e raccontato. Ricordo che, appena recuperato il Diavolo dalle grinfie stanche e bucate di Farina, se chiamavi in sede e chiedevi del dottor Berlusconi, rispondeva lui.

Da Maldini a Van Basten: la top 11 del Milan dell'era Berlusconi

Silvio Berlusconi aveva 86 anni. E’ stato un politico di destra che nel calcio, sul filo del paradosso, ha compiuto una rivoluzione di sinistra. "Di sinistra" nel senso di svolta estetica, di rottura con il passato. Da ricco, ça va sans dire, e in smoking: non certo in maschera e fra i cespugli. Ma di faccia, e non già di facciata. Che solo dopo la "discesa in campo", nel 1994, deragliò. Non l’ho mai votato, ma il suo Milan è stato un confine.
Mattone, televisioni, polisportive: fino a battezzare il pallone. Non so dove sarebbe arrivato, e come ci sarebbe arrivato, se fosse nato in un altro Paese, visto il conflitto di interessi che lo ha sempre accompagnato e raccontato. Ricordo che, appena recuperato il Diavolo dalle grinfie stanche e bucate di Giussy Farina, se chiamavi in sede e chiedevi del dottor Berlusconi, rispondeva lui.
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Silvio Berlusconi posa con i trofei conquistati alla guida del Milan (Imago)

Credit Foto Imago

Il Milan di Berlusconi

Il Milan di Silvio. Quando lo presentò all’Arena, tra cavalcate delle Valchirie e piogge battenti, ci demmo di gomito, ridemmo di lui, e non banalmente con lui. Ci sembrava, pur così Paperone e così bauscia, il comandante dell’esercito di un atollo piccolo piccolo. Prossimo a essere inghiottito dall’alta marea della presunzione, dell’arroganza, della concorrenza.
Viceversa, aveva dietro la Sesta flotta. Il suo Milan. Quel Milan. Con Adriano Galliani l’antennista, la Camelot di Arcore, la parabola delle crostate. Sapeva scegliere la gente che avrebbe dovuto scegliere. Arrigo Sacchi non era nessuno. In gioventù, un terzinaccio confuso fra le ragnatele di un’altra Romagna, infinitamente più dolce e solatia di questa. Da mister, in coppa, il suo Parma si fece beffe del Milan di Nils Liedholm, il barone, il primo precettore del Cavaliere. Troppo raffinato e retrò, oltre che ironico, per scatenare l’entusiasmo del "centravanti dell’Edilnord". Nacque in divorzio. Sbocciò un amore.
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Carlo Ancelotti e Silvio Berlusconi, Milan, LaPresse

Credit Foto LaPresse

Era un mondo, il mondo di quel tempo, legato alla scuola italianista del Trap, l’universo cantato da Gianni Brera, che custodiva geloso e orgoglioso le ceneri di Helenio Herrera e Nereo Rocco. Sua Emittenza straparlava di "mission" di spettacolo, di "giuoco" avvolgente e divertente, di vincere e convincere. Fu di parola. Il Milan di Sua Intensità Arrigo, il Diavolo di capitan Franco Baresi e Paolo Maldini, di Roberto Donadoni, il primo "sgarbo" inflitto a Giampiero Boniperi, l’orchestra dei tre olandesi, Ruud Gullit e Marco Van Basten subito, Frank Rijkaard l’anno dopo. Uno scudetto, appena uno, conteso e strappato al Napoli di Diego Armando Maradona, ma ben due Coppe dei Campioni, due Supercoppe d’Europa e due Coppe Intercontinentali, quando si sfidava ancora la vincente del Sud America sul neutro di Tokyo.
Il 5-0 al Real Madrid del Buitre e del suo codazzo fu ordalia che persino gli avversari si tramandano. Più ancora del 4-0 alla Steaua, nella finale di Barcellona. Poi Fabio Capello, quindi Carletto Ancelotti. In totale, cinque Coppe dei Campioni/Champions League. Da sommo a sommo l’unico riferimento che tollerava era il paragone con Santiago Bernabeu, l’architetto del Real moderno.

Informazione e formazioni, partiti e partite

Gli piaceva l’informazione, faceva le formazioni, e prima di credersi Dio - in anticipo su coloro che tale lo avevano considerato fin dalle epifanie di Milanello - ha segnato e trasfigurato lo sport. Forza Italia e Bunga bunga, gli slogan sulla giustizia (da che pulpito), ma quel Milan lì, e comunque quel messaggio lì. L’Europa e il Pianeta si inginocchiarono, rapiti. Noi, naturalmente, ci dividemmo: chi coglieva, in una cesura così radicale, la scintilla dell’idea; e chi, viceversa, il profumo, il colore e il peso dei soldi. Perché sì, come gli emiri oggi, Silvio spendeva e spandeva. Con questa differenza, a mio avviso: le figurine dei suoi album rispondevano, più che ai capricci del caudillo, ai piani dell’allenatore. Ruolo che il Berlusca esercitava con la gioia infantile del proprietario del pallone. «Unto del Signore», come adorava essere additato, fu tra i primi a blaterare di Superlega. Reazioni? Tutti agnellini giù per terra, naturalmente.
Era un calcio dei ricchi, il suo. Come lo era il calcio degli Agnelli e dei Moratti. Li ha divisi - palazzo Chigi a parte: e non è poco - la voglia di mettersi di traverso, non solo tra i "partiti", scomparsi, ma anche fra le "partite", in perenne divenire. Potevano costruirlo tutti, il suo Milan, voglio dire un Milan così diverso, così lontano dallo zoccolo filosofico del Paese, fondato sul catenaccio e il contropiede (o sul "corto muso", per usare termini meno datati).
Lo fece lui.
Il Monza è stato l’ultimo trastullo. Ma anche lì, non solo "figurine". Tracce di grandezza, sempre.
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Per commentare o fare domande potete inviare una mail a roberto.beccantini@fastwebnet.it o visitare il blog di Roberto Beccantini: www.beckisback.it.
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