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Dall'exploit di Elena Pirrone al quarto posto di Trentin, il Mondiale di Bergen promuove l'Italia

Alberto Coriele

Aggiornato 25/09/2017 alle 18:21 GMT+2

Gli Azzurri tornano a casa con sette medaglie conquistate tra gli Junior: il serbatoio c'è ed è importante, ma anche nella corsa regina dei professionisti si sono visti dei miglioramenti rispetto al recente passato. C'è ancora tanto lavoro da fare, ma c'è almeno una base da cui partire.

Elena Pirrone - Letizia Paternoster - Bergen 2017

Credit Foto Getty Images

Da Bergen - Riportando tutto a casa, dopo il Mondiale di Bergen, è tempo di riflessioni e di bilanci. Da Elena Pirrone a Matteo Trentin, è stata una settimana più che intensa per la nazionale azzurra in Norvegia. Sull'aereo di ritorno salgono sette medaglie junior che hanno un peso specifico importantissimo: significano futuro, specificano e danno lustro ad un lavoro giovanile che pian piano sta regalando dei frutti, grazie al ruolo di supervisore di Davide Cassani, grazie a quel fenomeno di ct della nazionale femminile che risponde al nome di Dino Salvoldi, grazie a Rino De Candido che ha ridato vita agli junior azzurri. C'è in atto un percorso di crescita che non va trascurato perché, se la punta dell'iceberg di questo mondiale è il quarto posto di Matteo Trentin, la base è rassicurante e l'avvenire è roseo, sempre che le aspettative ed i risultati dei giovanissimi vengano poi confermati all'aumentare delle categorie.
L'annata del 1999 ha regalato all'Italia un Mondiale ricco di medaglie e di soddisfazioni: la doppietta straordinaria di Elena Pirrone accende i riflettori su una ragazza che, andando forte anche a cronometro, ha margini di crescita impressionanti specialmente nelle gare a tappe. Letizia Paternoster ha concluso la sua stagione meravigliosa con un bronzo che poteva essere anche qualcosa di più: ha corso in difesa della Pirrone per trenta chilometri, pur mostrando una gamba invidiabile, ed ha avuto le forze per prendersi il bronzo nel finale.
I ragazzi di Rino De Candido hanno festeggiato l'argento di Antonio Puppio, il cui lavoro negli ultimi due mesi - e dopo il decimo posto europeo - con Dario Andriotto è stato straordinario. Rastelli e Gazzoli hanno completato l'opera con argento e bronzo nella prova in linea: la terza posizione di Gazzoli assume un valore specifico ancora più importante se si considera il percorso degli ultimi venti giorni del giovane bresciano, che il 27 agosto era fuori dai giochi con una clavicola fratturata, ed ha bruciato le tappe per salire sull'aereo per Bergen. E non è un caso che Ivan Basso ed Alberto Contador lo abbiano già precettato per la nuova formazione Continental Polartec-Kometa.
Sono mancate all'appello principalmente due categorie, per motivazioni diverse. Gli Under 23, orfani della generazione d'oro dei Ganna, Consonni, Ravasi, Moscon, Troia, si sono ritrovati un po' a corto di alternative, chiamando Vincenzo Albanese come prima punta (che si è giocato male le sue chance attaccando un po' alla rinfusa), esattamente come si fece a Doha con Jakub Marezcko (che portò in dote un bronzo). La prassi, rivedibile, di tutte le nazionali di andare a pescare giovani professionisti in età da Under 23, altro non fa che inquinare i valori della corsa. Ma è un altro discorso.
La nazionale Elite femminile, che puntava molto su Elisa Longo Borghini nella prova in linea, ha dovuto fare i conti con una maxi caduta (provocata da un'atleta belga) che ha coinvolto Elisa Balsamo, Elena Cecchini e la stessa Elisa Longo Borghini. La rimonta ha inevitabilmente sfibrato le azzurre, che hanno centrato il decimo posto della Cecchini come miglior piazzamento. Caduta a parte, sarebbe stato comunque difficile contrastare lo strapotere olandese, specialmente nel finale: le donne colorate d'arancio hanno portato tre possibili vincitrici nell'ultima fuga vincente, e hanno vinto con Blaak.
I 267 chilometri dominati allo sprint da Peter Sagan hanno sì incoronato lo slovacco, ma hanno anche messo in luce un'Italia che sta tornando protagonista. Sarebbe facile, in questo caso, bollare il quarto posto di Matteo Trentin come ennesimo fallimento di una nazionale che non va a medaglia dal 2008. Eppure lo sport, e con esso anche il ciclismo, vive di cicli e di fronte a Sagan c'è poco da fare. La tattica di gara degli Azzurri è stata pressoché perfetta: hanno preso la fuga con Alessandro De Marchi, hanno coperto ogni buco con Diego Ulissi ed Alberto Bettiol (commovente il suo lavoro), hanno (avevano) imbroccato la fuga giusta con Moscon e nel finale in volata si sono giocati le proprie carte con Matteo Trentin, eletto sprinter di giornata a due giri dal termine, con Elia Viviani in preda ai crampi. Più di così era difficile fare.
Si poteva attaccare prima? Si poteva fare corsa dura? Sì e no, ma vanno considerati alcuni fattori: assumersi la responsabilità di fare corsa dura, attaccando anche da lontano, sottointende che ci siano le gambe per sostenere un certo ritmo alla distanza e per avere lo spunto finale. Come ha dichiarato il commissario tecnico Cassani a margine della corsa, il percorso di Bergen ben si adattava a corridori che avessero nelle gambe la vittoria di classiche come la Sanremo, il Fiandre, la Roubaix. Il podio finale parla chiaro, molto chiaro. Sagan, Kristoff, Matthews. In un percorso da classica, il quarto posto di Trentin è il miglior risultato di un italiano in tutta questa stagione. Qualcosa vorrà pur dire.
La giornata degli azzurri è stata poi inevitabilmente incupita in maniera ulteriore dalla squalifica di Gianni Moscon, colpevole di essersi fatto trainare dall'ammiraglia nel tentativo di rientrare dopo la caduta. La rincorsa era già stata praticamente conclusa dal giovane trentino, che infatti era già in scia alle altre ammiraglie, ma l'errore non perde comunque di gravità. Se fosse arrivato a medaglia - e non ci è andato lontano per nulla - la questione avrebbe assunto contorni ancor più spinosi ed imbarazzanti. Bravo Cassani ad assumersi le responsabilità, ma comunque Gianni Moscon nell'occasione non è completamente da assolvere: un corridore ormai sa di essere circondato di telecamere anche in fondo al gruppo, leggerezze del genere non vengono più perdonate.
Archiviata l'edizione di Bergen (voto 10 al pubblico, straordinario, passionale e sempre presente, fin dalle gare degli junior), il lavoro d'ora in poi si concentrerà su Innsbruck 2018, un Mondiale che presenta difficoltà e profili altimetrici completamente diversi rispetto ai più recenti. Da Kufstein ad Innsbruck (la partenza e l'arrivo sono gli stessi della prima tappa dell'ultimo Tour of Alps, l'ultima vittoria di Michele Scarponi): saranno 259.4 i chilometri: cinque giri di un percorso caratterizzato dalla salita di Igls (7.9 km al 5.7%), più un circuito finale che comprende la stessa salita di Igls più lo strappo finale di Gramartboden, 2800 metri all’11.5% di pendenza media (massima addirittura al 25%). Un Mondiale ai livelli di un tappone dolomitico, con pendenze da ciclo-alpinismo nel tratto finale. Cambia lo scenario e con esso cambieranno gli interpreti: Vincenzo Nibali non ha nascosto la volontà di puntare a questo Mondiale (a 34 anni compiuti può essere una delle ultime possibilità), Fabio Aru potrà dire la sua, ma non solo. Davide Cassani ha fatto il nome di Gianni Moscon, ma anche quelli di Diego Rosa, di Damiano Caruso, di Domenico Pozzovivo. Ci sarà l'occasione, ben dieci anni dopo, di ri-giocarsi un Mondiale da (quasi) favoriti.
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