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Sopravvivere all'uragano Katrina e alla SLA: Steve Gleason, un "santo" come pochi

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 28/03/2020 alle 22:52 GMT+1

Nella storia del football si incontrano spesso degli eroi improbabili e delle vite spezzate. Steve Gleason è stato entrambe le cose durante la sua vita. Eroe di una New Orleans distrutta dall'uragano Katrina ma spinta dalla voglia di rialzarsi, l'ex giocatore della NFL oggi lotta contro la SLA.

Steve Gleason, le symbole de La Nouvelle-Orléans

Credit Foto Eurosport

Ci sono degli attimi che passano inosservati agli occhi di tutti, nascono dal nulla. Pochi secondi, dove l’acqua incontra l’aria. Il vapore marino si alza dalla superficie, viene imbrigliato dal vento e mescolato tra le nuvole. Ci sono attimi, manciate di secondi, in cui il destino degli uomini rimane sospeso proprio in quel leggero vorticheggiare, tra mare e cielo. Prima di quel 28 settembre 2005, gli abitanti di New Orleans avevano sempre visto il mare come loro alleato fedele; conciliava le note del sax, scandiva il ritmo blando della costa. Certo, arrivava sempre la stagione degli uragani e delle tempeste. Ma il mare sapeva bussare agli scogli e avvisare del suo malessere, che veniva tramutato in musica, dalla sera.
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Katrina

Credit Foto Eurosport

La gente di New Orleans non avrebbe mai potuto immaginare che l’inferno si trovasse lì, a pochi passi dai Caraibi, fatto di acqua e aria. Un bambino posò gli occhi sul paesaggio della costa. Sapeva che non vi avrebbe fatto ritorno per molto tempo. Perché Katrina, quel settembre del 2005, non bussò. In pochi giorni la gente di New Orleans si trovò intrappolata tra il vento che spazzava i tetti e la marea che bloccava i piedi. L’uragano creò brecce ovunque e avvelenò la città da dentro, non la fece respirare. Al termine del calvario la metropoli della Louisiana non esisteva più, si registrarono oltre 1800 vittime.

Il punt bloccato che risvegliò New Orleans

25 settembre 2006. Ci sono degli attimi che passano inosservati agli occhi di tutti, nascono dal nulla. Pochi secondi, dove il football si incrocia col cielo. La palla viene calciata da terra e si alza in verticale, fino alle vertigini. Ci sono attimi, manciate di secondi, dove il destino delle partite rimane sospeso tra terra ed aria, nel vorticheggiare di quel diamante scagliato lontano, nella metà campo avversaria. Stiamo parlando del punt, una tipica azione che si incontra spesso nelle partite di football americano. Quando una squadra deve restituire il possesso agli avversari, ecco che il punter calcia la palla: in base alla parte di campo dove la palla si ferma, la squadra avversaria dovrà ripartire da quel punto. Attorno al punter si generano mischie ordinate e ben scandite, che cozzano contro gli scogli dei suoi compagni di squadra: gli avversari cercano di bloccare il calcio, per ripartire dalla posizione più favorevole possibile. I compagni del punter invece, devono respingere questi tentativi fornendo tempo necessario al rinvio.
In quella mischia, un giocatore con la faccia da bambino fissava la palla prima dello snap. Sapeva che quest’ultima non avrebbe mai fatto ritorno nella sua metà campo. 3-2-1… il via. Steve Gleason fece breccia all’interno del muro che proteggeva il punter. Non gli diede tempo di respirare, lo avvelenò. Bloccò la palla di corpo pieno, tuffandosi a corpo morto. La palla colpita rotolò alle spalle della mischia, verso la endzone dei Falcons. Curtis Deloatch (Saints) la raccolse, segnando touchdown. Gleason aveva appena realizzato uno dei blocked punts più importanti nella storia della NFL, e della città di New Orleans. Perché quel 25 settembre era la prima partita giocata in casa dei Saints dopo la tragedia di Katrina e quel punt bloccato arrivò nei primi secondi di gara. Perché un popolo intero, assieme a Gleason, ne aveva avuto abbastanza di affidare il proprio destino all’aria; c’era bisogno di sicurezza, c’era bisogno che quella palla rimanesse ancorata al terreno di gioco senza spiccare il volo. C’era bisogno di un touchdown per far ripartire tutto. I Saints vinsero la partita 23 a 3, Gleason divenne leggenda.

Quel Superdome simbolo dell'orrore

Sopra le teste della folla si trova ancora oggi una cupola. È il tetto del Superdome, lo stadio dei New Orleans Saints. Durante il cataclisma, lo stadio aveva offerto riparo a circa 30.000 esodati. Persino la cupola vacillò pericolosamente sotto le poderose sferzate del vento. L’acqua filtrava dappertutto, l’elettricità a un certo punto venne a mancare. Non ci fu altra soluzione che evacuare lo stadio e portare i naufraghi in salvo, verso Houston. Ci furono 3 morti durante quei giorni di totale abbandono nello stadio. Due anziani in condizioni di salute precarie e un suicida che si buttò dagli spalti. Testimonianze riferirono di risse e stupri. In pochi giorni, il Superdome aveva effettuato una surreale transizione: da ancora di salvataggio per la comunità, a simbolo dell’orrore causato da Katrina.
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30 août 2005 : les réfugiés à même la pelouse dans le Superdome. On voit la lumière pénétrer par un des trous causés dans le toit par Katrina.

Credit Foto Getty Images

L’uragano si era abbattuto qualche giorno prima dell’inizio della nuova stagione NFL. I New Orleans Saints divennero una squadra nomade. Disputarono le loro partite casalinghe a New York, poi a Baton Rouge (capitale della Louisiana) e a San Antonio. Quella stagione fu un fiasco, solo 3 vittorie e 13 sconfitte e il futuro della franchigia era più incerto che mai. La ricostruzione dello stadio procedeva lenta, ma il miracolo si compì lo stesso. Il 25 settembre 2006, un anno dopo la tragedia, il Superdome riaprì i battenti. La partita contro gli Atlanta Falcons assunse da subito dimensioni di importanza nazionale.
È qui che ritroviamo Steve Gleason, defensive back stabilitosi già da 6 anni sulla costa della Louisiana. Al tempo era uno dei giocatori più anziani del gruppo. Assieme a sua moglie, Michel Varisco, avevano deciso di stabilirsi nel centro della città, lontani dai quartieri chic dove tutti i giocatori erano soliti riunirsi:
In una certa misura ho sempre sentito la mentalità della città come mia, sebbene non fossi nato qui. Un anno dopo Katrina riuscii a percepire la sofferenza della popolazione.

Il ritorno a casa dei Saints

Il 2006 vide un nuovo coach prendere per mano New Orleans. Non l’avrebbe lasciata più. Sean Payton, il giorno prima della gara contro Atlanta, convocò tutti i giocatori al centro del rettangolo di gioco del Superdome. L’odore della vernice fresca resisteva ancora, e per molti di loro si trattava dei primi passi sotto quella cupola di martiri. Payton chiese di spegnere le luci sul terreno di gioco. Venne mostrato, sullo schermo gigante, un documentario di ESPN che riassumeva gli ultimi 13 mesi. Katrina, la sua violenza, la sua desolazione. Infine un messaggio registrato dai fans dei Saints: “Go Saints! Non vediamo l’ora di rivedervi! Siamo con voi.”
Quando le luci si riaccesero, Sean Payton esordì:
Il mio mestiere mi impone di prepararvi. E il modo migliore per farlo è farvi percepire che cosa vivrete questo lunedì. Avete visto questa gente? Saranno qui, lunedì sera. Non possiamo deluderli. Se noi perdiamo, sarà un match come gli altri. Ma se noi vinciamo, vi prometto che sarà unico.
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Steve Gleason (N°37) avec les Saints, en 2002.

Credit Foto Getty Images

In mezzo a quel gruppo di giocatori si scorgevano i capelli lunghissimi di Steve Gleason. Nessuno probabilmente si sarebbe mai aspettato che il suo nome potesse scrivere la storia. Forse neanche Steve; era uno di quei giocatori che servivano a completare l’organico, da riporre nello scatolame degli special teams, ovvero quelle formazioni che non appartengono né ad attacco né alla difesa, ma che scendono in campo in situazioni specifiche, come i punt. Al di fuori dell’undici titolare dunque, Gleason si rendeva utile come poteva; ma non impressionava in nessuna caratteristica chiave che il football di allora richiedesse: era basso, non particolarmente rapido. Non era stato selezionato nemmeno al draft. Ma sapeva essere uomo spogliatoio, ed esempio di duro lavoro. Perché se giochi nella NFL, o sei un gigante predestinato o sei un soldato fedele. Gleason era l’incarnazione di quest’ultimo caso.
Il silenzio dei secondi precedenti allo snap cancellò tutto. Gleason vide le fila avversarie aprirsi di fronte a lui. Punt bloccato. In pochi secondi i “Santi” erano tornati, ma questa volta non più dal cielo, ma dalle macerie delle case, degli stadi che da quel punto in poi cominciarono a intravedere una luce. Lo stesso anno i Saints si arresero solo alle Conference Finals e 3 anni più tardi vinsero l’unico Super Bowl della loro storia. Ma tutto cominciò da lì, da quella manciata di secondi in cui la palla non balenò in aria come tutti si aspettavano, in quella manciata di secondi invisibili per tutti, in cui l’uragano Gleason si abbatté sulla terra.

Il momento che definì un decennio

La NFL designò tali attimi come “il momento più importante del decennio”, e nel luglio 2012 fu eretta una statua raffigurante il tuffo del defensive back. La statua porta il nome di “Rebirth” (rinascita). Michael Koenen, il punter che subì il blocco, reagì così alla statua:
Un giorno mostrerò ai miei figli questa statua. Non mi vergogno di esserne la parte perdente, è un onore essere al fianco di Steve.
Nel discorso di inaugurazione, Steve la battezzò così :
Questa statua non parla né di me né del football. Evoca la solidarietà e la perseveranza di una comunità intera che si è fatta forza e si è riunita in un solo istante, per dimostrare al mondo che non era ancora sconfitta.
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La cérémonie de réouverture du Superdome, en septembre 2006.

Credit Foto Getty Images

La SLA: un altro uragano

5 anni dopo il grande avvenimento, Gleason rivelò pubblicamente la sua sofferenza. La SLA gli era crollata addosso senza preavviso, e ne aveva sconvolto la vita. La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia degenerativa. Il cervello si separa poco a poco dalle funzioni muscolari e vitali. Dopo poco tempo, non ti fa pù camminare né parlare. Ti impedisce di respirare. L’aspettativa di vita è compresa tra i 3 e i 5 anni. Ma più di 8 anni dopo la comparsa dei primi sintomi, Gleason è ancora vivo. Le fondamenta del Superdome impallidiscono osservando la sua resilienza.
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Steve Gleason avec son fils, Rivers, en 2013.

Credit Foto Getty Images

Lui e Michel continuano a crescere due bambini. In carrozzina, ammutolito e attaccato a un respiratore artificiale, oggi Gleason è il simbolo della lotta per la vita di fronte a tale malattia. Il suo motto è “no white flags”, mai gettare la spugna.
La considero come un’opportunità per continuare ad essere una fonte di ispirazione per gli altri.
Per condurre la sua battaglia contro la SLA ha stanziato fondi, organizzato conferenze con i più notabili studiosi in materia, fondato l’associazione “Team Gleason”. Nel 2015, l’allora Presidente Barack Obama approvò il “Steve Gleason Act” che integrava alla sua famosa riforma sulla sanità, delle misure di facilitazione all’accesso degli strumenti che tengono in vita le persone afflitte dalla malattia.
Inoltre Gleason si è lanciato in avventure estreme, che testimoniano la sua incrollabile voglia di vivere: nel 2013 ha intrapreso un viaggio a Machu Picchu, si è lanciato col paracadute, trascinando assieme a sé la famiglia, altre persone affette da SLA e il suo migliore amico Scott Fujita, che racconta:
Andare così in alto col paracadute quando si hanno problemi respiratori, o camminare fino a Macchu Picchu quando si è in carrozzina, solo Steve può fare queste cose.
Il loro rapporto è rimasto invariato dalla malattia, semmai ne è uscito rinforzato dalla necessità di trattare temi più profondi, di chiarirli il più possibile con l’urgenza del tempo che passa.
Ma gli effetti della SLA, non si misurano agli apici del tempo. Gleason non ha problemi nel fare i conti con la sua morte, o con il libretto contabile della sua vita. Anche la città di New Orleans ha saputo ricostruirsi nel lungo periodo, dell’uragano rimane poca traccia materiale. Ma il dramma di Gleason si consuma nella quotidianità, nell’occhio del ciclone.
L’idea di un domani mi terrifica e mi deprime.
Una malattia, un uragano che gli ha rubato il proprio corpo, la propria casa. La SLA lo ha colpito a livello intimo, dove non si aspettava.
Prodotto nel 2016, il documentario “Gleason” aiuta a comprendere la fatica dietro al suo stile di vita:
Durante le cerimonie sono l’eroe. Poi 5 minuti dopo la fine mi devo sedere in carrozzina. Quando rientro a casa mi devo far aiutare al gabinetto e togliere i miei pantaloni pieni di merda. Questa è la mia vita.
Il film analizza il suo stato in maniera schietta e disarmante, pur conservando i momenti più dolci e distesi, condivisi col figlio Rivers. Il piccolo sembra conservare quella tendenza indomabile e devastatrice che caratterizzava il padre da giovane. Allora la malattia sembra discostarsi solo per qualche minuto, come se non potesse vincere questa sfida. Oggi Steve guarda negli occhi il suo bambino. Sa che nulla potrà tornare come prima. Ma sa anche che gli attimi da vivere a pieno sono proprio questi, le manciate di secondi che passano inosservate ai più, ma che definiscono gli eroi.
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