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La triste storia di Matteo Donati: quando nel tennis non basta avere talento

Federico Ferrero

Aggiornato 01/11/2023 alle 14:51 GMT+1

TENNIS - La storia che vi racconto, in prima persona e che narra di casi singoli, nasce (anzi, finisce) pochi giorni fa, quando ho letto un post su Instagram di Matteo Donati. Nel quale il giocatore alessandrino dice ciò che, ormai, nell’ambiente del tennis italiano si sapeva: smette di giocare. Ad appena ventotto anni.

Nel tennis purtroppo il talento non basta: la triste storie di Matteo Donati

Credit Foto Eurosport

Almeno due cose sono sbagliate, in questo pezzo che state per leggere. La prima è che non si dovrebbe parlare in prima persona, o meglio, è una moda un po’ passata dai tempi dei grandi reporter che potevano permettersi di scrivere “Io ho visto, io ho sentito, io penso che”. Questo anche se uno degli incipit più belli del giornalismo italiano, «Scrivo da un paese che non esiste più», è in prima persona e la persona era Giampaolo Pansa, inviato 60 anni fa, nell’ottobre del 1963, a dare testimonianza ai suoi lettori della tragedia del Vajont.
La seconda cosa sbagliata è che non bisognerebbe usare l’induzione – non dico quella che serve per cuocere la pasta ma il trarre considerazioni generali da casi particolari. Proprio questa mattina, sentivo un tizio su YouTube spiegare che suo nonno ha novantasette anni, da quando ne ha diciotto, fuma un sigaro al giorno e, quasi quasi, gli era venuta voglia di imitarlo per garantirsi una lunga esistenza. Bene: la medicina dice che puoi essere salutista e morire a venti, così come fare come il peggior debosciato, mangiare, bere, fumare e campare fino a cento. Ma sono casi singoli: la statistica indica chiaramente che fare vitaccia accorcia la vita e non la allunga. Magari la rende più divertente, sì, ma questo è un altro argomento che non è il caso di trattare qui.

La storia di Matteo Donati

La storia che vi racconto, in prima persona e che narra di casi singoli, nasce (anzi, finisce) pochi giorni fa, quando ho letto un post su Instagram di Matteo Donati. Nel quale il giocatore alessandrino dice ciò che, ormai, nell’ambiente del tennis italiano si sapeva: smette di giocare. Ad appena ventotto anni. Tre operazioni al gomito in quattro anni sono troppe anche per un atleta giovane e determinato come lui. Donati lascia controvoglia, avendo fatto molto meno di quanto avrebbe potuto, fosse rimasto in salute. Già, fosse. Numero 159 al mondo come best ranking, di lui ricordo due belle partite a Roma 2015 contro Giraldo (vinta) e Tomas Berdych (persa). In realtà di lui rammento anche un pomeriggio quando aveva l’età di mio figlio, nove anni da compiere. Alcune delle foto che vedete qui le ho fatte io, alla Canottieri di Alessandria, in quel 2004.
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Matteo Donati nel 2004, credit Eurosport/Federico Ferrero.

Credit Foto Eurosport

La rivista di tennis per cui scrivevo mi mandò a vedere un ragazzino di cui si parlava un gran bene e avevano ragione: tecnicamente, faceva impressione. Sapeva già fare tutto. Era ancora piccolo ma la madre il coach di allora, Marchegiani, erano certi che sarebbe cresciuto – infatti sfiora il metro e novanta – e, credetemi, in quel periodo l’Italia era talmente disperata per la mancanza di giocatori di alto livello che quello scolaretto delle elementari piemontesi subiva già la pressione di venire considerato il prossimo campione che l’Italia attendeva con tanta ansia. Una speranza condivisa: difatti, Nike lo aveva messo sotto contratto il più presto possibile.
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Matteo Donati nel 2004, credit Eurosport/Federico Ferrero.

Credit Foto Eurosport

Appena ho letto del ritiro, con quel testo che Donati ha scritto con palpabile dolore e sconforto perché non avrebbe mai voluto doversi pensionare così presto, ho chiamato Massimo Puci, uno dei tre fratelli che hanno creato quella bella realtà che è il Match Ball di Bra, in provincia di Cuneo. Un posto comunale, senza fronzoli, che i Puci gestiscono da tempo e da cui sono usciti piccoli fenomeni come Andrey Golubev. Anche Donati si allena lì da anni, anzi, ci ha preso pure casa. Non ci sentivamo da un po’ e ci siamo fatti una bella chiacchierata.
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Matteo Donati nel 2004, credit Eurosport/Federico Ferrero.

Credit Foto Eurosport

L'inizio della fine

Max ricorda come iniziò la fine. Era il 2019 e Matteo era intorno alla duecentesima posizione, stava finalmente bene ed era lanciato per entrare nei primi cento. Nel tie-break del primo set di un match che Matteo disputava contro Jurij Rodionov a Marbella, steccò uno smash e sentì un dolore strano al gomito. Vinse comunque la partita e perse al turno successivo. Poi andò a Sophia Antipolis, casa Mouratoglou, per giocare il torneo organizzato nell’accademia. Perse contro Dustin Brown nei quarti e l’impegno successivo erano le qualificazioni del Roland Garros. Giocò tre quarti di partita, e quasi la stava vincendo pur avendo messo in conto di ritirarsi, giusto per prendere i 7.000 euro di assegno e, finalmente, si fermò perché il dolore non accennava a mollare. Rincasato, il primario del Cto di Milano parlò col fisioterapista di Matteo in questi termini dopo la visita: questo ragazzo tornerà molto difficilmente a giocare a tennis.
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Matteo Donati nel 2004, credit Eurosport/Federico Ferrero

Credit Foto Eurosport

Aveva ventiquattro anni e un medico specializzato aveva già capito. Solo che, non andò come in quelle belle storie in cui una truppa di professoroni giurano al tale atleta che non potrà più camminare e quello poi vince l’oro alle Olimpiadi. Il medico aveva semplicemente ragione, come spesso succede: anche perché non era un problema muscolare ma si trattava del legamento che non reggeva l’articolazione, sicché non c’era terapia preventiva né rinforzo che tenessero. Su un calciatore, un problema simile agli arti inferiori può anche essere gestibile, per quanto restino segni dell’operazione chirurgica, ma un tennista sollecita il gomito centinaia, migliaia di volte ogni giorno di allenamento o di partita. Non c’era scampo, doveva capitare un miracolo e non capitò.
Sostanzialmente, di lì in avanti la carriera di Donati è stata una licenza sportiva tra una operazione e l’altra. Fermo per il resto del 2019 e per tutto il 2020, ha disputato dodici tornei nel 2021, altrettanti l’anno scorso, cinque quest’anno (partite vinte in stagione: una) e poi basta. Ha ragione Max quando dice che questo era «giochicchiare», non giocare. Eppure, Matteo ha dato la sua vita al tennis, da quando aveva tre anni. Ha passato le sue giornate in campo e ad allenarsi, non ha avuto una vita che non fosse con la racchetta in mano, con una dedizione e una volontà non scontate tra i suoi coetanei e la passionaccia del tennis che lo aveva preso totalmente, tanto da aver sacrificato la giovinezza e le sue pertinenze pur di sfondare. Cosa mai avrebbe potuto fare, se la sua carrozzeria avesse retto la potenza motore, non è facile da dirsi. Tutto fa pensare che il suo tennis valesse comodamente un posto nei tabelloni principali Slam, anche se magari non da testa di serie fissa. Avete presente Fucsovics? Ecco, una cosa così.

Edoardo Eremin, una storia simile

A proposito di Fucsovics, che è il tennista col fisico più ripped mai visto, per associazione di idee ho pensato a Edoardo Eremin. Un altro italiano che si pensava potesse sfondare, figlio di quell’Igor Eremin che diede a Puci una videocassetta nella quale si vedeva un bambino russo che giocava a tennis sul linoleum (!). Puci vide il filmato, rimase sbalordito, chiese di “adottarlo” e scoprì che si chiamava Andrey Golubev. Sul quale, al di là dei risultati, posso darvi testimonianza di una cosa che Andy Roddick andò a dire a coach Puci dopo averlo battuto a Basilea: «Cura bene questo ragazzo, perché ha un tennis da top 10». Difatti, di lì a poco il compianto Ken Meyerson, agente di A-Rod, diventò anche curatore degli interessi di Andrey.
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Edoardo Eremin, Foto sito FITP

Credit Foto From Official Website

Eremin, dicevo. Tra i primi commenti su Instagram all’addio di Donati ho letto la risposta di Edoardo: «Eh, ti capisco. Ne abbiamo passate tante». Confesso che mi ero un po’ scordato di Eremin ma mi sono tornate in mente quelle sere in cui, insieme agli amici del martedì, tiravamo due pallate al Match Ball di Bra. Una volta, passando accanto a un pallone, non sentivo colpi ma fucilate. Feci capolino e vidi Puci con questo ragazzo che, davvero, lasciava i buchi per terra. «Serve a duecentotrenta», mi disse Max. Avrà avuto diciott’anni, non di più, ed era il figlio del maestro russo di casa a Bra. Ex 292 Atp, Edoardo ha mollato alla stessa età di Donati, nell’estate 2021. Sono andato a riprendermi la sua lettera d’addio: «Ho sacrificato tutto per il tennis, fin da bambino, rinunciando alla famiglia e agli amici ma non mi è mai pesato. Col passare dei mesi, non vedo più prospettiva in questo mondo, per me, ed è giunto il momento di guardare in faccia la realtà. Lascio il tennis professionale con la consapevolezza che certi sacrifici fossero diventati più un peso che un piacere. Non ero più felice. Troppi infortuni, qualche scelta sbagliata e una personalità un po’ particolare non mi hanno permesso di arrivare dove ho sempre sognato». Eremin aveva un fisico da Ivan Drago, una massa esorbitante. Un metro e 85 per 90 chili di muscoli, con percentuali di massa grassa da bodybuilder poco prima di Mister Olympia, quando smettono di mangiare carboidrati per “tirarsi” il più possibile. Non ne poteva niente, Eremin, era fatto così. Pino Carnovale, lo storico preparatore italiano, diceva che sarebbe stato perfetto per il lancio del giavellotto. Purtroppo, col tennis, tutti quei muscoli possono essere più un problema che un vantaggio: le cosce gli esplodevano sotto i pantaloncini e, chissà, con quel tipo di fisico e di gioco avrebbe avuto più possibilità negli anni delle superfici rapidissime e del gioco uno-due, non certo adesso. Invece aveva lo stiramento sempre pronto ad attenderlo dietro l’angolo e la sua carriera non decollò mai.

Il talento non basta, purtroppo

Due storie diverse, casualmente capitate sotto lo stesso tetto. Per dire cosa? A me, ha fatto pensare che chi vediamo (o, nel mio caso, commentiamo) in televisione è un animale raro. Raro perché ha avuto dalla natura le qualità per farcela e, di suo, la volontà di inseguire un sogno accogliendo sacrifici che tante persone, giovani e meno, non accetterebbero. Ma non basta mica: talento non è solo essere alti, forti, coordinati, “sentire” bene la palla e avere il carattere per una sfida globale come quella del Tour. Talento è anche avere un fisico che, sollecitato al limite come oggi richiede lo sport, non ti tradisce e non si spacca. Come chiamarlo? Culo? Io direi di sì: perché vorrei sapere quale responsabilità avrebbe, uno come Donati (ma anche uno come Eremin) nel non potersi fidare del proprio corpo. Certo, prevenzione e programmazione, attenzione e cura sono importanti. Uno pensa a Djokovic e dice toh, questo non si rompe mai perché è un maniaco della preparazione fisica fin da ragazzo. Ma è anche vero che Marco Panichi, che lo segue da una vita, più di una volta ha detto, ridendo ma non scherzando, che Novak dovrebbe fare un monumento… ai suoi genitori. Per il Dna che gli hanno passato. Se la tua schiena, o gli addominali, o il gomito sono fatti di ghiaccio, si spezzano. E non basta riassemblarli. La mia è una battaglia persa, lo so, ma ogni volta che sento parlare di «basta crederci e ce la fai», «basta lavorare e arrivi», mi tremano le vene ai polsi. Ci sono atleti che, sebbene sputino l’anima, riescono forse a diventare 2.5. O a prendere un punto Atp. Ce ne sono altri – vedi Donati, e mi sa pure Eremin – che hanno quasi tutto quello che serve per correre in Formula Uno: motore, gomme, abilità al volante, serietà, voglia. Poi, però, ti montano un circuito elettrico fallato e tu sei fregato: sul più bello si spegne il display sul cruscotto e tu, invece di accelerare verso il traguardo, devi accostare nell’erba e fartela a piedi fino ai box, smoccolando. Fino a quando vedi la classifica che cala inesorabilmente, i soldi che finiscono, i medici che ormai frequenti più dei tornei e il tempo che passa. Alla fine, ti arrendi. Anche se non vorresti, anche se non è giusto.
So che Matteo Donati continuerà a frequentare i campi di Bra in un’altra veste: i Puci hanno non solo il tennis e gli altri sport gestiti per conto del Comune ma anche la licenza per i campi Greenset e un brevetto di recente introduzione, che si chiama Easygrip e – mi ha spiegato Massimo – aiuta a correggere l’impugnatura nel tennis e negli altri sport di racchetta, padel e pickleball. Matteo è un ragazzo sveglio e ambizioso, non ho dubbi che riuscirà a trovare motivazioni per farsi strada anche senza il suo amato campo da tennis. Di Eremin non so molto, se non che si è dato al padel a Torino e, da quello che si vede sui social, pare soddisfatto della sua nuova vita. Ha compiuto trent’anni da pochi giorni e spero per lui che i rimpianti li abbia chiusi da qualche parte, fuori dalla portata dello sguardo. Perché ci sono quelle volte, nella vita, in cui non ne puoi niente. E in cui non sai con chi prendertela perché, davvero, non c’è nessuno a cui dare la colpa. Men che meno a te stesso.
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