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Trent'anni dal successo di Michael Stich a Wimbledon 1991: due settimane da Dio

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Aggiornato 04/07/2021 alle 17:56 GMT+2

WIMBLEDON - A trent'anni dal suo storico successo a Wimbledon, Michael Stich si racconta a Federico Ferrero. Dal cammino nel torneo 1991, primo anno in cui si dovette giocare anche nella prima domenica, alla contemporaneità, che nel 2021 vede proprio quest'anno l'ultima domenica di 'never on Sunday'. Di tennis, rovesci, sensazioni, arte e fururo: Michael Stich.

Michael Stich a Wimbledon 1991

Credit Foto Getty Images

Per un appassionato di tennis devoto, il rovescio piatto di Michael Stich era una manifestazione di Dio. Eppure, per poco, non ce lo siamo perso. Da ragazzino - terzo figlio di Detlef, un uomo d’affari di Amburgo, e di Gertrud, una dattilografa dedita all’educazione dei figli che, purtroppo, ha lasciato questo mondo troppo presto - Michael giocava anche a calcio e, soprattutto, studiava. Gli piaceva il tennis, eccome, ma lo praticava senza sogni di gloria e tirando il rovescio a due mani. «Poi mi accorsi che ero costretto a correre di più, e la cosa non mi piaceva. Decisi di staccare la mano sinistra. Ma non era un colpo così buono». Scarsino il rovescio di Stich: a sentirglielo dire, per chi ha negli occhi quegli impatti da stropicciarsi gli occhi, si fatica a crederci. Il tennis può ringraziare il destino se una delle esecuzioni più fluide della storia del tennis, morbida come le movenze del barone Von Cramm e rapida come il gioco degli anni Novanta, non ci è stata negata. «Capitò che nel primo anno di attività giocassi spesso il doppio con Martin Sinner: insieme, vincevamo tanto».
Niente a che vedere con il nostro Jannik dall’Alto Adige, Martin veniva da Coblenza ed è stato un buon professionista, probabilmente un underachiever per il colpitore eccezionale che era; fu comunque capace di vincere due titoli Atp e di entrare nei primi 50 del mondo. «Martin aveva un rovescio lungolinea fantastico. Mi dissi: se lo fa lui, lo posso fare anche io. Così, passavamo ore a scambiare di rovescio in direzione lungolinea, che è la più complicata, e lo feci finché non riuscii a giocarlo come piaceva a me. Trent’anni fa, le racchette erano diverse, si incordavano col budello: il topspin che si vede oggi sarebbe stato impossibile. Le superfici veloci, poi, invogliavano a giocare un tennis piatto, e a non offrire palle lavorate all’avversario, che rimbalzassero di più e si potessero colpire meglio».
La sua Fischer Vaccum Pro sembrava un prolungamento naturale dell’arto. «Da ragazzo ne cambiai tante: iniziai con la Snauwaert Brian Gottfried, la mia prima racchetta. In legno. Dopo alcuni esperimenti, capitò che, giocando la Bundesliga, un compagno di squadra mi prestasse la sua Fischer Vacuum Pro. Aveva un piatto corde piccolo (90 pollici, ndA) con uno sweetspot molto limitato. Ma se colpivi bene, la sensazione era fantastica». Se, come l’if di Rudyard Kipling che campeggia sull’ingresso del Centrale di Wimbledon. Stich sapeva suonare quell’attrezzo con l’arte dei migliori: in mano a uno qualunque, diventava una chitarrina scordata.
A Wimbledon 1991, nella seconda settimana, Michael Stich giocò semplicemente il tennis degli dèi. Fu un’edizione bislacca del torneo: nei primi giorni, faceva così freddo che si girava all’ora di pranzo col maglione e pioveva che una di quelle divinità la mandava. A un certo punto, ricorda Stich, presi dalla disperazione «gli organizzatori improvvisarono un breve concerto di sir Cliff Richard sul campo centrale». Cantò a cappella, con Martina Navratilova e altre star a fare da coriste sulla gradinata.
Il comitato, così restio al cambiamento del protocollo, fu costretto obtorto collo a violarlo e a far giocare nella sacra domenica di mezzo, per poter recuperare il tempo perduto. Dovendo peraltro sorbirsi il turpiloquio dissacrante di John McEnroe contro il povero Jean Philippe Fleurian, il giudice di sedia Richard Ings, il pubblico, i giudici di linea e l’universo, e ciò ogni volta in cui qualcuno non ubbidiva al suo volere.
I giornali, per conto loro, erano incuriositi da quel tizio strambo con i capelli colorati, Andre Agassi, presentatosi col suo completo ribelle ma lavato in candeggina per rispettare le regole total white del circolo. La loro storia dei primi giorni era l’impresa di tale Nick Brown, che vox populi raccontava essere maestro di tennis per sbarcare il lunario: riuscì a battere Goran Ivanisevic, in uno di quei giorni in cui il croato era disposto a regalare gloria al primo di passaggio.
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Andre Agassi a Wimbledon 1991

Credit Foto Getty Images

A Stich, testa di serie numero 6, servirono quattro giorni per terminare il primo turno contro Dan Goldie, buon erbivoro yankee e ancor più uomo di successo dopo il ritiro, come promoter finanziario. «Erano decenni che non si vedeva una pioggia così. Piovve il lunedì, il martedì. Riuscimmo a giocare un po’ di mercoledì e, finalmente, il giovedì finimmo la partita. Onestamente, non fu un problema essere costretto a tutti quei rinvii, anzi: dopo la semifinale al Roland Garros avevo giocato Rosmalen, e quei giorni in più di recupero me li presi tutto sommato volentieri, anche se l’attesa poteva essere snervante».
Nessuno parlava di Michael Stich. Arrivò a Church Road con un seeding da quarti di finale, d’accordo, ma aveva iniziato l’anno intorno alla cinquantesima posizione mondiale. Si ritrovò catapultato nei top ten con tanto di semifinale al Roland Garros, persa un paio di settimane prima contro Big Jim Courier ma, per i piani alti del tennis, era ancora un oggetto sostanzialmente sconosciuto. In Germania si parlava di Becker e di Graf, oppure di Graf e di Becker. Boris aveva vinto i Championships da ragazzino, quando Michael era impegnato nel prendere il diploma e nel rendere orgogliosi mamma e papà, che avevano già avviato allo studio universitario i suoi fratelli più grandi, Thorsten e Andreas.
Nel secondo turno, Stich trovò il campione juniores di Wimbledon 1987 Diego Nargiso, col suo serve&volley mancino pestifero, entrato in tabellone come lucky loser. Vinse 6-3 6-4 6-7(5) 6-2 per una semplice ragione: «Diego aveva un servizio dal movimento unico, ma io con i mancini non ho mai avuto problemi». Con quel rovescio, difficile potesse essere altrimenti. «Ma per quell’erba, che era così veloce, lui aveva colpi da fondo, risposta e passanti un po’ troppo deboli». Un altro italiano lo aspettava al terzo turno, Omar Camporese. Un campione che sarebbe potuto essere ancora più forte, se avesse avuto più fame di vittoria. «Omar era un gran giocatore, con un ottimo tocco di palla. Ma aveva delle aperture ampie, sul dritto e sul rovescio. Sull’erba lenta di oggi si sarebbe trovato alla grande, ecco, ma non su quella del 1991. E poi non gli piaceva fare serve&volley. Nonostante fosse alto e forte, poi, magari non era l’atleta più in forma del circuito». Stich ebbe la meglio 7-6(0) 6-2 6-7(4) 6-4 e si guadagnò la seconda settimana.
La sua sliding door stava per arrivare: ottavi di finale, sul terribile campo 2, noto come The graveyard of champions, la tomba dei campioni. Poco prima di lui l’ennesima vittima illustre, la povera Jana Novotna, disarmata dal power tennis di Brenda Schultz. Stich affrontò il talento selvaggio di Alexander Volkov, talento che leggeva Kant e interpretava il gioco in maniera tutta sua, purtroppo pure lui mancato in giovane età, dopo un’esistenza travagliata. Volkov era un falso mancino, costretto a giocare un tennis che pareva scoordinato e casuale con la mano sinistra, dopo un incidente in gioventù. «Poteva tirare tre colpi di fila a tutta velocità sulla riga e i tre successivi oltre la recinzione», rammenta Stich. Quel giorno, il russo era più orientato del solito a restare nei confini del campo. La partita si era messa male: Stich finì sotto di un break nel quinto set, Volkov ebbe la palla del doppio break. «Sinceramente, credevo fosse finita. Era una di quelle giornate in cui non mi riusciva quasi niente. Sbagliai la prima di servizio e tirai a tutta la seconda, come a dire: o la va, o la spacca. Feci un ace. E mi dissi, conoscendolo, che avrebbe potuto anche rimettermi in partita». Sul 5-3 30 pari, Volkov si presentò a rete. Stich tirò un passante in corsa di dritto che Volkov avrebbe potuto chiudere comodamente con un colpo di volo nel campo aperto ma, proprio come era accaduto a Becker agli Us Open 1989 contro Derrick Rostagno, la palla si impennò sul nastro, divenne un lob e scavalcò beffardamente Volkov. Il russo crollò: non vinse più un punto fino al punteggio finale, 4-6 6-3 7-5 1-6 7-5.
Ad aspettarlo nei quarti di finale, il campione di Parigi Jim Courier, testa di serie numero 4. Stich, ormai, era lanciatissimo. Se sulla terra rossa la forza bruta dello statunitense lo aveva piegato, sull’erba londinese era un’altra storia. «Per la prima volta entrai sul Centrale per giocare. Passai sotto la frase leggendaria di Rudyard Kipling che porta all’ingresso in campo, e la cosa mi impressionò. Nei primi passi sul prato, sentii addosso la storia del tennis. Pensai a Jean Borotra, a Rod Laver, a John McEnroe, ai grandi tedeschi del passato… Sembrava che ciascuno di loro avesse lasciato qualcosa di sé, sul campo. Ma dopo essermela cavata in quel modo contro Volkov avevo la sensazione di essere un sopravvissuto, e che fosse il mio momento. Avevo una sensazione chiara: non dovevo più pormi limiti. Sull’erba, poi, contro Jim, ero sicuro di vincere. Non che non giocasse bene, due anni dopo avrebbe anche guadagnato la finale a Wimbledon, ma sapevo che avrei dovuto vincere». Difatti, con una prestazione di sicurezza disarmante, Courier non trovò un solo varco per passare Stich a rete né per rispondere alle prime di servizio fulminanti del tedesco, e finì senza patemi in tre set: 6-3 7-6(2) 6-2.
Per chi crede alle stesse entità ultraterrene che mandano fulmini giù dai nembi Jimmy Van Alen, l’inventore del tie-break, morì il 3 luglio 1991. Il giorno del suo funerale, il 5 luglio, nel torneo più prestigioso del pianeta avvenne la definitiva consacrazione della sua invenzione, che si manifestò in tutta la sua beffarda crudeltà. Ancora oggi, quando si vuole dimostrare che i punti nel tennis non si contano ma si pesano, c’è gente che cita quel match. La semifinale di Wimbledon ‘91 tra Stefan Edberg e Michael Stich, terminata 4-6 7-6(5) 7-6(5) 7-6(2). Da quel giorno in poi, Stich venne soprannominato in patria Herr Tie-break, il signor Tie-break. «Però Stefan non era solo il numero uno del mondo, per me era Mister Grass, il signor Erba. Aveva giocato la finale a Wimbledon negli ultimi tre anni e ne aveva vinte due, contro Boris. Eppure, non mi spaventava, perché non tirava così forte, ti faceva giocare. A differenza di Sampras, per esempio, anche se Pete ha sempre avuto difficoltà ad affrontarmi. Oltretutto, era uno dei pochi che serviva regolarmente la seconda palla sul mio rovescio, e la cosa non poteva che farmi piacere. Quella partita fu comunque frustrante anche per me: lui si muoveva così velocemente, e faceva serve&volley in maniera così efficace che non riuscii neanche ad avvicinarmi a una palla break per tutta la partita. Giocava troppo bene. Mentalmente fu uno sforzo notevole: dopo aver perso la battuta una volta nel primo set, mi resi conto che non mi sarei più potuto permettere di perdere il servizio, altrimenti addio finale. Nei tie-break, sapevo che sarebbe potuto succedere di tutto. E infatti successe: sul setpoint del secondo set steccò uno smash, su quello del terzo colpì il nastro con un passante». Nel quarto set, ancora una volta terminato al tie-break, il solitamente impassibile Edberg ebbe forse la viva sensazione che quel match fosse abitato dal demonio: «Sbagliò due palle facili e credo che, di lì, si sia lasciato un po’ andare. Dopo l’ultimo punto, ebbi l’impressione che lui non si capacitasse di ciò che era avvenuto. Lo ricordo dopo la stretta di mano, aveva un’espressione smarrita, come se non si fosse ancora reso conto che la partita fosse finita e, soprattutto, che l’avesse persa». Stich ha assolutamente ragione. Stefan Edberg, per solito più che compassato e arrendevole in conferenza stampa, disse chiaro e tondo che non capiva come potesse essere stato sconfitto e che la partita a Stich «l’ho regalata io, anche se lui potrà pensarla diversamente. Michael serve bene, ma io ho smarrito il tempo sulla risposta nei momenti chiave. Perdere match del genere, senza cedere mai il servizio, è… Diciamo così, quantomeno strano». Peggio: è il tennis.
Domenica 7 luglio 1991, Boris Becker e Michael Stich si contesero il titolo dei Championships. Per Becker, seconda testa di serie, cui la finale era stata negata una sola volta dal trionfo del 1985 (una giornata storta contro uno specialista, Peter Doohan, nel 1987) quello era a tutti gli effetti il giardino di casa. Nonostante le finali perse con rimpianti, nel 1988 e 1990: per riequilibrare il bilancio, un match con il novizio Stich sembrava quanto di meglio potesse accadergli. Del resto, quando Boris vinceva il terzo e ultimo titolo ai Championships, nel 1989, Michael esordiva su un campo secondario e perdeva al primo turno contro Mikael Pernfors. Il bagaglio di esperienza era incomparabile, Boris non aveva giocato il suo miglior tennis ma se l’era sempre cavata, soprattutto con l’insidioso ma tiepido Forget nei quarti (6-7(5) 7-6(3) 6-2 7-6(7)), dopo aver evitato il quinto set contro Bergstrom negli ottavi (6-4 6-7(4) 6-1 7-6(2)). Eppure.
«Per me, quella era una partita che avrei dovuto vincere per conquistare Wimbledon, e basta. Poteva essere contro Stefan, contro Jim, pure contro un portiere di calcio. Per me, era la finale di Wimbledon. Certo, sarebbe stata la prima finale Slam tra tedeschi, e sarebbe già potuto succedere poco prima al Roland Garros quando entrambi perdemmo in semifinale. Non è che non lo sapessi. E ricordo bene che il successo di sabato di Steffi Graf in finale aveva reso l’evento ancora più entusiasmante in Germania. Ma per me non era quella la cosa importante. Forse, per lui, c’era un discorso diverso, di rivalità, un altro tedesco competitivo che sfida Becker. Quello che diceva la stampa in un certo senso mi condizionava, non riuscivo a tenerlo del tutto fuori dai miei pensieri, ma l’idea di fondo era che tutti i top 100 fossero miei rivali e che dovessi batterli, venissero o meno dal mio stesso Paese. Altro discorso, semmai, era quando capitava di affrontare un amico: quelle poche volte in cui succedeva, allora poteva pesare anche il fattore personale».
Ma Michael e Boris non erano amici. Come si direbbe a Roma, non si pigliavano. E non era necessario lo fossero: a dispetto dei mille motivi di frizione e di contrasto che la stampa dei tempi aveva provato a scovare (o inventare), arrivando a coinvolgere la politica e le abitudini extratennistiche, semplicemente non c’era feeling. Si erano conosciuti “sul lavoro”, come succede a tutti noi, e non si erano trovati particolarmente simpatici.
Quando Becker e Stich, questo sì, misero da parte il loro ego per un progetto comune - vincere l’oro olimpico in doppio nel 1992 a Barcellona - vederli dividere il campo ricordò quella frase di John Lennon: «Sul palco, io e Paul McCartney siamo come due soldati in trincea. Lottiamo insieme per un obiettivo comune. Scesi di lì, ciascuno va per la sua strada». Stich fu, insomma, così sicuro di sé da giocare non contro Becker, ma contro colui che si frapponeva tra sé e il trofeo che vale una vita. E se Sampras raccontava che, quando Boris si preparava a servire, sembrava alto tre metri, Stich non corse mai il pericolo di essere sopraffatto dalla soggezione, o dall’insicurezza. Semplicemente perché erano sentimenti che non albergavano in lui: «Proprio no. Ancora oggi, quando mi dicono che è l’anniversario del mio successo su Becker, me la prendo un po’: per me, è l’anniversario del trionfo a Wimbledon. Rispettare un avversario non significa esserne intimiditi. Rammento che, quando il mio manager - credo per calmarmi - poco prima della finale mi disse di dare il meglio e di rilassarmi perché non avevo nulla da perdere, gli risposi che a mio parere quello era il pomeriggio in cui avrei avuto da perdere di più in tutta la mia vita! In palio c’era Wimbledon. Per me, il discorso era che non dovevo giocare con dubbi nella testa. Boris era la superstar, aveva già vinto, la gente si aspettava che vincesse, tutto quello che si vuole. Come tennista ero molto analitico. Non è che non riconoscessi l’aura che certi campioni come Boris, o Borg, o McEnroe portavano in campo con sé. Ma ero bravo a lasciare da parte quei pensieri e a concentrarmi sulle cose da fare. Non c’era nessun giocatore che mi spaventasse, anche se li rispettavo tutti. Certo, c’era qualcuno contro cui avevo difficoltà maggiori: come Agassi, che non sono mai riuscito a battere. Ma pensavo sempre di avere la mia chance, con tutti. Sapevo di avere le armi per farcela».
Le aveva. Dopo qualche game, Becker fu il primo ad avvedersene. Iniziò a smoccolare in tedesco, a imprecare verso il cielo, a prendersela con la racchetta, con se stesso, con qualunque cosa. Si sgridava, non si capacitava dell’andamento del match. In Italia, nei circoli, c’è un detto: «Lo ha attaccato buttando dall’altro lato del campo il biglietto da visita». Ecco, magari poteva funzionare contro Forget. Contro Stich non c’era verso di sfruttare il fattore-timore. Michael mulinava la Fischer come un fioretto, infilava ace e rovesci vincenti con una grazia disarmante. «Gli feci subito il break. Credo che, fin da lì, iniziò a capire che quel pomeriggio poteva avere dei problemi. Quando recuperò il turno di battuta gli rifeci immediatamente il break, nel turno successivo. Quello che diceva non mi interessava: ma ricordo che, mentre sentivo molta fiducia nel mio gioco, avevo la sensazione che lui non avesse già più il controllo della situazione. Boris non era McEnroe, che quando inveiva si nutriva di quella rabbia e poi, spesso, giocava il suo miglior tennis. I suoi erano sfoghi di frustrazione, si rendeva conto di non avere la partita in mano. Mi venne in mente un vecchio insegnamento del calcio: quando vedi che un difensore ha dubbi e non sembra avere il pieno controllo della palla, lo devi pressare. Perché, magari, ti regalerà qualcosa».
Con una prima di servizio fiammante sul dritto di Becker, che Boris intuì in ritardo e spedì fuori di metri, Stich mise in tasca il primo set, 6-4. «Contro Boris pensavo che entrambi avessimo ottimi servizi e volée, e un rovescio migliore del dritto. Secondo me io mi muovevo un poco meglio di lui. L’idea, in quel match, viste le condizioni così rapide era di servire spesso al corpo oppure verso il suo dritto, di tenergli la palla passa sul dritto perché, con la sua presa, faticava sulle palle che rimbalzavano poco. Però quel tennis era un gioco molto veloce: non potevi ragionare più di tanto sul punto, come si fa oggi, anche se in testa avevi delle idee di massima. Poteva bastare una risposta d’incontro vincente, un battito di ciglia e si decideva una partita».
Anche nel secondo set, Becker ebbe la sua chance: 3-1 e servizio. Se la fece sfuggire. Il tie-break del secondo set, come quelli contro Edberg, fu il regno di Stich. Lo giocò con una sicurezza devastante, come se non avesse fatto altro nella vita nei 23 anni precedenti. Sul 6-4 mirò al centro, e tirò una botta perfettamente sulla T. Ace, e due set a zero. Becker covava rabbia e sbigottimento, Stich sembrava stesse giocando sul retro di casa contro un ragazzino ribelle e falloso. Con la tradizionale tigna, Boris tenne botta fino al 5-4 Stich. Che però continuava a servire con un’efficacia disarmante, con quel movimento che è un capolavoro inarrivato di ergonomia e di eleganza. Anche se era tutt’altro che un colpo facile, lui lo faceva sembrare tale. «Il servizio è il colpo più complicato del tennis. I miei primi maestri prestavano molta attenzione alla tecnica; per conto mio, ricordo che mi concentravo sul fatto di non disperdere troppe energie. Quindi non saltavo, a differenza degli altri, e riuscivo comunque a ottenere velocità e precisione». E bellezza, per chi guardava.
Perso uno scambio spettacolare, con tanto di (inutile, quella volta) tuffo dei suoi, sul match point (30-40) Becker servì una prima palla robusta, al centro. Stich si allungò, rispondendo vincente di dritto. Dall’emozione gli cedettero le ginocchia, mentre la Fischer volava per aria. Un momento perfetto. O quasi: John Bryson, il giudice di sedia, proclamando il vincitore disse: «Game, set and match Becker!» La gaffe venne coperta dal grido della folla, che si stropicciava gli occhi per aver visto il tre volte campione di Wimbledon dominato in quella maniera. «Non me ne sono mai accorto, me l’hanno detto dopo. Ma onestamente, in quel momento non me ne poteva importare di meno: avrebbe potuto dire qualunque cosa. Avevo appena vinto il torneo più importante del mondo. Ma è l’unica volta nella storia del torneo che è accaduta una cosa simile. Così come non era mai successo di giocare nella middle Sunday, mai capitato di giocare i primi turni di giovedì, mai successo che un giocatore perdesse una partita senza affrontare una palla break... Diciamo che doveva andare così».
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Michael Stich in trionfo si lascia cadere al suolo dopo il match point su Becker nella finale di Wimbledon 1991

Credit Foto Imago

Dopo il match point, inquadrarono la famiglia: scattato in piedi, Detlef Stich filmava il figlio che aveva appena ottenuto il successo più grande cui possa ambire un tennista. «Lo scorso anno ho chiesto per la prima volta a mio padre che fine avesse fatto il filmato che aveva girato sul match point, dal box giocatori. Mi rispose che quel video non è mai esistito. Non c’era la cassetta dentro. Oppure c’era, ma non aveva premuto il tasto di registrazione. Era solo che si vergognava, in quel momento, perché era sicuro che in tanti lo avrebbero guardato festeggiare: così, aveva preso il primo oggetto che si trovava vicino e se lo era messo davanti agli occhi, per coprirsi il viso. Scherzando, l’ho rimproverato: “Ma come papà, tuo figlio vince Wimbledon e tu fai finta di filmarlo?”»
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Michale Stich festeggia il titolo a Wimbledon 1991 dopo la vittoria su Becker in finale

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Oggi Michael Stich ha 52 anni e dà la sensazione di non essere, a differenza di molti ex campioni, un uomo irrisolto. È eloquente, brillante. Il fatto che sia stato incoraggiato a terminare il liceo nonostante non una, ma due possibili carriere sportive incombenti, nel calcio o nel tennis, ha lasciato tracce nel suo modo di ragionare e di vedere le cose. Probabilmente gli ha offerto quella terza dimensione, la prospettiva, che tanto amava sul campo da tennis e che, nella vita, aiuta a vedere gli accadimenti di lato, separando ciò che conta da quanto invece passa e va. In una precedente intervista, aveva detto una frase bellissima: «Grazie ai miei genitori ho imparato a mettermi in discussione sempre, ma a non dubitare mai di me stesso». Parlando con lui si ha la sensazione che abbia ragione chi sostiene che noi diventiamo anche ciò che ci è stato insegnato. Soprattutto in un mondo che, a pochi eletti, regala gloria e denaro a profusione, ma spesso non fornisce strumenti per vivere, una volta smesso di prendere a racchettate una pallina.
Stich non è social. In un botta e risposta del 1991, poco dopo quel successo clamoroso, aveva detto che tra i suoi libri preferiti c’era un saggio di Sten Nadolny, La scoperta della lentezza. Una risposta rivelatrice.
Non ne sente la necessità, di ricordare al mondo chi è e cosa abbia fatto. Lo sa lui, e chi per le sue gesta si è appassionato al tennis. Non è interessato a fornire opinioni su Internet su qualunque materia, magari per sete di riconoscimento pubblico, o per desiderio di visibilità. Alcuni suoi ex avversari – BB è fra questi – frequentano Twitter quotidianamente; lui ha un profilo, non gestito da lui, unicamente dedicato alla sua fondazione, la Michael Stich Stiftung. E che non fosse una scappatoia per le tasse negli anni dei guadagni lo dimostrano sia la sua età (è attiva da 27 anni!) sia l’oggetto sociale: si occupa di bambini affetti da Aids e delle loro famiglie. Fosse stata pensata per far parlare di sé, si occuperebbe di argomenti più à la page. Invece ha preso a cuore un problema nel 1994, e continua a lavorarci su nel 2021. Anche se i media non ne parlano più, di quella sindrome che continua a fare vittime sanitarie e sociali.
Stich si è ritirato nel 1997, poco dopo una semifinale persa in cinque set, sempre a Wimbledon, contro Cedric Pioline. Avrebbe trovato Sampras, e chissà. «Già, chi lo sa. Certo, smettere vincendo Wimbledon sarebbe stato perfetto, ma si vede che non era nelle cose. Piuttosto, sono un po’ contrariato perché, nel 1991, al vincitore davano una replica minuscola del trofeo, molto più piccola di quella di oggi. Lasciamo stare il discorso della differenza di prizemoney (nel 1991 al vincitore toccavano 240.000 sterline, oggi 1.700.000, ndA). Alla cena per il ventesimo anniversario dissi che, d’accordo, i premi stavano lievitando, ma anche il trofeo da portarsi a casa era raddoppiato. Ma non ne hanno voluto sapere di darmene uno più grande. Comunque sempre meglio che gli Us Open, in cui ricevi soltanto la busta con dentro l’assegno…»
Michael Stich con il Duca di Kent dopo la vittoria a Wimbledon 1991
Il suo gioco è praticamente estinto, ed è un peccato mortale del tennis contemporaneo. Ma non una malattia evitabile, secondo lui: «Anzi, io credo che il mio tipo di tennis, che molti giocavano negli anni Novanta e oggi più nessuno, darebbe da pensare ai migliori di oggi. Certo, sono campioni incredibili e atleti straordinari e il tennis, in questo senso, è migliorato tantissimo. Però sono altrettanto convinto che la sfida proposta da un rivale che non dà ritmo, soprattutto sui terreni più rapidi, sarebbe stata interessante da vedere, a patto che si trattasse di un giocatore di alta qualità. Ho visto a tratti la finale del Roland Garros di quest’anno tra Djokovic e Tsitsipas: per certi aspetti, è stata una sfida di altissimo livello ma, come spesso accade, di un tennis monodimensionale. Tsitsipas usa qualche variazione, ma non così tante e non così spesso. Altre volte, si vedono solo scambi con spostamenti laterali, sinistra, destra, sinistra, destra. Sinceramente, dopo un po’, a me passa la voglia di guardarlo, un tennis del genere».
Purtroppo ci si è messo anche il cambio delle superfici, a complicare le cose. Sull’erba di oggi, che un giorno Ivanisevic definì «uno scherzo, ci sono campi in terra più veloci» il tennis di attacco è scomparso: «L’erba di moderna l’ho provata poco, solo un’esibizione pochi anni fa a Stoccarda con Tommy Haas. È sempre più veloce delle altre superfici, ma hanno cambiato la lunghezza del taglio e anche il mix di sementi, e adesso la palla rimbalza più alta. I giocatori usano molto il topspin, a rete non ci vanno più. Ma io continuo a credere che si possa fare il serve&volley. Secondo me, se un tennista dotato giocasse sempre in attacco, anche i migliori del mondo avrebbero qualche difficoltà, dovendo tirare continuamente passanti. Oggi tutti giocano più o meno nello stesso modo, e non abbiamo la controprova: ma nessuno fa serve&volley non perché non si possa fare, ma perché nessuno ha insegnato loro a farlo».
E perché, allora, non mettersi in gioco personalmente, e non lavorare come coach, in prima o in seconda? Lo hanno fatto Lendl, Becker, Edberg, Chang, Ivanisevic, Mcenroe… «Mah. Mi è stato chiesto in passato e anche più recentemente, un paio di anni fa. Non sarebbe corretto dire chi è stato, visto che ho rifiutato. Ma non perché non ami il tennis o l’idea di insegnare, anzi: io amo il tennis. E vorrei passare qualcosa di mio ai giocatori: qualche volta, nel club di Amburgo, l’ho fatto con qualche junior. Ma non voglio viaggiare 20 settimane l’anno, era già una cosa che alla fine della carriera mi pesava. Tornare a frequentare le lounge dei tornei, ambienti così piccoli e nei quali, ormai, non conosco che i nomi delle persone che girano, non sarebbe facile per me. Credo proprio che faticherei.»
Chiusa l’avventura da direttore del torneo di Amburgo, dice che si augura di «essere felice e in salute, e di continuare a lavorare con la mia fondazione: durante la pandemia abbiamo avuto qualche difficoltà, come è ovvio. Amo l’arte contemporanea, dipingo anche. È un hobby, ma è creativo come lo era giocare a tennis rispettando le misure del campo. Nell’arte, rispettando le misure della tela ci puoi mettere dentro ciò che vuoi, tutto è permesso. Vedo delle similarità col tennis. Faccio dipinti astratti, imparo, sperimento: non sono così bravo, ma mi piace». In casa ha lavori di Andy Warhol, Anselm Kiefer, Gerhard Richter. Anche senza gli ingaggi dei Federer e dei Nadal, il padre, un businessman vecchia scuola, gli ha trasmesso la cultura del rispetto del denaro («Mi diceva che chi non rispetta il penny non merita il dollaro»), che non significa essere tirchi ma avere il senso del valore dei soldi, che è tutt’altra cosa.
Elio Petri, un regista geniale che forse neanche Stich conosce, a dispetto della sua cultura trasversale, diceva che, in tempi come i nostri in cui si fatica a restare aggrappati a valori e riferimenti, «l’ultima linea di resistenza è quella di fare le cose bene».
di Federico Ferrero (@effe7effe)
Michael Stich è stato numero 2 del mondo nel 1993. Ha vinto Wimbledon nel 1991, ha disputato la finale agli Us Open 1994 (persa contro Agassi) e quella del Roland Garros 1996 (persa contro Kafelnikov, dopo aver battuto tra gli altri il campione in carica Thomas Muster, aggredendolo su ogni palla). Ha giocato una semifinale agli Australian Open 1993 e vinto, nel complesso, 18 titoli in 31 finali, tra cui spicca il torneo di casa, Amburgo, nel 1993. Nel corso dell’intervista, ha tenuto indosso la t-shirt commemorativa di quell’edizione del torneo, vinto in finale su Andrei Chesnokov.
Nel 1993 ha trionfato alle Atp Finals, in finale contro Pete Sampras. Ha vinto l’oro olimpico in doppio nel 1992 con Boris Becker e la Coppa Davis nel 1993, in finale contro l’Australia. In doppio, ha anche vinto il trofeo di Wimbledon 1992, facendo coppia con John McEnroe: sconfissero in finale, 19-17 al quinto set, gli specialisti Jim Grabb e Richey Reneberg. La partita fu così lunga che venne sospesa domenica notte sul 13 pari del quinto set, dopo che Stich-Mcenroe avevano salvato due match point sul 6-7; il lunedì, il comitato permise agli spettatori l’ingresso gratuito per seguire la fase finale del match, durato nel complesso 5 ore e un minuto. Stich fa parte della Tennis Hall of Fame dal 2018.
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