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La trade Spurs–Raptors: le speranze di Pop su DeRozan e le incognite legate a Leonard

DaPlay.it USA

Aggiornato 19/07/2018 alle 10:58 GMT+2

Dal nostro partner Play.it USA

Kawhi Leonard #2 of the San Antonio Spurs stands on the court during Game One of the NBA Western Conference Finals against the Golden State Warriors at ORACLE Arena on May 14, 2017 in Oakland, California.

Credit Foto Getty Images

E' successo. Dopo uno dei più eclatanti ed inaspettati casi di cattiva comunicazione fra giocatore e dirigenza, e di cattiva gestione della relazione con un giocatore ed il suo entourage, gli Spurs si sono decisi a gettare la spugna e a cercare di uscire dall’angolo in cui Kawhi Leonard, proprio uomo franchigia, li aveva infilati. Non è stato facile, dal loro punto di vista, trovare il giusto compratore ed il giusto prezzo: tutti sapevano della volontà del giocatore di essere ceduto – possibilmente a Los Angeles, su quale sponda non è chiaro – e tutti conoscevano l’esistenza di una clausola nel suo contratto che gli permetterà di diventare unrestricted free agent e padrone del proprio destino l’estate prossima.
Non solo: parliamo di un atleta sostanzialmente fermo da un anno, con un infortunio (tendinopatia al quadricipite) di cui non si conoscono né i dettagli, né il decorso, né la cura. Infine parliamo di un uomo schivo, dal carattere ombroso, e che da ormai un anno non rilascia dichiarazioni pubbliche ma fa trapelare le sue intenzioni solo sotto forma di voci riferite dal suo entourage a giornalisti amici.
Ebbene, nonostante tutti questi alert, alla fine San Antonio ha trovato un compratore, una contropartita adeguata, una scappatoia dal rischio di rimanere fra un anno col cerino in mano e di perdere il giocatore in cambio di nulla. Merito del suo navigato G.M. Buford, ma merito soprattutto dell’enorme potenziale di Leonard, sulla carta ancora uno dei migliori 5 giocatori al mondo.
Ma veniamo alla trade, esaminata dai punti di vista delle 2 parti.

Dalla parte degli Spurs: voto 9

Detto dei rapporti ormai deteriorati fra gli Spurs, Kawhi e il suo entourage, dei dubbi sulla sua situazione fisica e sul suo carattere, nonché del suo contratto che assicura al compratore solo 1 anno di permanenza certa del giocatore, la contropartita per i Texani è assolutamente di livello: DeMar DeRozan è stato per 9 anni il cuore e l’anima dei Toronto Raptors, 4 volte All Star, per molti il più grande giocatore della storia della franchigia.
Ragazzo serio, molto amato dalla comunità di Toronto, una delle tifoserie più calde della Lega, aveva firmato nel 2016 un maxi contratto quinquennale per complessivi 139 milioni, ma con player option per il quinto anno.
Giocatore atipico, poco abituato a stazionare sul perimetro, ha sempre fatto dell’aggressività nell’attaccare il ferro e nel tiro dal mid range i suoi marchi di fabbrica: nel sistema di Popovich gli verranno sicuramente studiate delle soluzioni ad hoc per permettere la sua convivenza in attacco con Lamarcus Aldridge, lungo che predilige anche lui il mid range e il lavoro sotto canestro.
Per trovare una quadra a livello salariale gli Spurs sono stati costretti a sacrificare Danny Green, ottenendo il promettente austriaco Jakob Poeltl e la prima scelta 2019 di Toronto protetta 20.
Di più sinceramente ad R.C. Buford non si poteva chiedere: San Antonio non dovrà ricostruire la squadra da zero ma con l’innesto di DeRozan su un telaio che già comprende Aldridge e Murray, i playoffs appaiono comunque tranquillamente alla portata.

Dalla parte dei Raptors: voto 7–

E' dalla parte dei Canadesi che l’analisi della trade si fa molto interessante: Toronto è sempre stata una piazza molto calda a livello di pubblico ma molto fredda a livello di interesse da parte dei principali free agent della lega. Dal suo arrivo nel 2013, il GM Masai Ujiri ha portato avanti un lavoro egregio nella composizione del roster della squadra, con 5 partecipazioni consecutive ai Playoffs, mai meno di 48 vittorie ed il miglior record della storia della franchigia proprio nella passata stagione, con 59W e il premio di Coach of the Year a Dwane Casey.
Poi, nell’ultima post season, la solita sconfitta contro i Cavs, questa volta in semifinale e senza appello; un 4-0 che ha fatto molto pensare la proprietà e la dirigenza.
E così, proprio nell’anno in cui la squadra era sembrata più pronta e matura per l’ultimo step, si decide di cambiare: dopo 7 anni via Casey e dentro Nick Nurse, suo primo assistente. Licenziare l’allenatore dell’anno è il segnale che la proprietà ha dato il via libera a grandi cambiamenti: talmente grandi da arrivare a cedere il proprio giocatore franchigia, l’uomo simbolo della Toronto sportiva, per un Kahwi Leonard che, a trattative ancora in corso, fa sapere che:
Ed è proprio qui il nocciolo della trade e del grande rischio della mossa di Ujiri: per arrivare ad uno dei potenziali crack della Lega, Toronto cede il proprio miglior giocatore, la faccia della franchigia, in cambio di un atleta scontento, che non parla, che non si sa se è sano e che voleva andare a giocare in California. E fra un anno potrà decidere del proprio destino.
Ovviamente il caso Paul George, inseguito dai Lakers ma dopo un anno accasatosi con soddisfazione a Oklahoma City, è il best case scenario per i Raptors: un Leonard contento e motivato, oltre che sano, potrebbe davvero far fare il salto di qualità alla squadra. Senza più Lebron James a sbarrarle la strada, le uniche 2 rivali pericolose ad Est rimarrebbero Boston e Philadelphia.
Ma esistono, in verità, anche tutta una serie di scenari meno favorevoli. Per motivi fisici, caratteriali o personali, Leonard potrebbe dimostrarsi non all’altezza delle elevate aspettative, o semplicemente potrebbe fare una grande stagione per poi accasarsi in una delle 2 squadra angeline, anche se questo ulteriore spostamento potrebbe causargli una sostanziosa riduzione dei futuri stipendi.
A quel punto ai Raptors non rimarrebbe più nulla: nè lui, nè DeMar, ma il solo Danny Green, i cui anni migliori sono ormai alle spalle.
A quel punto, con ogni probabilità, la proprietà potrebbe decidere di rifondare cedendo gran parte dei veterani, da Lowry a Ibaka. Rifondare, ad un solo anno di distanza dalla migliore stagione di sempre.
Ma era proprio necessario? Valeva la pena fare un tale salto nel buio, cedendo parte della propria identità e disfando un roster da 59 vittorie, proprio nell’anno della partenza di Lebron verso la Western Conference?
Il rischio è grande: un motivo in più per attendere con trepidazione l’inizio della prossima stagione NBA.
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