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A kind of Magic: Johnson e gli ultimi memorabili minuti dell'All Star Game 1992

Zoran Filicic

Aggiornato 30/04/2020 alle 08:38 GMT+2

Zoran Filicic, telecronista di Eurosport, ogni settimana ci racconta una storia legata agli sport che più ama dal suo punto di vista: fra flashback, esperienze sul campo e un excursus tra i grandi delle discipline più amate, un punto di vista nuovo da leggere ogni 7 giorni. Sesto appuntamento con un momento preciso della storia dell'All Star Game NBA del 1992.

Focus Magic Johnson

Credit Foto Eurosport

7 novembre 1991, il giorno dopo il mio ventiquattresimo compleanno. Mi ricordo che tornai a casa dall’università, mangiai qualcosa, ad un tratto alla televisione uscì la notizia: “Magic Johnson, famoso giocatore NBA, positivo all’HIV”. Piansi.
Jordan aveva appena vinto il primo titolo NBA coi Bulls, battendo in finale proprio i Lakers di Magic, ma non era ancora His Airness. In quel periodo temporale il miglior paragone tra i due fu fatto da Dan Peterson, che con la solita arguzia definì “Magic Johnson il miglior giocatore al mondo sul parquet, Michael Jordan il migliore sopra al parquet”.

Perché Magic?

Un passaggio fondamentale della vita di Earvin Johnson è l’ingresso alla Everett High School a maggioranza bianca invece che alla Sexton, a maggioranza di colore. Già il fratello aveva frequentato (e giocato per) la Everett ed aveva subito il bullismo degli studenti bianchi e delle loro famiglie. Earvin Jr. racconta di quegli anni come fondamentali per uscire dal proprio mondo dorato e per “imparare a comunicare coi bianchi e a farsi ascoltare”. Quell’anno il ragazzo affronta i i primi allenamenti coi compagni che non gli passano nemmeno la palla, sopporta, impara, si afferma fino ad arrivare a segnare, in finale di stagione, una tripla doppia da 36 punti, 18 rimbalzi e 16 assist che gli vale il soprannome di “Magic”.
Le triple doppie rimarranno la specialità di Johnson, point Guard di 2.06 (in Italia si direbbe playmaker), atipico, tecnico, con una visione di gioco eccezionale dovuta anche all’altezza. Al suo ultimo anno di High School porta la squadra a vincere il titolo nazionale, poi sceglie un’università controcorrente per rimanere vicino a casa, rifiutando Indiana e UCLA ed accettando invece la chiamata di Michigan State, dove arriva il secondo momento fondamentale della sua carriera: coach Jud Heathcote non ascolta gli esperti né i tecnici (spesso annebbiati da schemi e statistiche per capire realmente la magia dello sport) e lo fa giocare nel suo ruolo. Earvin Johnson porta palla e illumina, spiega pallacanestro fino ad arrivare, nel 1978, alla finale NCAA contro Indiana State di Larry Bird, nel match universitario col maggior numero di telespettatori della storia. Michigan vince 75:64 e Magic viene valutato Most Outstanding Player, ad anticipare le tre proclamazioni ad MVP NBA (1987, 1989, 1990) e le altre tre delle NBA Finals (1980, 1982, 1987), oltre che a scrivere il primo capitolo della splendida saga di rivalità e rispetto con Larry Bird, che continuerà nelle sfide Lakers-Celtics degli anni ’80.

Da rookie a MVP delle Finals

Magic arriva ai Lakers come prima scelta e coach McKinney (l’era Riley inizierà solo due anni dopo) va contro gli analisti (ancora loro) che indicavano come ruolo ideale per Johnson quello di ala e continua a farlo giocare point guard. I Lakers hanno già Norm Nixon, una delle migliori guardie della lega, e la convivenza non si prospetta semplice, ma il nuovo arrivato crea un fraseggio meraviglioso con Kareem Abdul Jabbar, che non era ancora riuscito a portare il titolo a L.A. , prende in mano la squadra e la porta fino alle finali contro i 76ers di Julius Erving. La serie si mette bene per i Lakers, Jabbar domina tenendo una media di 33,4 punti nella serie finale poi, dopo aver segnato 40 punti in gara 5 Kareem si fa male. Si va a giocare a Phila, i medici tengono fermo il centro più dominante dell’NBA e non si sa nemmeno se potrà rientrare in caso di Gara 7, ma Magic non ci pensa nemmeno ad allungare la serie e durante il trasferimento verso Phila dice ai compagni: “Don’t worry, Magic is here” (“Non preoccupatevi, Magic è qui” ndt). Earvin Johnson, guardia al primo anno NBA, parte in Gara 6 da centro titolare, gioca contro Dawkins, poi copre il ruolo di ala, guardia, point guard, tutto. Chiude con 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist e 3 palle recuperate in quella che viene ancora definita come la miglior prestazione overall di sempre. I Lakers vincono 123-107 dominando su Philadelphia e Magic diventa l’unico rookie della storia ad essere votato MVP delle Finali e uno dei 4 giocatori ad aver vinto titolo NCAA e titolo NBA in due anni consecutivi. Inizia l’era Lakers.
La carriera di Earvin Johnson decolla: 905 partite, 17707 punti, 6559 rimbalzi, 10141 assist con una media carriera di 19,5 punti, 7,2 rimbalzi e 11,2 assist per partita. 138 triple doppie (più di lui solo Oscar Robertson con 181 e Russell Westbrook a 146), 5 titoli NBA, una leggenda fatta di passaggi no look, visione di gioco, risate, showmanship e leadership.
Poi arriva quel 7 novembre. L’annuncio non è devastante solo per i tifosi di basket, ma per il mondo intero: Johnson è uno degli sportivi più conosciuti del pianeta, rappresenta il basket stesso. Magic si ritira, si cura e si dedica a sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli del virus, ma intanto continua ad allenarsi e avviene un fatto bizzarro: le schede di votazione per l’All Star Game 1992 sono già state stampate e distribuite (in Italia venivano distribuite tramite Superbasket, non ho mai saputo se le nostre fossero mai arrivate negli USA) con ancora indicato il nome di Magic che viene votato dal pubblico ed eletto in quintetto Ovest a furor di popolo. Nasce la polemica, e con essa la paura.
Byron Scott ed A.C. Green, ex compagni di squadra di Magic, prendono posizione dichiarando che non dovrebbe giocare. Karl Malone afferma che se venisse colpito duramente e dovesse sanguinare in campo rischierebbe di infettare altri giocatori, a questi si aggregano molti altri e gran parte dell’opinione pubblica. Non ci sta invece Charles Barkley (Philadelphia 76ers), che si schiera a favore, giocando sulla propria nomea di cattivo: “Per me il sangue di Magic è come il sangue di chiunque altro”.
Si gioca a Orlando, Johnson è in squadra, in quella partita ci sono gli 11 pro che conquisteranno l’oro a Barcellona, dando vita al Dream Team (l’unico Dream Team, anche se successivamente la definizione venne estesa a ogni nazionale olimpica statunitense). Il livello è altissimo la partita di Magic viene vista come il canto del cigno di un grande ex giocatore, l’ultima passerella, ma ancora una volta: “Don’t worry, Magic is here”.

I quintetti base

Est: Isaiah Thomas, Michael Jordan, Scottie Pippen, Charles Barkley, Pat Ewing
Ovest: Magic Johnson, Clyde Drexler, Chris Mullin, Karl Malone, David Robinson
La partita si sviluppa in tutto lo spettacolo immaginabile al solo leggere questi nomi, le panchine non sono da meno con Reggie Lewis, Rodman, Hardaway, Olajuwon, Dumars, Stockton, Worthy (Bird e Wilkins devono saltare la partita per infortunio). Magic fa una prestazione delle sue fino agli ultimi tre minuti.

I 3 minuti di Magic

Per anni, nella crew del Dezza, playground di riferimento di Milano, gli ultimi tre minuti dell’All Star Game 1992 sono stati guardati, riguardati, assorbiti consumando i VHS e poi ricommentati annoiando le fidanzate prima, mogli poi. Ognuna della parole di Dan Peterson (quel giorno in telecronaca) replicate con tanto di accento, come fossero passaggi di Mediterraneo o di Frankenstein Junior.
Magic si dedica alla squadra e nel secondo tempo non segna fino a quando Barkley schiaccia in faccia a Mutombo. Ok, qui bisogna prendere le cose in mano. 2’52” dal termine, tripla da 8 metri, solo rete. Si va dall’altra parte e Isaiah Thomas si produce in un doppio passo da showtime, Adams da tre, replicato istantaneamente, dopo un secondo, tempo di fargli arrivare la palla, da Magic. Thomas ride e lo spinge, si attende il timeout per far uscire Magic per la standing ovation, ma la partita va avanti.
Un minuto e 52 dal termine: splendido perno Olajuwon Style di Kevin Willis, Magic risponde liberando per Mullin, tripla. Un minuto e 30”, assist fucilata no look di Magic per Majerle, che segna i suoi primi punti in un All Star Game. Un minuto e 25”, Isaiah ha la palla, Magic manda via tutti, vuole marcargli l’uno contro uno, Thomas accetta ed aspetta. Ball handling da paura, tiro ed air ball, si va di là, Majerle inchioda. 48” alla fine, Est in attacco, Jordan con la palla, Magic sposta Drexler e dopo Thomas va a marcare MJ, il pubblico è in piedi, è pandemonio. Jordan accetta la sfida, uno contro uno, tira, sbaglia. Palla a Magic che viene raddoppiato in attacco da Jordan e Thomas, la palla va a Drexler che però vuole Magic, nella Orlando Arena non si sente nulla se non le urla del pubblico, dei telecronisti, delle panchine. La palla torna a Magic, davanti a lui Thomas, 16”, parte un altro tiro da tre, da Downtown.
Silenzio. Il soffio delicato della palla che accarezza solo la retina si trasforma nel boato che sancisce l’apoteosi di Earvin Magic Johnson. La partita si ferma a 14,5 secondi dalla fine, entrano tutti in campo, lo abbracciano. Magic viene votato MVP, Magic è il più grande. Magic andrà a Barcellona e fare parte della più grande squadra di tutti i tempi. David Stern, compianto commissioner della NBA, al consegnargli il primo trofeo di MVP, crea il discorso più bello di sempre: “Magic, you are the Most Valuable Player, you are the most courageous person, the moment is yours, congratulations” (“Magic, sei il miglior giocatore, la persona più coraggiosa, il momento è tuo, congratulazioni” ndt) e gli lascia il microfono.
Di tutto questo nelle nostre memorie rimangono quelle poche parole che concludono la telecronaca di Coach Peterson: “E noi abbiamo visto quello che c’è da vedere, ok?”.
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