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Euro 2020: la Danimarca di Kasper Hjulmand, dalle ricorrenti sciagure alla semifinale di Wembley

Lorenzo Rigamonti

Pubblicato 07/07/2021 alle 17:17 GMT+2

EURO 2020 - Il tragitto della Danimarca, che sfiderà l'Inghilterra nella prima semifinale d'Europeo dopo 29 anni, s'è intriso di sciagure e complicazioni improvvise. Tutto converge addosso alla figura del c.t. Kasper Hjulmand, rappresentante di un'identità nazionale che non si limita solamente al calcio.

Dänemark-Trainer Kasper Hjulmand

Credit Foto Getty Images

Compatti e lucidi, mentre dal cielo si abbatte l’Apocalisse. Coesi e coraggiosi, forse anche per necessità. La Danimarca è una terra frastagliata da fiordi e bagnata da acque fredde; al ritirarsi delle maree, si palesa quello che i nordici chiamano “sort sol”, o sole nero. Lo si può ammirare in precisi momenti dell’anno, quando il cielo viene completamente ammantato da un nero soffocante. I raggi del sole perdono poco a poco il potere di penetrare con luminosità, stemperandosi in un unico corpo ombroso e siderale.

Il sole della Danimarca

La causa di un simile fenomeno non è da ricercare in qualche strano allineamento astrale, ma dall’avvicendarsi di migliaia di stormi di uccelli in migrazione che, dopo aver trovato ristoro sulle spiagge spogliate dal ritiro delle acque, si rialzano in volo ovattando completamente la volta celeste. Il sole si tinge di nero solamente sopra la Danimarca, crocevia di migrazioni e maree gentili; assieme al repentino capovolgimento di luce, si rovescia anche il mondo sotto ai nostri piedi: mentre frotte alate di animali si coordinano in una rassegna razionale di coreografie perfettamente geometriche e puntuali, sotto di loro il mondo degli uomini ignari si imbestialisce. Viste da lontano, le traiettorie degli stormi disegnano ondulazioni psichedeliche, ingoiano tutta la luce, cancellano qualsiasi sfumatura del firmamento.
Ci facciamo ipnotizzare mentre quelle fittissime fiumane di corpi lambiscono il nero delle scogliere e risalgono le braccia del mare. Il mondo capovolge la clessidra di caos e ordine, mentre gli unici a non scomporsi sotto questo torbido telo sono proprio i danesi. Per loro l’improvviso oscurarsi del sole è il segno di una nuova stagione, di una nuova stretta di denti. La storia della Danimarca è stata spesso segnata da rovesciamenti repentini, come la blitzkrieg del 1940, che in una manciata di ore permise ai tedeschi di invadere la nazione. Pur sotto scacco, i danesi avviarono una fervida opera di resistenza, riuscendo, tra l'altro, a proteggere il 99% della propria comunità ebraica grazie a un rocambolesco deportamento dalle coste danesi. Nonostante le tormente, gli stormi e le invasioni che hanno fermato la luce, i danesi hanno sempre reagito con perentorietà. Il faro della costa buca da sotto la cortina nera, guidando le navi al porto; solo per loro, la vita continua attraverso il balenare dell’apocalisse.

Hjulmand, allenatore per caso

Su quelle stesse coste ha speso gran parte della sua vita Kasper Hjulmand, attuale ct della Danimarca. Senza la sua storia, questa Nazionale non si sarebbe mai spinta fino alla semifinale dell’Europeo. Hjulmand è stato definito spesso come “allenatore per caso”. Proprio come la ricorrenza di quel particolare incantesimo celeste, il pallone si è ripresentato più volte tra i piedi di Kasper tramite coincidenze improvvise, fino a diventare parte inscindibile della sua esistenza con un terrificante boato.
Impacciato, introverso e avulso a qualsiasi pratica di leadership, Hjulmand ha speso buona parte della sua vita immerso negli scritti dei poeti danesi dell’Ottocento. Il suo percorso di uomo, prim’ancora che d’allenatore, risponde a una lunghissima ricerca d’identità. Ancora accartocciato nei suoi estensivi studi di filosofia, varcò il confine danese per la prima volta nel 1994, partendo per la volta dell’America. Era stato un certo Roy Hodgson a raccomandarlo all’head coach della University of North Florida. A Jacksonville l’allora 22enne danese si improvvisò terzino, maturando definitivamente la passione per il gioco più bello del mondo. Quattro anni dopo, archiviata una modestissima carriera da giocatore a causa di sette infortuni al ginocchio, avviò una ben più remunerativa carriera da allenatore.
Fece gavetta al Lyngby, squadra di un piccolo centro a nord di Copenhagen, prima di scommettere sul Nordsjaelland. Si trattava di un piccolo club senza una vera e propria storia alle spalle, nato sulle coste del nord, in un piccolo villaggio di soli 20.000 abitanti chiamato Farum.
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Hjulmand, Nordsjaelland

Credit Foto Getty Images

Richter, il primo fulmine a ciel sereno

Durante un’amichevole nel 2009 contro lo Hvidovre (squadra che lanciò la carriera di Peter Schmeichel), Hjulmand era seduto in panchina assieme al capo allenatore Morten Wieghorst: improvvisamente una colonna di luce bianca si schiantò sull’erba, colpendo in pieno il centrocampista Jonathan Richter.
La violenta scarica lo attraversò completamente, lasciandolo privo di sensi. Sotto un cielo coperto da una coltre color pece, i medici non tentennarono nemmeno per mezzo secondo. Il 24enne di proprietà del Nordsjaelland andò in arresto cardiaco; dopo un coma farmacologico durato due settimane e l’amputazione della gamba sinistra, Richter fu da considerarsi fuori pericolo. In seguito, Richter intraprese una fortunata carriera da direttore sportivo e giocatore di basket in carrozzina. In quegli attimi di pura follia abbattutisi sotto una spessa e tetra coltre di nubi, il personale addetto e le squadre coinvolte avevano mantenuto il sangue freddo, salvando la vita al giocatore. Nei mesi seguenti, Hjulmand e Wieghorst costruirono una cupola di calma e dialogo attorno ai giocatori coinvolti nell’evento.
Nel 2011 Hjulmand venne promosso al ruolo di manager. L’allenatore di poche, fugaci parole, si rivelò un incredibile ascoltatore, una stampella psicologica fondamentale per il proseguo della stagione. Tre anni dopo, gli uomini di Hjulmand vinsero il primo titolo nazionale nella storia del Nordsjaelland, arrivando persino a frenare la Juventus di Antonio Conte nei gironi di Champions League.

Wieghorst, malattia e rinascita

L’incorruttibile calma mostrata dall’allenatore davanti agli squarci improvvisi della vita, derivava dall’esperienza assorbita nel corso di quegli anni: fu proprio Morten Wieghorst ad insegnargli che nel calcio, prim’ancora delle tattiche e della tecnica, conta l’identità; la voglia di combattere e reagire quando sotto ai nostri piedi il mondo si capovolge improvvisamente. E queste capacità si prelevano dalla vita, non di certo dal campo. Wieghorst ne era più consapevole di tutti: storico giocatore dei Celtics, di punto in bianco gli venne diagnosticata la sindrome di Guillain-Barré, un disturbo autoimmune che colpisce i nervi; la malattia investì Wieghorst proprio sul finale di carriera: in poco tempo il centrocampista danese venne paralizzato agli arti; nei mesi peggiori, necessitava di un ventilatore polmonare per continuare a respirare.
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Wieghorst, Hjulmand

Credit Foto Getty Images

Fu costretto a lottare giorno dopo giorno per riguadagnare il controllo sul proprio corpo. Determinato, lucido, razionale lottò contro un male invisibile. Seguì fedelmente il ciclo di cure, la guarigione fu rapidissima. Wieghorst si rimise presto in carreggiata, e al momento di conoscere Hjulmand sulla panchina del Nordsjaelland, si promise di applicare quella sua esperienza sul campo.
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Wieghorst, Hjulmand

Credit Foto Getty Images

Eriksen, mentre tutto si ferma

A Euro 2020, quando Christian Eriksen è crollato esanime vicino alla bandierina del campo, Hjulmand e Wieghorst sono tornati indietro di 12 anni, sul campo dello Hvidovre. Sopra le teste dei danesi, il sole è tornato improvvisamente opaco. L’irruzione di qualcosa che era troppo reale per una partita di calcio, ha fatto reagire il mondo intero attraverso la grammatica dell’allucinazione. Ci siamo messi le mani sul volto o tra i capelli, abbiamo cominciato a pregare, a catalogare l’evento come assurdo. Tutti ci siamo bloccati per almeno un secondo, sopraffatti dall’immediatezza con cui tale caotica informazione aveva viaggiato attraverso i nostri schermi. Ci siamo fermati tutti tranne loro, i giocatori danesi. Gli unici consapevoli del fatto che quell'improvvisa ombra non significasse la fine della luce, ma solo una passeggera migrazione.
Con una presa ferrea sulla ragione, hanno impiegato pochissimo tempo per compattarsi in un cerchio, a protezione del loro compagno. Al fianco dei soccorritori, lo hanno assistito durante quei minuti di angoscia, mentre il mondo per tutti gli altri pareva rovesciato. Il capitano Simon Kjaer ha dimostrato un’umanità essenziale nel consolare la moglie di Christian. I danesi hanno agito da squadra serrando le fila: coordinati, geometrici, stretti in un cerchio inscindibile, mentre il mondo ai loro piedi vacillava.
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Eriksen murales

Credit Foto Getty Images

L’impressione sempre più nitida che affiora osservando le recenti peripezie della Nazionale danese, è che tutto questo assomigli sempre meno alla realtà simulata dal gioco; che quel rettangolo verde sia un sottile frammento di tessuto facente parte di una trama ben più estesa e al contempo stesso sedimentata ben più a fondo. Trama genetica, storica, culturale. Trama dell’essere, che ci informa su un popolo, su che cosa voglia dire essere danesi. E forse questo Europeo ce lo sta insegnando meglio di qualunque altra storia possibile. Forse il bello di essere danesi risiede proprio in questo rocambolesco gioco di causa-effetto: reagire compatti e lucidi al materializzarsi improvviso del tragico, dell’aberrante. E per qualche strano motivo, l’irrompere improvviso della sciagura si accanisce spesso su questo popolo e su questa squadra. E per qualche altrettanto incomprensibile intreccio del destino, queste sciagure hanno sempre fortificato lo spirito dei danesi.
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Simon Kjaer tröstet die Freundin von Christian Eriksen

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Danesi, lo si diventa all'improvviso

Quando il 12 giugno 2021, il sole sopra il Parken è diventato nero, la panchina danese orchestrata da Hjulmand e Wieghorst sapeva esattamente come comportarsi. E lo sapevano anche il capitano Kjaer, e tutti i giocatori cinti attorno al compagno Eriksen. Pur non trattenendo le lacrime, hanno agito da squadra. Dimostrando ancora una volta che danesi non si nasce, ma lo si diventa all’improvviso. Non c’è niente da fare, sembrano ragionare meglio di tutti sotto il telo nero dell’Apocalisse. La reazione all’improbabile e all'inaspettato li ha sempre resi una squadra; fu un fulmine a ciel sereno anche quella convocazione per Euro 1992: i danesi capitanati da Peter Schmeichel finirono per vincere da ripescati dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sfociare di una nuova tremenda guerra tra i Balcani con la conseguente esclusione della Jugoslavia dall’Europeo.
La Danimarca si è riscoperta in questa trama surreale: la nazionale dell’impossibile e dell’improvviso, che ha scritto un’epopea scaturita dal rischio, dal cortocircuito tra la bolla razionale del calcio e l’assurdo che c’è là fuori. Essere danesi e giocare da danesi, ha sempre significato questo: e non è un caso se la “generazione d’oro” o "danish dynamite" degli anni ’80 (Michael Laudrup, Elkjaer, Arnesen, i fratelli Olsen) non vinse mai nulla: li chiamavano anche i “brasiliani del nord” per via del gioco pirotecnico e sopraffino espresso sul campo, e forse tale paragone era azzeccatissimo: era una nazionale bellissima, con una potenza di fuoco impressionante, ma pur sempre individualista e mai danese fino in fondo.
Al tramonto dell’era Piontek, a inizio anni ’90, la Danimarca sembrava aver intrapreso una parabola discendente verso il dilettantismo che aveva caratterizzato gran parte della sua storia. La qualificazione agli Europei era sfumata, ma con l’infiammarsi delle Guerre jugoslave, i giocatori danesi vennero richiamati immediatamente dalle vacanze con una telefonata surreale. Una nazionale spaesata e arrangiata a spanne dal ct Moller Nielsen, si trasformò di fronte all’irruenta evenienza in un’efficiente orchestra capace di scardinare persino la Francia allenata da Platini e l’Olanda di van Basten.
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Peter Schmeichel, Danimarca

Credit Foto Imago

Quasi trent’anni dopo, Kasper Hjulmand ha riportato la Danimarca alle semifinali di un Europeo, riconciliando la nazionale a un condiviso sentore popolare; costretti a reagire di fronte alla più atroce delle avversità, i danesi si sono riscoperti una squadra coesa. Ma questo è anche il frutto di una continua ricerca identitaria avviata proprio da Hjulmand, ancora una volta da considerarsi “c.t. per caso”: infatti, se l’emergenza Covid non fosse mai irrotta sul calcio internazionale portando al posticipo di Euro 2020, Hjulmand e Wieghorst non si sarebbero mai seduti sulla panchina della nazionale danese. Invece il rinvio della competizione ha portato allo scadere del contratto di Age Hareide, c.t. uscente. Con una mossa a sorpresa, la Federazione danese ha deciso di non rinnovare il contratto di Hareide, scommettendo su Hjulmand.
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Galles-Danimarca: esultanza danese al gol di Dolberg al 27'

Credit Foto Getty Images

In piena quarantena, Hjulmand e Wieghorst si sono impegnati in una ricerca ai confini del calcio: Hjulmand era convinto che l’identità della squadra dovesse per forza di cose ricalcare l’identità della nazione; perciò ha intrapreso colloqui con diverse fasce sociali danesi, da politici, ad aristocratici, passando per imprenditori e artisti. "Cosa rappresenta per voi la Danimarca? E cosa vorreste vedere dalla vostra nazionale?”, chiedeva loro. In quell’interminabile periodo di stallo dettato dalla pandemia, ha steso il modello per la ripresa di un calcio identitario; un calcio che supera finalmente il pragmatismo mostrato dalle ultime compagini danesi, attraverso il gioco di squadra e la partecipazione collettiva. Un calcio dal potenziale incandescente, che matura e brilla nei momenti più cupi, anche quando la luce del sole smette di filtrare improvvisamente.
Nelle conferenze stampa successive alla sciagura di Eriksen, Hjulmand l’ha ribadito continuamente:
It all starts with who we are.
“Parte tutto da chi siamo”. E’ una questione di identità, è questione di sentirsi danesi e giocare come danesi. Questo fattore precede e al contempo stesso travalica qualsiasi ragionamento sulla tattica, sulla caratura tecnica dell’avversario. A Wembley contro l’Inghilterra pare proprio che la Danimarca avrà tutti contro: pronostici, pubblico, giocatori… persino il sole volterà loro la faccia. E loro, che proprio in questa estate si sono sentiti danesi all’improvviso, non aspettavano occasione migliore. Compatti e lucidi, quindi: per la Danimarca di Hjulmand è una questione di identità.
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Danimarca-Russia 4-1: tifosi impazziti in fanzone

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