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L'affare Neymar non è uno scandalo, è "solo" la morte del Fair Play Finanziario

Mattia Fontana

Aggiornato 04/08/2017 alle 09:25 GMT+2

La trattativa più clamorosa dell’estate è una svolta netta e presenta uno scenario mai verificatosi prima nella storia del calcio: adesso diventa davvero difficile poter sostenere la validità del progetto varato da Michel Platini nel 2009.

Neymar gegen Real Madrid

Credit Foto Eurosport

Chissà come avrà vissuto il passaggio di Neymar al PSG il rivoluzionario del calcio, quel Michel Platini che otto anni fa si fece promotore del Fair Play Finanziario e che, ora, sta scontando i quattro anni di squalifica imposti dal Tribunale Arbitrale dello Sport nel 2016. Perché quanto accaduto in questi giorni potrebbe scrivere davvero la parola fine nell’intricata storia del Fair Play Finanziario, la creatura prediletta dell’ex presidente UEFA.

Un "capolavoro" chiamato Neymar

La pietra dello scandalo, non c’è che dire. Una trattativa che ha ridefinito i canoni del calciomercato, non soltanto per le cifre da record, quanto per le modalità. Tutto inizia con una sponsorizzazione da 300 milioni di euro, quella che la Qatar Sports Investment ha deciso di retribuire a Neymar per farne l’ambasciatore del Mondiale 2022. Una somma che gli ha permesso di pagarsi in proprio la clausola rescissoria fissata dal Barcellona a 222 milioni di euro. E, poi, di firmare per il PSG, guarda caso di proprietà di Nasser Al-Khelaifi, numero uno anche della stessa Qatar Sports Investment. Qualcosa di mai visto prima. Anche perché, così, i conti del PSG rimarranno in perfetto equilibrio finanziario, dribblando ogni possibile sanzione del Fair Play Finanziario. E la UEFA? Ha lasciato intendere che indagherà, il tutto mentre Neymar completava il proprio iter con pool di avvocati al seguito. I buoi, in sostanza, sono già scappati. Capolinea, gente.
Come funziona l'affare Neymar

Il progetto di Platini

Il Fair Play Finanziario è stato approvato dalla UEFA nel 2009 ed è stato introdotto a partire dalla stagione 2011-12 con l’obiettivo dichiarato dall’allora presidente Michel Platini di impedire che i club spendessero più di quanto guadagnato. "Ci saranno sempre società più ricche – disse allora – e società più povere. Quello che noi vogliamo è che i club, più o meno ricchi, non spendano più di quanto guadagnano e che raggiungano la parità di bilancio, unico metodo certo affinché sopravvivano”. Un progetto tanto bello quanto di difficile esecuzione. Perché, se è innegabile che alcune squadre insolventi come Besiktas, Malaga e Partizan Belgrado sono state nel corso degli anni escluse dalle competizioni UEFA, è altrettanto palese che molte altre siano riuscite con successo ad aggirare i vincoli imposti dal FPF. Chi? Le solite note...

I primi sintomi del disagio: le sponsorizzazioni di City e PSG

In molti avevano già storto il naso da tempo. Ovvero da quando nel 2011 il Manchester City dello sceicco Mansour (fratellastro del presidente degli Emirati Arabi Uniti) annunciava un accordo di sponsorizzazione decennale dello stadio con la Etihad Airways, guarda caso di Abu Dhabi. Il tutto per 350 milioni di sterline, ovvero il doppio rispetto al record precedente stabilito dal Madison Square Garden di New York. Si parlò di sponsorizzazione gonfiata, di un rifinanziamento illecito da parte della stessa famiglia controllante del club. Qualcosa di simile in tutto e per tutto a quanto accaduto nel 2012 a Parigi, quando il PSG arrivò a sottoscrivere una sponsorizzazione quadriennale con l’Autorità del Turismo del Qatar per 800 milioni di dollari complessivi. Anche qui gli stessi sospetti. Che cosa fece la UEFA? Nel 2014 sanzionò entrambi i club con una multa da 60 milioni di euro a cui aggiunse un tetto alle spese di una sessione di mercato e la riduzione della rosa in lista UEFA (da 25 a 21 giocatori). Non per gli accordi di sponsorizzazione (al riguardo dei quali è giunta una sorta di reprimenda e nulla più), ma soltanto per aver sforato i limiti del Fair Play Finanziario in termini di spese. Non benissimo, specie se aggiungete il fatto che – regolarizzando i rispettivi conti – ai due club sono stati poi restituiti due terzi della multa. Un nulla di fatto bello e buono.

Le ragioni di una disparità

Il problema è fin troppo evidente. Il Fair Play Finanziario esiste, ma soltanto per chi non può permettersi di aggirare le norme con sponsorizzazioni astronomiche. Un concetto nemmeno negativo in termini assoluti, eppure estremamente dannoso se si considerano i casi degli sceicchi già citati. Perché un conto è sviluppare il marketing e gli introiti commerciali, un altro è sottoscrivere accordi come quelli di Manchester City e PSG, alquanto sospetti. Di fatto, è grazie a sponsorizzazioni come queste che i due club si sono innestati nel ristretto novero delle grandi mondiali. E dunque? Il Fair Play Finanziario, nel corso di questi anni, è parso soprattutto l’arma impropria per eliminare dal mondo del calcio i vecchi modelli di gestione patronale, facendo spazio a finanza e nuovi ricchi. Ma non è mai stato e mai sarà uno strumento di giustizia pallonara. Il caso Neymar non può per questo essere interpretato come un'eccezione, bensì come la più clamorosa conferma di una regola. Non solo il Fair Play Finanziario è morto. Non è nemmeno mai esistito realmente.
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