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Lavagna tattica, gli italiani che hanno cambiato il calcio: Facchetti, il moderno del catenaccio

Mattia Fontana

Aggiornato 18/07/2016 alle 08:20 GMT+2

Nelle estati precedenti abbiamo provato a raccontarvi in pillole la storia tattica del calcio e l’evoluzione dei rispettivi ruoli nel corso del tempo. Ora, è tempo di concentrarsi sui singoli. E di scrivere in cinque puntate i ritratti di altrettanti giocatori italiani che hanno cambiato il nostro calcio portandolo nel futuro.

Giacinto Facchetti Italia

Credit Foto Imago

Nelle estati precedenti abbiamo provato a raccontarvi in pillole la storia tattica del calcio e l’evoluzione dei rispettivi ruoli nel corso del tempo. Ora, è tempo di concentrarsi sui singoli. E di scrivere in cinque puntate i ritratti di altrettanti giocatori italiani che hanno cambiato il nostro calcio portandolo nel futuro. Classe, intelligenza e polivalenza. Tre qualità indispensabili per divenire competitivi nel football odierno.
Era un calcio feroce. A fiorire, su quel terreno di durezza, erano soprattutto le astuzie, le furbizie e, in buona sostanza, ogni tipo di stratagemma utile a esaltare la logica machiavellica di fondo. Lo chiamavano catenaccio, l’italianizzazione del Verrou. Un sistema tattico di chiusura difensiva e ripartenza, di sacrificio e di lotta. Di ricerca disperata del successo attraverso ogni mezzo possibile, anche l’imbroglio. Immaginate un contesto simile. E, poi, inserite in questo quadro Giacinto Facchetti. Non serve molto per capire che, sin dagli anni 60, il Cipe era abituato a sentirsi diverso. Una diversità su cui ha costruito la propria carriera, ha impostato la vita. Grazie alla quale, in fondo, ha rivoluzionato il nostro calcio.
La storia di Facchetti in nerazzurro. Con l’episodio dell’unica espulsione in carriera, per l’applauso all’arbitro Vannucchi in Inter-Fiorentina del 13 aprile 1975.

Il primo terzino fluidificante

Ora è normale vedere i due esterni difensivi proporsi in avanti, con o senza palla. Andare sul fondo e crossare come ali, senza dimenticarsi di coprire come stopper e muoversi alla perfezione nell’applicazione del fuorigioco. Fino agli anni 60, però, non era così. Nella Piramide, il primo abbozzo di tattica pallonara, i terzini altro non erano che i full-backs, gli ultimi difensori della squadra, quelli preposti alla copertura della squadra. Poco cambiava con il Metodo, molto con l’avvento del 4-2-4 imposto dal Brasile del 1958. La Seleçao per la prima volta campione del mondo fondò la propria forza anche sull’apporto in fase offensiva di Djalma Santos e Nilton Santos, due laterali difensivi in grado di difendere e attaccare. Una rivoluzione fatta propria dalla grande Olanda degli anni 70, ma rielaborata in parte anche dalle nostre parti. Nel regno del Catenaccio, pensare a due laterali di spinta era troppo. Un terzino, il destro, rimase a muoversi da stopper aggiunto. La corsia di sinistra, invece, divenne il territorio prediletto della sperimentazione. A partire dalla Grande Inter, quella di Helenio Herrera e di Facchetti. Il primo terzino fluidificante del nostro calcio.
Diventerai il miglior terzino del mondo
Facchetti fa il suo esordio da attaccante nella Trevigliese, la squadra del proprio paese. A 16 anni se lo contendono Atalanta e Inter. Alla fine, la spunta quest’ultima. La trafila nelle squadre giovanili, però, dura poco. E il 5 maggio 1961, a 18 anni, debutta con i grandi in Coppa delle Fiere. 16 giorni dopo, è in campo dall’inizio anche in Serie A, contro la Roma. Herrera gli affida Alcides Ghiggia, campione del mondo 1950. “In due anni diventerà il miglior terzino al mondo e sarà in Nazionale, segnerà 60 gol”, la profezia del Mago. Mai parole furono più azzeccate. Nonostante l’opposizione di Gianni Brera, convinto che fosse uno spreco spostare dalla prima linea un giocatore dotato di un fisico da 188 cm per 84 kg. “Facchetti è un grande grandissimo centravanti in potenza. Lo vedo corricchiare con ineffabile eleganza e penso a Ribot attaccato alle stanghe di un menalatte. Perché deve essere terzino d’ala? Moratti mi diceva: se non l’avesse scritto lei, Herrera ne farebbe un grandissimo centravanti. Non può ricevere idee da un giornalista”, scrisse dopo una sua doppietta alla Juventus di qualche anno più avanti. Il perché, a distanza di anni, è fin troppo ovvio.
Le migliori azioni della carriera di Facchetti. Classe, potenza e tecnica. Se non avesse la maglia numero 3, nessuno l’avrebbe definito un terzino.
Non sopportava i furbi o i violenti. Aveva un fisico eccezionale che sprigionava potenza, un’elegante falcata da quattrocentista. Era un po’ carente in fase difensiva, pativa un po’ le ali scattanti e dal dribbling stretto, ma grazie alla sua alta statura era una contraerea molto efficace sui palloni che spiovevano in area. Era spettacolare quando s’involava verso la porta avversaria. Distendeva la falcata e diventava imprendibile. Un attaccante aggiunto e ha segnato quasi come un attaccante, raggiungendo il record di 10 gol in una stagione. Con i suoi tiri squassanti in corsa o con i suoi colpi di testa ci ha risolto più di una partita. Il primo grande difensore fluidificante dell’era moderna. - Mario Corso

Poesia in movimento

La rudezza di quel calcio necessitava di valvole di sfogo per imporsi ad alto livello, non solo in Italia ma in Europa. La classe di Mazzola e Suarez, certo. Le invenzioni di Corso, ovvio. E i movimenti dalle retrovie, le incursioni a sorpresa di Facchetti. Alto, statuario. Eppure dotato di un’eleganza rara. La stessa che gli permetteva di inserirsi con intelligenza durante i memorabili contropiede nerazzurri, di colpire con il tiro dalla distanza e di incornare da centravanti d’area. La marcatura pura – soprattutto per una questione di leve lunghe – era inizialmente il suo tallone d’Achille. Ma l’intelligenza lo avrebbe portato a divenire il primo terzino completo del nostro calcio. Utile in difesa, poesia nei movimenti offensivi. Un grimaldello letale nell’epoca della marcatura a uomo, quando nessuno si sarebbe atteso tali minacce da quello che – di fatto – era soltanto il numero 3 avversario. Quello, però, capace di segnare 75 gol in maglia nerazzurra e di toccare le 10 reti in una stagione singola di Serie A (1965-66).
Chi era Facchetti

Un’eredità senza tempo

L’intuizione di Herrera ha lasciato un patrimonio notevole al calcio italiano. La diversità di Facchetti, nell’epoca del Catenaccio e non solo, ha donato un tocco poetico a un football rude, nel quale pareva un marziano. Senza di lui, non avremmo probabilmente mai ammirato la linea evolutiva che si sarebbe conclusa con Paolo Maldini, passando per Antonio Cabrini e sfiorando anche il Fabio Grosso del 2006. Il fiore all’occhiello nella storia difensiva del nostro calcio. La classe e l’attenzione, il talento e l’abnegazione. Il meglio del nostro meglio. Nonostante, all’epoca, nemmeno Brera se ne fosse accorto.
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