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Avrei voluto essere Pantani: Davide Tassi porta a teatro la storia del Pirata

Andrea Tabacco

Aggiornato 08/01/2016 alle 19:51 GMT+1

Martedì 12 gennaio debutta al teatro Ambra alla Garbatella di Roma uno spettacolo interamente dedicato alla vita dello scalatore di Cesenatico. Ce lo siamo fatti raccontare in anteprima da Davide Tassi, colui che lo ha scritto e che lo interpreterà sul palcoscenico. Il suo ricordo di Pantani è onesto e rispettoso.

Avrei voluto essere Pantani

Credit Foto From Official Website

Al telefono Davide Tassi ha la voce stanca di chi è reduce da ore e ore di prove a teatro. D'altronde il giorno del debutto di “Avrei voluto essere Pantani” si avvicina (martedì 12 gennaio al teatro Ambra alla Garbatella di Roma, resterà lì fino al 17) “e negli ultimi giorni i problemi di solito si moltiplicano”. Nonostante l’ora tarda, Davide ha voglia di parlare, di raccontare cosa c’è dietro quell’ora e dieci minuti di monologo cui gli spettatori, se lo vorranno, avranno il piacere di assistere. Con questo spettacolo ha voluto rompere un po’ gli schemi: ha 44 anni, Davide, e da ormai 10 scrive i testi che porta in scena. L’attore lo fa da una vita, ma con Marco è la prima volta che affronta un argomento di cronaca. Per non parlare poi di temi di sport: mai toccati. Il mondo-Pantani, però, lo incuriosisce da sempre. E dopo oltre un anno di ricerche, viaggi e interviste, è pronto a raccontare la sua versione dei fatti.

Com’è nata l’idea di fare uno spettacolo su Pantani?

Un po’ per caso, devo dire la verità, anche se sono sempre stato incuriosito dalla vicenda del complotto. Solitamente non parto mai con l’idea di portare in scena ciò che studio, anzi: di solito è il contrario. Mi appassiono a un argomento, lo approfondisco e poi, sulla base di quello di cui sono venuto a conoscenza, decido se c’è il materiale per farne uno spettacolo. Con Pantani è successo questo. Ho cominciato ad approfondire la sua storia e mi si è aperto un mondo. E’ stato un lavoro lunghissimo e molto complesso. Tutto quello che viene raccontato su di lui è assolutamente verosimile, ma ai miei occhi era come se di tutta la storia fosse stata raccontata solo una parte. Come si ci avessero fornito un’immagine a metà. Ecco, io volevo vederla tutta, quell’immagine. E raccontarla.

Ho letto che prima di scrivere la sceneggiatura hai incontrato e intervistato tanti corridori. Che idea ti sei fatto di quel mondo?

Ho letto 18 libri su di lui e studiato tutte le fiction che lo hanno visto protagonista. Tutto questo ovviamente non mi bastava. Avevo bisogno di parlare con chi lo conosceva bene. I corridori mi hanno aiutato, in particolar modo Filippo Simeoni e Roberto Petito. Con loro ho scoperto il lato umano di Marco, una parte che amo approfondire di tutti i personaggi che vado a rappresentare in scena. Ed è questo il motivo per cui lavoro fianco a fianco con psichiatri che mi aiutano molto in questo senso. Della morte di Pantani, invece, ho preferito non parlare. Non volevo mancare di rispetto alla sua famiglia. Quello che mi interessava era comprendere cosa fosse realmente successo e fornire al pubblico la mia versione dei fatti, ciò che avevo capito e quello che avevo scoperto. Non è importante parlare del Pantani dopato o del Pantani non dopato. Meglio, invece, concentrarsi sul sistema che in quegli anni aveva consentito a quasi tutti gli atleti del gruppo di ricorrere al doping per migliorare le prestazioni.

Hai scoperto cose nuove?

In realtà sono solo venuto a conoscenza di ciò che le istituzioni e tanti giornalisti già sapevano, ma che nel corso degli anni hanno fatto di tutto per celare, salvo poi accanirsi contro chi veniva beccato. E Pantani, in questo senso, è l’esempio più eclatante.

Come hai conosciuto Alessandro Donati (icona mondiale della lotta al doping che reciterà al suo fianco in alcune parti dello spettacolo, ndr)?

Devo essere onesto, non lo conoscevo. Non sapevo nemmeno quale lavoro facesse. Poi, studiando la vicenda-Pantani mi sono imbattuto in due suoi libri – “Campioni senza valore” e “Lo sport del doping” – e ho capito che avrei dovuto incontrarlo. E avevo ragione: siamo diventati amici, e si è rivelata una persona in grado di aprirmi la mente, che mi ha fatto ragionare su tante cose e che mi ha aiutato moltissimo nella costruzione della sceneggiatura. Ha denunciato il doping da dentro: era il personaggio che mi serviva.

Cosa ti piacerebbe che la gente fosse portata a pensare dopo aver visto lo spettacolo?

Vorrei che la gente capisse che nello sport, così come nella vita in generale, non ci sono solo la fazione dei favorevoli e quella dei contrari. Di quelli che dicono “Pantani si drogava” e di quelli che rispondono con “Pantani non ha mai preso nulla”. Spesso le notizie arrivano tramite modalità edulcorate, che rispondono solo parzialmente alla realtà. Il mio obiettivo è denunciare le istituzioni che in quegli anni hanno creato il sistema che ha permesso al doping di impadronirsi del ciclismo, in questo caso specifico, e dello sport in generale.
Marco Pantani - Davide Tassi

Il tuo personaggio corrisponde a un corridore reale? E’ vero che non vuoi rivelarne il nome?

Io faccio la parte di un gregario amico di Pantani, che correva in gruppo con lui, ma che non faceva parte della sua squadra. Non è vero che è una persona di cui non voglio fare il nome. E’ come se fossero tanti corridori messi insieme. Nella prima parte dello spettacolo racconto il Pantani-corridore, dal mio punto di vista il più grande scalatore di tutti i tempi, uno di quegli sportivi in grado di emozionare il pubblico a prescindere dal tifo. L’atleta che ti inchioda sul divano di casa in uno splendido pomeriggio di luglio quando invece avresti un sacco di cose da fare all’aria aperta. Nella seconda, invece, mi concentro su ciò che ho scoperto e che dirò tramite questo corridore amico del Pirata. Bada bene, ho detto che ho scoperto, non che ho intuito.

Ovvero…

In quegli anni la pratica-doping era cosa comune. Lo sapevano tutti, le istituzioni e i giornalisti, solo che nessuno voleva che la cosa venisse fuori. Negli anni ’90 d’altronde era impossibile vincere senza Epo. Era una sostanza che in salita faceva guadagnare anche 15 minuti: impensabile non ricorrere al doping per conquistare un Tour de France o un Giro d’Italia.

Ora che sei entrato in contatto con il suo mondo, perché – secondo te – Pantani non è mai riuscito a risollevarsi dopo Madonna di Campiglio, facendosi vincere da depressione e cocaina?

Man mano che approfondivo l’argomento cresceva in me una domanda. Perché un ragazzo così giovane (nel 1999, a Madonna di Campiglio, Pantani ha ‘solo’ 29 anni, ndr) non ha avuto la forza di riprendersi dopo essere stato fermato per soli 15 giorni? Era il più forte, avrebbe vinto ancora, ma qualcosa lo ha frenato. La realtà è che Pantani non era uguale agli altri. Era estremamente sensibile. Non era lo sportivo-fenomeno che fa lo spaccone: era riservato, schivo. Ed è per questo che, una volta fermato, non ha saputo rialzarsi. Si è visto messo con le spalle al muro da quel sistema che tutto sapeva e che tutto celava. Sperava che quel mondo a cui lui aveva dato tutto se stesso lo avrebbe difeso, che Uci e Coni avrebbero fatto qualcosa per fargli capire che non era da solo. E invece niente. Fu accantonato. A ferirlo fu soprattutto questo, l’ipocrisia delle istituzioni. Poi, il lato debole del suo carattere purtroppo fece il resto, e lo strappò alla vita quando ancora era troppo giovane per andarsene.

Donati oggi lavora con Alex Schwazer, uno che ha ammesso il doping e oggi sogna le Olimpiadi di Rio

Alex è un bravo ragazzo, ha capito i suoi errori, ha pagato per i suoi sbagli e oggi si allena duramente per raggiungere l'obiettivo che si è fissato. A differenza di Pantani ha ammesso di aver sbagliato. O meglio, anche Marco lo aveva fatto. Era in un’intervista con Gianni Minà. “E’ vero, io ho sbagliato, ma non merito di essere trattato così”. Un’ammissione di colpa – o richiesta di aiuto – che a quei tempi non ha colto nessuno…
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